Il "Salva-Stati" che non salva niente

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L'opinione  dei tecnici che sono della stessa scuola che ha imposto alla Grecia una “cura” da cui non si riprenderà per decenni.

L’emergenza coronavirus, le Borse che crollano, l’economia che va a picco: ce n’è più che abbastanza per assorbire tutta l’attenzione dell’opinione pubblica. Ma nel frattempo è stata fissata una riunione dell’Eurogruppo (i ministri finanziari dei paesi euro) per il 16 prossimo, e all’ordine del giorno c’è la definitiva approvazione del cosiddetto Fondo salva-Stati (Mes o Esm nella sigla inglese).

Cosiddetto, perché il nome è un imbroglio. E’ un perfetto esempio di quella che Jean-Paul Fitoussi, il più autorevole economista francese, ha definito “La neolingua dell’economia – Ovvero come dire a un malato che è in buona salute” (ed. Einaudi). Fitoussi richiama 1984 di George Orwell, che spiegava come l’uso di un certo tipo di linguaggio facesse parte degli strumenti per ottenere il controllo totale non solo sui comportamenti, ma anche sul pensiero dei cittadini. Prima di spiegare perché è un imbroglio, è bene fare un punto della situazione.

Rispetto alla riunione del dicembre scorso nulla è cambiato. L’Italia aveva chiesto che si procedesse in una logica di “pacchetto”, che cioè si discutessero insieme a quella del Mes anche le altre due riforme previste: il completamento dell’unione bancaria, con la garanzia comune dei depositi, e il nuovo “Strumento di bilancio per la convergenza e la competitività”, in pratica un fondo per promuovere gli investimenti e sostenere la domanda. Questo perché in particolare sul secondo punto c’è un aspetto estremamente critico, la proposta del ministro delle Finanze tedesco, Olaf Scholz – appoggiata dai paesi nordici e anche dalla Francia – di assegnare un rating ai titoli di Stato posseduti dalle banche, penalizzando quelle che detengono in una misura ritenuta eccessiva quelli del proprio paese. Una proposta che l’Italia considera inaccettabile, perché ci farebbe precipitare in una gravissima crisi finanziaria.

Discutere insieme le tre riforme può consentire di ottenere dall’una contrappesi agli svantaggi provocati dall’altra. Nulla di tutto questo: si è stabilito che il Mes sia approvato subito così com’è, che della garanzia comune si parlerà nel 2024 se saranno stati fatti “sufficienti progressi nella riduzione del rischio” (sottinteso: in base all’applicazione della proposta Scholz) e, quanto al fondo per gli investimenti, è stato dato mandato al presidente dell’Eurogruppo Mario Centeno di studiarlo: in altre parole, siamo a “carissimo amico”. Queste decisioni sono state riassunte in una lettera di Centeno a tutti i governi. Ce n’è già abbastanza perché l’Italia non dia la sua approvazione alla riforma del Mes, come ha chiesto un recente appello di numerosi economisti dopo il quale, appunto, nulla è cambiato. Ma perché si può affermare che quel nome è un imbroglio?

Chiunque abbia un minimo di conoscenza dei meccanismi delle crisi finanziarie sa benissimo che nessun Fondo di quel tipo potrebbe fronteggiarle, a meno che non si tratti della crisi isolata di un piccolo paese, come ad esempio Cipro. Se invece è coinvolto un paese più grande, o addirittura vari paesi come è accaduto nel 2011, c’è una sola istituzione che possa intervenire con probabilità di successo, ossia la banca centrale. E infatti questo è previsto anche nel nostro caso: l’Esm serve a dare il via libera alla Bce, la sola che possa salvare chicchessia. Il suo scopo, dunque, non è di “salvare”, ma di stabilire le condizioni alle quali il salvataggio possa avvenire. Il Fondo deciderà per esempio se il paese che vi fa ricorso debba ristrutturare il suo debito pubblico, infliggendo perdite a chi detiene i suoi titoli; e quali “riforme strutturali” vengono ritenute necessarie perché i prestiti possano essere restituiti. Niente di nuovo: lo stesso meccanismo che abbiamo visto all’opera per la Grecia, con le conseguenze che abbiamo potuto constatare.

Non solo sul piano sociale, con tagli al welfare, alle pensioni, ai salari. Perché il paese perdente è sottoposto anche al diritto di saccheggio da parte di quelli più forti. Alla Grecia si è imposto di vendere tutti i beni pubblici (come porti, aeroporti, ecc.). E siccome bisogna venderli in fretta, altrimenti le rate degli aiuti vengono bloccate, come in tutti i casi in cui si vende per bisogno (o per obbligo) il prezzo lo fa il compratore. Ne abbiamo avuto un assaggio con le nostre banche, alle quali è stato imposto di vendere gli Npl (i prestiti in sofferenza) in tempi rapidissimi, col risultato che il prezzo è stato circa il 13% del valore facciale, mentre la storia passata dice che col tempo si recupera fino al 30-40%.

Resta da ricordare chi è chiamato a prendere decisioni così fondamentali per la vita dei cittadini dello Stato interessato. Rappresentanti eletti politicamente? Non sia mai! Queste decisioni sono affidate a tecnici che non risponderanno a nessuno delle loro scelte, neanche alla legge, perché è prevista per loro l’immunità “da ogni forma di giurisdizione”, così come sono immuni da “restrizioni, regolamentazioni, controlli e moratorie di ogni genere” . E sono tenuti al segreto anche nei confronti dei rispettivi Parlamenti, regola valida anche per i ministri delle Finanze. Non tutti, però. Come ha sottolineato il docente di diritto comparato Alessandro Somma, la Germania ha ottenuto che sia data una “informativa completa al Parlamento tedesco relativa alla sua attività”; e clausole simili hanno ottenuto anche Austria, Estonia, Finlandia e Paesi Bassi. Un ruolo rilevante è affidato al direttore generale, che – guarda un po’ – è tedesco, Klaus Regling.

Quanto possiamo fidarci di questi “tecnici”? Meno di niente. Sono della stessa scuola che ha imposto alla Grecia una “cura” da cui non si riprenderà per decenni, salvo poi – anni dopo – ammettere che era stata sbagliata. E usano gli stessi criteri farlocchi, come il “Pil potenziale” e l’”output gap”, ridicolizzati da molti economisti che occupano posti di rilievo in istituzioni internazionali. E la “cura” che proporrebbero sarebbe la stessa, sempre che non inventino di peggio. Ormai, persino il Fondo monetario internazionale, da sempre custode dell’ortodossia, ha fatto autocritiche che in Europa non hanno cittadinanza.

Se dunque ci trovassimo nelle condizioni di dover chiedere aiuto, ci converrebbe fallire da soli (cioè fare default sul debito), piuttosto che affidarci a chi ha già dimostrato di non agire nell’interesse del paese in difficoltà. Abbiamo già i nostri problemi con il coronavirus, non aggiungiamone altri sottoscrivendo una riforma che non solo non ci dà vantaggi, ma può addirittura aggravare la nostra situazione. Essere europeisti non significa che bisogna essere anche ottusi. Quell'accordo non va firmato.

Carlo Clericetti

Giornalista - Collaboratore di "La Repubblica.it." Membro dell'Editorial Board di Insight. Blog: http://www.carloclericetti.it

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