Per il PD più correnti che idee

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Il Partito democratico, nato dall’aggregazione delle due principali forze politiche del secolo scorso, cattolici e comunisti, perde pezzi d’elettorato e punti nei sondaggi. .    2.- Il travaglio dei DemPER IL PD PIU’ CORRENTI CHE IDEE

E’ strano che il Partito Democratico abbia scelto un percorso lungo e irto per riprendersi dalla sconfitta elettorale del 25 settembre. Certo l’operazione era, ed è, oggettivamente complicata per più ragioni, prima l’incessante lotta tra correnti interne. Una baraonda dove neanche Enrico Letta è riuscito a mettere ordine, benché pregato all’unanimità di tornare a Roma da Parigi per assicurare, da Segretario, l’unità del partito. Nicola Zingaretti s’era dimesso esasperato, anzi nauseato, dalle continue guerre tribali. Dimissioni di Zingaretti e difficoltà di Letta hanno inferto un colpo durissimo alla credibilità del PD, punito dalle urne.

Naturali le dimissioni di Letta dopo la sconfitta. Lui però – forse illudendosi che questa sarebbe servita da lezione agli agguerriti leader delle correnti – scelse di rinviare gli effetti delle dimissioni alla data d’un Congresso decisivo per il destino del partito: non un normale Congresso, ma una sorta d’ineludibile “momento della verità”, talmente importante da giustificarne la data a molti mesi di distanza.

Un tempo lunghissimo rispetto alla velocità supersonica degli avvenimenti politici e socioeconomici. Ritenuto però necessario sia a elaborare seri programmi, ascoltando i cittadini, sia a ricucire l’unità del PD. Insomma necessario a preparare un Congresso capace di deciderne il futuro politico. E invece, in vista delle scadenze congressuali, si è parlato soltanto di candidature, modalità e tempi dell’elezione del Segretario.

Insomma (come dice Antonio Polito sul Corriere della sera) soltanto di regole: per eleggere il Segretario, meglio le primarie o il Congresso? Stabilite le primarie, nuova diatriba: farle nei gazebo oppure on line? Di problemi fondamentali, contenuti e programmi significativi s’è sentito poco o niente. Tutti a guardare il dito e non la luna!

Nel frattempo, grazie anche alla scandalosa vicenda del cosiddetto Qatargate, il PD perde pezzi d’elettorato e punti nei sondaggi. Ciò succede per giunta durante la campagna elettorale in due importanti Regioni come Lazio e Lombardia (oltre quindici milioni di cittadini). Campagna che, avendo causato pure il rinvio delle primarie a fine febbraio, mostra un PD poco preparato e molto disorientato.

Se l’attuale quadro è sconfortante, il futuro è fosco. Ed è un vulnus per la democrazia italiana. Se non altro perché il PD è nato, nella prima decade di questo secolo, dall’aggregazione sotto lo stesso simbolo delle due principali forze politiche del secolo scorso: cattolici e comunisti. Due forze che – a differenza di tutte le altre in campo – hanno una storica proficua militanza nella ricostruzione materiale e morale del Paese nel dopoguerra. Con diversità di punti di vista, certo, ma con unità nella fondazione della Repubblica e nella scrittura della Costituzione. E con classi dirigenti ed esperienze di governo di tutto rispetto.

Il problema, forse sottovalutato all’atto della fusione, è che nei precedenti cinquant’anni le due forze, sulle strategie politico-economiche, se l’erano date di santa ragione. Aveva senso mettersi assieme? L’idea nacque, a metà degli anni ’90, in regime elettorale maggioritario, per contrapporsi alla destra di Berlusconi. Fu poi concretizzata da Romano Prodi: che – prima con l’Ulivo, poi con l’Unione – riuscì a batterla per due volte (mai però a governare per un’intera legislatura).

All’epoca intellettuali delle due aree politiche criticarono la “fusione fredda”, perché l’unirsi non era frutto d’una meditata costruzione strategica unitaria e lungimirante bensì d’una circostanza contingente: Berlusconi, senza andare per il sottile, aveva riunito svariate componenti della destra; per contrastarlo occorreva unirsi anche a sinistra. Una seria prospettiva politica avrebbe invece richiesto ben altri itinerari filosofico-politici. Per esempio: un confronto sulla concezione d’un nuovo umanesimo nella modernità e sulla visione complessiva dell’Italia nell’era post-industriale. Tutto sommato, cambiando i tempi, erano molto cambiati sia i cattolici sia i comunisti: avvicinandosi negli obiettivi se non nello stile di vita.

Il PD può ora riprendersi superando non tanto la dialettica delle idee all’interno quanto la lotta tra correnti sul potere (e certo quattro candidati alle primarie non sono un gran segnale). Difficile dire se sia utile risalire alle travagliate vicende di DC e PCI prima della nascita del PD (per i popolari di sinistra lo fa Ortensio Zecchino sul Foglio). Ma il futuro è cruciale e su di esso ci sono più domande che risposte.

A tre lustri dalla nascita del PD perdura la convergenza delle due opposte culture politiche? Sono davvero superati i conflitti culturali del ‘900 intorno alla “persona”, alla “società”, all’“eguaglianza”? Quanto pesano sul PD le differenze socioculturali tra chi proviene dal popolarismo e chi proviene dal comunismo?

Naturalmente, oltre a chiarire questi dubbi fondamentali, è necessario riflettere, in parallelo, sui grandi problemi del Paese. In primo luogo: occupazione, lavoro, salario, povertà. E poi: assetti istituzionali e burocrazia; energia; sanità; scuola; università e ricerca; giustizia; welfare; trasporti; infrastrutture ecc. Enormi problemi sui quali è impensabile prospettare soluzioni senza un solido retroterra culturale che suggerisca una visione – apprezzata dall’elettorato – della complessa società di oggi.
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(Da Corriere del Mezzogiorno, 15 gennaio 2023),

Mario Rusciano

Professore Emerito di Diritto del lavoro, Università di Napoli Federico II.