Il rischio dei partiti personali

Sottotitolo: 
Nello spirito costituzionale, alla buona politica servono “partiti-formazioni sociali”: luoghi comunitari d’educazione, crescita civile e partecipazione democratica dei cittadini.

La morte di Berlusconi – che, giudizi soggettivi a parte, ha segnato il panorama dei partiti nell’ultimo trentennio – fa riflettere proprio sulla “forma-partito”: di ieri e di oggi. Nei primi anni ’90 del ‘900 degenerazione e crisi dei partiti, da un lato, e meccanismo elettorale maggioritario, dall’altro, indussero Berlusconi a inventarsi un partito col quale vinse l’elezione nel ‘94. Poté farlo compattando la destra (ex democristiani; fascisti; leghisti) col piglio dell’imprenditore, comunicatore e proprietario di reti televisive, e coll’enorme disponibilità di soldi e personale aziendale.

Diventò primo “populista” e fondatore d’un nuovo modello di partito: il “partito personale”, contrapposto al “partito-formazione sociale”. D’allora “populismo” e “partiti personali” hanno imperversato sulla scena politica degli ultimi decenni, agevolati da TV e social-media. Perciò ora populismo e partiti personali complicano il contesto e rendono preoccupante l’ipotesi di riforme istituzionali: come presidenzialismo caro a Meloni e autonomia regionale differenziata cara a Salvini. Modificare la Costituzione per aumentare il potere del Governo è chiodo fisso della destra.

Berlusconi l’aveva tentato senza successo. I partiti personali – propri della democrazia presidenziale – sono incompatibili coll’attuale democrazia parlamentare. Nella struttura compatta della Costituzione i partiti sono “formazioni sociali”, essenziali alla partecipazione democratica. Nei “principi fondamentali” spicca l’art. 2: <<la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale>>. E l’art. 49: <<tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti politici per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale>>.  

Nello spirito costituzionale, alla buona politica servono “partiti-formazioni sociali”: luoghi comunitari d’educazione, crescita civile e partecipazione democratica dei cittadini. Che, garantiti nei diritti inviolabili, sviluppano la personalità per accollarsi i doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale.  

I “partiti personali” sono l’opposto delle “formazioni sociali”. Come pure le aggregazioni elettorali effimere e i movimenti di persone tra loro sconosciute, la cui “socialità” s’esaurisce nei “social-media”. Nel partito personale non c’è confronto tra aderenti, conta il potere del capo, esclusivo “padrone” del gruppo e interprete dell’interesse generale. Berlusconi, da vivo, ne è stato l’esempio classico. Morto lui, permane la concezione proprietaria del partito (che da “personale” diventa “familiare”). Difatti si discute della mancanza d’un erede, della sorte di Forza Italia e di chi s’approprierà del suo patrimonio elettorale, ormai non cospicuo ma necessario alla Meloni.

Gli errori dei partiti novecenteschi sono indiscutibili e magari imperdonabili. Senza però dimenticarne i meriti storici. Hanno dato al Paese una Costituzione frutto d’un Patto tra forze idealmente contrapposte (cattolici; comunisti; liberali; azionisti ecc.) ma dialoganti e unite per ricostruire il Paese – distrutto dalla guerra voluta dal fascismo e dalle relative insane alleanze – e restituire dignità alla Nazione sconfitta. Hanno garantito progresso civile, culturale ed economico del Paese – balzato tra le prime potenze industriali del mondo – e uniti hanno debellato il terrorismo. Con lo “Statuto dei lavoratori” – concepito dal socialista Brodolini, scritto dal giurista socialista Giugni e portato a termine dal democristiano Donat Cattin – hanno riscattato la classe lavoratrice. Hanno insomma assicurato libertà, eguaglianza e partecipazione secondo l’art. 3 Cost.

Se oggi l’estrema destra governa l’Italia lo deve non solo ai suoi elettori, ma anzitutto a quanti hanno difeso per un’ottantina d’anni libertà e democrazia parlamentare, a essa poco gradite. Anzi l’estrema destra, tramite sue frange, ha financo alimentato vari tentativi golpisti fortunatamente falliti.

Intendiamoci: nessuna nostalgia dei partiti novecenteschi, ma senza gettare, come si dice, “il bambino con l’acqua sporca”. L’assenza, con qualche eccezione, di formazioni sociali strutturate secondo Costituzione hanno causato: declino della “Polita alta” e dell’etica pubblica; trasformismo ricorrente; incapacità di confronto costruttivo maggioranza-opposizione; insensibilità dei cittadini per i destini del Paese. Dimostrata dall’insostenibile tasso d’astensione dal voto e dall’ignoranza di partecipare alla vita politica con metodo democratico.

Occorre allora ricostituire – non coi difetti del passato – luoghi di dialogo tra cittadini che s’incontrano, in presenza e continuità, per recuperare valori comunitari e superare l’attuale disconnessione, nella coscienza collettiva, tra “interesse generale” e “interesse personale”. E per contribuire alla formazione di dirigenti politici preparati e responsabili. In mancanza sorgeranno seri problemi culturali e pericoli autoritari. Presidenzialismo e autonomia regionale differenziata sono prospettive antidemocratiche volte a limitare la libertà di tutti e l’eguaglianza Nord-Sud. 

(Editoriale del Corriere del Mezzogiorno, 18 giugno 2023),

Mario Rusciano

Professore Emerito di Diritto del lavoro, Università di Napoli Federico II.