Il ritorno del Gattopardo
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“Più si cambia più tutto resta uguale”. L’eurozona sembra la dimostrazione di questa filosofia. Il titolo è un epigramma di , sul suo giornale Les Guêpes (Le Vespe, gennaio 1849), Jean-Baptiste Karr scrisse: "Plus ça change, plus c'est la même chose" (letteralmente, “più si cambia più tutto resta uguale”). Nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, il nipote Tancredi cerca di convincere lo zio dicendo “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. L’eurozona sembra la dimostrazione di questa filosofia. I risultati del secondo trimestre 2014 sono stati deludenti. Il FMI segnala che la ripresa economica procede dappertutto, ma è particolarmente fiacca in eurozona. Solo due mesi fa la Commissione Europea prevedeva i seguenti tassi di crescita, di inflazione, di deficit e debito pubblici:: Rates of change Ratio to GDP
Ebbene, questi dati sono ormai superati. Sicuramente in Italia, dove forse il PIL crescerà (si fa per dire) di 0,2%. Probabilmente anche in Francia e Spagna ci sarà un rallentamento, mentre forse la Germania otterrà il suo 1,8%. Da notare che anche con i dati di maggio, se si eccettua la Germania, gli altri paesi hanno tutti un incremento del rapporto debito-PIL, perché la crescita nominale è troppo bassa rispetto al livello del deficit. Per vedere questo basta sommare i dati di crescita e inflazione e confrontare con il dato del deficit. Il risultato è che mentre nel 2008 il debito francese era quasi uguale a quello tedesco, per quest’anno la differenza sarà di ventitré punti percentuali. Il dialogo politico tra i sostenitori della flessibilità e quelli del rigore si presenta come il tipico dialogo tra sordi: “vogliamo rispettare le regole ma chiediamo flessibilità”; “le regole sono già ora flessibili”. Claude Junker ha cercato di quadrare il cerchio promettendo trecento miliardi in tre anni (a partire comunque dall’anno prossimo). Non si tratta di risorse nuove ed aggiuntive, ma semplicemente delle risorse già a disposizione della Commissione e qualche eventuale altra dotazione aggiuntiva. Va ricordato peraltro che subito dopo la sua elezione Hollande aveva proposto un programma d’investimenti a livello comunitario e nessuno aveva detto di no, ma poi semplicemente non era successo nulla. Il punto è che la destra europea non può accettare una verità che ormai si è fatta strada tra gli economisti. Cioè che, in alcuni paesi ad alto debito, un aumento nel volume assoluto del debito porta ad una riduzione, non ad un aumento, del rapporto debito-PIL. Se una spesa di un miliardo determina un incremento del PIL di più di un miliardo (diciamo 1,3-1,4) il numeratore del rapporto debito-PIL aumenta meno del denominatore. Tecnicamente ciò si verifica quando il moltiplicatore della spesa è maggiore dell’inverso del rapporto debito-PIL. Questo è sicuramente vero per paesi come Grecia, Italia, Portogallo e Irlanda, ma molto probabilmente anche per Spagna e Francia, dove ormai il rapporto debito-PIL è sul 100 per cento. Francia e Spagna hanno già avuto il permesso di ritardare il rientro del deficit rispetto al programma di medio termine. L’Italia lo sta chiedendo, senza ottenere, almeno per ora, ascolto dalla Commissione. Se le politiche fiscali continueranno a cercare di rispettare i vincoli europei, il risultato sarà una crescente divaricazione tra la Germania da un lato e gli altri tre paesi dall’altro. Neanche la politica monetaria più espansiva promessa da Draghi è in grado di produrre da sola uno stimolo sufficiente a far tornare le economie europee su un sentiero di crescita tale a riassorbire l’insostenibile livello di disoccupazione. Le banche di molti paesi, ed in particolare di quelli dell’euro-sud, si troveranno di fronte da un lato ai generosi prestiti che in autunno la BCE concederà con gli TLTRO, ma dall’altro dovrà vedersela con i vincoli di capitale posti da Basilea e verificati dagli stress test della stessa BCE. Oltre a fare i conti con il classico problema della politica monetaria espansiva, riassunto nell’espressione “il cavallo non beve”. Si ritorna quindi al solito punto: il fiscal compact che servirebbe all’eurozona è riassunto in due semplici regole: a) i paesi con debito più alto devono mirare a non farlo crescere ulteriormente, rimandando le politiche per la diminuzione a quando l’economia si sarà ripresa e la disoccupazione sarà scesa; b) i paesi con debito più basso devono farlo crescere, stimolando così la produzione complessiva. La Germania, ad esempio, dovrebbe portare il deficit al 3%. Questa, avrebbe detto Keynes, sarebbe una politica di bilancio davvero virtuosa. Il mantra comunitario è invece “fare le riforme”. Ovviamente ogni paese ha qualche cosa su cui intervenire. In Italia abbiamo livelli record di corruzione ed evasione fiscale. La giustizia, in particolare quella civile, è lenta; l’amministrazione pubblica a tutti i livelli sembra godere a creare comma 22. Ma tutti sanno che “fare le riforme” significa smantellare le norme a protezione del lavoro. Forse perché in questo modo l’occupazione crescerà magicamente? No, l’obiettivo vero è la diminuzione del costo del lavoro. In un recente paper del FMI (A. Tiffin 2014. European Productivity, Innovation and Competitiveness: The Case of Italy IMF WP maggio 2014) l’autore discute il cosiddetto “productivity puzzle” dell’export italiano; a fronte di un costo del lavoro per unità di prodotto più alto della media UE, la domanda è come mai l’Italia sia riuscita a mantenere quote sostanziali nel mercato dell’export internazionale. La destra europea è però senza dubbi: bisogna diminuire i salari per fare sì che tutti l’Europa diventi un’economia export led come la Germania. L’unico risultato di questa posizione sarà quello di affondare l’euro, e a nulla serviranno gli sforzi di Draghi. Ruggero Paladini
Economist - Professor of "Scienza delle Finanze" at University "La Sapienza" Roma; Member of the Economic Board of Insight - ruggero.paladini@uniroma1.it |