Sottotitolo:
La globalizzazione sembrava un processo irreversibile, ma è stato profondamente mutato dalla crisi dell'ultimo decennio, e la classica divisione internazionale del lavoro non funziona più. Il ritorno degli stati nazionali.
Quando l'ad di Fiat e Chrysler, Sergio Marchionne, ha posto l’alternativa ai lavoratori dell’auto e ai sindacati di abbandonare il contratto nazionale e accettare un grave peggioramento delle condizioni di lavoro, o di essere licenziati, come risultato della delocalizzazione delle due fabbriche (Pomigliano e Mirafiori) in Serbia o, eventualmente, in Canada, ha spiegato con arroganza che ciò era dovuto alla globalizzazione e ai suoi imperativi. La FIOM-CGIL, Il più grande dei sindacati metalmeccanici a livello nazionale, a differenza di CISL e UIL, ha respinto il diktat. In seguito il referendum organizzato dalla Fiat una leggera maggioranza dei lavoratori, determinata dal voto degli impiegati e dei quadri intermedi, ha votato SI. Una conclusione scontata, dal momento che l'alternativa era il licenziamento collettivo.
E’ così ricomparsa la globalizzazione come un potente strumento per attaccare il potere contrattuale dei sindacati e peggiorare le condizioni di lavoro. Non sorprendentemente, Marchionne ha avuto il sostegno del governo Berlusconi. Ma l'argomento della globalizzazione è stato accettato da una parte significativa del Partito Democratico e da non pochi intellettuali e commentatori della sinistra.
In altre parole, l'evocazione della globalizzazione ha garantito un ampio consenso a Marchionne intenzionato a sconvolgere il quadro complessivo delle relazioni industriali italiane e a colpire il potere contrattuale dei sindacati. Un consenso tanto più immotivato in quanto il capo della newco Fiat-Chrysler non ha proposto alcun piano effettivo per aumentare e migliorare la produzione di auto nelle fabbriche italiane, oggi ridotta a 600.000 unità. (Per un’analisi dettagliata si veda l’articolo precedente (www.insightweb.it - gennaio 2011).
Eppure proprio un discorso meno provinciale sulla globalizzazione avrebbe dimostrato il cambiamento in corso nel mondo della produzione e il diverso ruolo che vi gioca proprio l’industria dell’auto. Marchionne ci ha presentato un totem rotto, sia pure intrigante. Il modello di globalizzazione, così come l’avevamo conosciuto nella sua fase ascendente e trionfale di fine secolo, è stato travolto dalla crisi. Conviene fermarci brevemente su questo punto, all’apparenza scontato.
La globalizzazione era percepita fondamentalmente come la cancellazione delle frontiere nazionali e l’unificazione del pianeta sotto lo scettro della finanza internazionale, in primo luogo, delle grandi banche d’affari americane. Ma il nuovo decennio ci ha consegnato il fallimento di questo aspetto considerato irreversibile. Gli stati Uniti hanno subito due crisi finanziarie nel corso dell’ultimo decennio.
La prima nel 2001-2003 mise in luce la fragilità del sistema finanziario americano. La seconda del 2008-09 nella quale siamo ancora immersi ha assunto dimensioni globali e devastanti. Così quello che era stato considerato l’asse fondamentale della globalizzazione di fine secolo è andato in crisi insieme con l’ideologia dell’autoregolazione dei mercati.
Ma non si tratta solo di questo. Il cambiamento più radicale è probabilmente un altro. L’ascesa della globalizzazione sotto l’egida americana prevedeva una divisione del processo produttivo all’interno delle stesse imprese, basata sulla delocalizzazione della produzione ad alta intensità di lavoro nei paesi periferici - dove il lavoro non solo costa poco, ma soprattutto è immune da regole, legislazioni protettive e controllo sindacale - mentre i paesi ricchi si riservavano le produzioni tecnologicamente avanzate. In questo scenario la deindustrializzazione degli Stati Uniti, già iniziata sotto Reagan, trovava una giustificazione pratica nel principio classico della divisione internazionale del lavoro fra paesi a diversi livelli di sviluppo.
Cosa è andato storto per ritrovarci oggi immersi nella Grande Recessione dei vecchi paesi Industriali? Per dirla in breve, è successo che i paesi emergenti, i BRIC si sono affrancati dalla regola di una rigida divisione del lavoro. La Cina ce ne fornisce l’esempio più clamoroso. La globalizzazione le imponeva di produrre beni ad alta intensità di lavoro: jeans, scarpe, giocattoli e gadget elettronici. La Cina continua ovviamente a produrli. Ma non solo. Disponendo di vasti capitali, sia propri sia dall’estero, e di un immenso mercato interno ha differenziato la propria produzione verso prodotti tecnologicamente avanzati, rompendo lo schema classico della divisione della produzione tra paesi poveri e paesi ricchi.
Ha, non a caso, imposto alle multinazionali americane, europee e giapponesi che via via s’installavano sul suo territorio la compartecipazione con le grandi imprese locali, private o pubbliche, impossessandosi del know-how tecnologico. E oggi è in grado di produrre quasi tutto ciò che si produce nei vecchi paesi industriali e a costi inferiori. Ha sviluppato, in altri termini, una politica industriale, che una buona parte delle cultura occidentale, in nome della globalizzazione e dell’economia post-industriale, aveva ripudiato. Ma oggi la politica industriale riappare nei grandi paesi occidentali, anche senza pronunciarne apertamente il nome.
Il caso dell’auto è indicativo di questa nuova tendenza. Quando Barack Obama decide di investire 60 miliardi di dollari per salvare General Motors e Chrysler deve difendersi dall’attacco dei conservatori, ma sa che Gli Stati Uniti non possono fare a meno di Detroit. E quando Obama impegna grandi risorse per lo sviluppo dell’economia verde, allude concretamente a una nuova fase dell’industrializzazione, a nuovi campi dell’innovazione tecnologica nella quale il pubblico gioca un ruolo essenziale e al rilancio dell’occupazione.
Così l’auto torna è tornata sorprendentemente a proporsi come un simbolo rinnovato dell’industria manifatturiera a livello globale. La Cina, che ha già sorpassato il numero di auto prodotte negli Stati Uniti, punta a raddoppiare la produzione nei prossimi cinque anni, arrivando a 30 milioni di unità, la metà delle auto prodotte nel mondo nel 2010. La concorrenza sarà sempre più aspra e globale, ma questo non significa che i vecchi paesi industriali si ritirino. E’ vero il contrario. I governi sono sempre più presenti. Sarkozy difende l’industria francese, immettendovi risorse e imponendo al tempo stesso di mantenere in Francia la produzione e i livelli di occupazione.
In Germania l’industria dell’auto rimane al centro di un intervento convergente fra governo, impresa e sindacati. La Volkswagen che quindici anni or sono era sull’orlo della bancarotta, è l’impresa automobilistica più competitiva al mondo e punta a diventare la prima superando le case giapponesi e americane.
Ma in Germania l’auto è soprattutto il simbolo di una politica industriale complessiva. Durante la crisi, è stato deciso il mantenimento integrale dell’occupazione adottando la riduzione dell’orario per tutti col sostegno del governo. I risultati sono impressionanti. La ripresa economica è la più alta in Europa. La disoccupazione è addirittura diminuita rispetto agli anni pre-crisi. Le esportazioni sono riprese alla grande.
Ci troviamo di fronte a un insegnamento che solo la miopia e il provincialismo ideologico italiani possono oscurare. La nuova mappa della globalizzazione non elimina la necessità di una politica statale, ma la esalta. Il sindacato non è considerato un ostacolo, ma una risorsa. Gli investimenti in Germania sono decisi passando attraverso i Consigli di sorveglianza per metà composti da rappresentanti dei lavoratori. L’organizzazione del lavoro, la sua flessibilità e efficienza passano attraverso il filtro dei consigli di fabbrica, strumenti di conoscenza, controllo e consenso dei lavoratori. Le grandi imprese sì impegnano a mantenere intatta l’occupazione per gli anni a venire.
Per tornare alla saga Fiat, dobbiamo notare che il governo di destra italiano è l'unico che non sia interessato al futuro del settore automobilistico nazionale. Tuttavia, la globalizzazione non può più essere utilizzata come un argomento convincente per attaccare i sindacati e i diritti dei lavoratori. L'attacco è piuttosto il riflesso condizionato. duro a morire delle forze conservatrici, che cercano di uscire dalla crisi tornando alla vecchia politica fallimentare degli ultimi decenni.