Il ritorno della reaganomics

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L’accordo sulle tasse raggiunto tra presidente e Congresso proroga i tagli fiscali di Bush a vantaggio prevalentemente dei ricchi.


Più di trent’anni fa Ronald Reagan arrivava a Washington col programma preciso di ridurre le tasse a chi guadagnava di più e di “affamare” ogni aspetto dell’attività di governo che non fosse la spesa per la Difesa. Oggi, il nuovo accordo sulle tasse tra Obama e il Congresso incarna l’essenza della Reaganomics, come chiamammo la politica economica di Reagan.

E’ un accordo che non fornirà nessuno stimolo all’economia. Una porzione sproporzionata degli 858 miliardi di $ che l’accordo prevede di tagliare dalle tasse andrà all’1% degli americani più ricchi che spendono solo una frazione di quanto guadagnano e risparmiano il resto. E i loro risparmi vanno in giro per il mondo, dovunque, alla ricerca del massimo ritorno dei loro investimenti.

L’unico effetto pratico di questa aggiunta di 858 miliardi di $ sul deficit sarà quella di mettere ulteriore pressione sul partito democratico perché riduca ogni tipo di spesa pubblica non destinata alla Difesa: sicurezza sociale e Medicare (l’assistenza sanitaria per gli ultrasessantacinquenni, n.d.r.), istruzione e infrastrutture incluse. Niente di meno della strategia dell’ “affamare la bestia” di Ronald Reagan.

Nel 2013, l’anno delle prossime elezioni presidenziali, quando i democratici avranno in Congresso un potere inferiore a quello di oggi, salirà la pressione per estendere ancora di più (nel tempo ed in quantità) i tagli di tasse che nel 2001 istituì Bush, che scadevano adesso e che Obama ha voluto estendere per un biennio per accontentare i repubblicani. 

E c’è di peggio: questo accordo peserà ancora di più sul problema strutturale che in primo luogo ha causato la Grande Recessione. Il fatto è che da quando era presidente Ronald Reagan, le retribuzioni medie da lavoro in pratica non si sono mosse e che le grandi masse delle classi lavoratrici e medie d’America hanno portato a casa giorno dopo giorno, in termini reali, tenendo conto dell’inflazione, frazioni sempre minori del reddito nazionale: il lavoratore tipo maschio guadagna oggi in America meno del lavoratore maschio di trent’anni fa.

Al contrario, l’1% di americani più ricchi si porta a casa oggi una fetta del reddito della nazione più larga di quanto sia mai stata dal 1928. E ci ricordiamo tutti quel che avvenne nel 1929.

Il punto: se la grande maggioranza degli americani non ritrova sufficiente potere d’acquisto per far andare avanti l’economia senza affondare ancora di più nel debito, l’economia alla fine precipita nel baratro.

E’ proprio quel che è successo nel 1929 e nel 2008.

Alla fine degli anni ’90 le classe medie e lavoratrici potevano continuare a spendere – e mantenere così in moto l’economia – solo facendo debiti addizionali. E’ una strategia che è finita con lo scoppio della bolla speculativa edilizia nel 2007. Senza la loro capacità di spesa non ci sarà una ripresa sostenuta.

Sì, la legge fiscale che deve ancora passare darà a lavoratori e classi medie d’America qualche soldo di più l’anno prossimo. Ma solo l’anno prossimo. E non li spenderanno. Li useranno per cominciare a pagarsi i debiti.  

E, invece, le tasse notevolmente più basse sui ricchi li spingeranno a creare più posti di lavoro? Non ci pensate neanche. Dal 1980, la politica dell’offerta reaganiana aveva promesso che le tasse più leggere sui ricchi sarebbero “sgocciolate” a favore di tutti. Nulla di più lontano da quella che è stata la realtà.

Guardate alla storia. Alla cronaca.

Durante quasi trent’anni, dal 1951 al 1980, quando l’aliquota massima era fra il 70 e il 92%, la crescita media annua dell’economia americana era stata del 3,7%. Fra il 1983 e l’inizio della Grande Recessione, quando l’aliquota massima è oscillata fra il 35 e il 39%, la crescita media è stata del 3 per cento.

I tifosi della politica dell’offerta amano asserire che il taglio delle tasse di Reagan del 1981 è stato la causa del boom economico degli anni ’80. In effetti, non esiste alcuna prova di quella loro asserzione. Quel boom cominciò solo dopo l’aumento di tasse che Reagan decise nel 1982. Così come il boom degli anni ’90 non fu il risultato del taglio alle tasse: gran parte di quel boom seguì l’aumento di tasse deciso da Bill Clinton nel 1993.

E neanche i tagli alle tasse di George W. Bush (Bush il piccolo) sono stati trasmessi agli altri: fra il 2002 e il 2007, anzi, il salario medio reale è diminuito. E rispetto al risultato di Clinton, cioè con tasse più alte, in termini di creazione di lavoro quello di Bush è stato patetico: sotto Clinton, l’America in otto anni ha creato 22 milioni di nuovi posti di lavoro. Sotto Bush, in otto anni, appena 8 milioni.

Ma, allora, perché i democratici si sono messi a votare per la Reaganomics? Dicono di non avere scelta: o votano così o dal 1° gennaio avrebbero visto salire le tasse per tutti. Che i democratici si possano essere lasciati rinchiudere in questo cul de sac è testimonianza o della loro pavidità, o della loro ottusità o della dipendenza dai contributi elettorali che ricevono dagli americani più ricchi.

(Traduzione di Angelo Gennari)