Il "modello spagnolo" anche per l'Italia?

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La riforma del lavoro attuata dal governo Rakoy in Spagna ha avuto come esito la riduzione di quattro punti della quota dei salari sul reddito nazionale. La Commissione europa ha apprezzato e si augura che l'applicazione del Jobs act in Italia abbia un risultato altrettanto efficace.

    Sono ormai quattro anni che gli spread italiani e spagnoli si muovono in parallelo, salendo, o scendendo. In alcuni momenti lo spread italiano è stato più elevato, in altri invece quello spagnolo. Quest’anno i due spread erano quasi perfettamente appaiati; solo con l’estate quello spagnolo è salito di una ventina di punti base, che dipendono dalle incertezze delle elezioni politiche di fine anno. Peraltro le elezioni regionali catalane, pur avendo dato una maggioranza di seggi alla coalizione indipendentista, non hanno determinato fibrillazioni sui mercati finanziari, forse perché la percentuale dei voti indipendentisti sono rimasti sotto la maggioranza assoluta (quasi 48%). Standard & Poor’s ha anzi alzato da BBB a BBB+ il rating sulla base delle buone previsioni di crescita per quest’anno (+2,8) e per l’anno prossimo (+2,6).

    La valutazione dell’agenzia di rating dipende dalle riforme, cioè dalle misure di liberalizzazione del mercato del lavoro, con l’obiettivo di ottenere una diminuzione dei salari. In effetti la quota salariale sul PIL è scesa, negli ultimi cinque anni, da 50,9  a 46,9, cioè quattro punti di PIL. Invece in Italia la quota ha avuto una leggera flessione, ma la Commissione europea si aspetta che le cose “migliorino” nei prossimi anni, grazie alle riforme del jobs act. Il termine deriva dall'acronimo "Jumpstart Our Business Startups Act", riferito a una legge statunitense del 2012, a favore delle imprese di piccola entità. In Italia il termine è stato invece usato per definire un insieme di interventi normativi in tema di lavoro a carattere più generale, con l’obiettivo di ridurre il grado di protezione del lavoro. Secondo opinioni diffuse a livello internazionale dal padronato italiano, i lavoratori italiani godrebbero di protezioni molto alte e ciò spiegherebbe la stagnazione della produttività. Questo malgrado il fatto che i lavori dell’Oecd non segnalino  nessuna anomalia nel grado di protezione italiano.

    Comunque secondo la Commissione europea i risultati delle riforme spagnole si vedono nell’andamento dell’export, che è salito del 38,5%. Un buon risultato, ma l’Italia non ha fatto molto peggio, con il 35%. E peraltro siamo vicini ma leggermente sotto, alla media della zona euro (39,5%).

    La ragione per la quale la Spagna, l’anno prossimo, dovrebbe tornare al livello del PIL precedente la crisi economica, mentre per l’Italia si prevedono circa cinque anni, deriva dalla diversa politica fiscale.  L’insieme dei deficit cumulati in sei anni (compreso il 2015) in Spagna è di 46,3 punti di PIL, mentre in Italia è di 19,2 punti; ci sono cioè ventisette punti di differenza. Ancora l’anno prossimo la Spagna, secondo le ultime previsioni della Commissione europea, avrà un deficit di 3,5 mentre in Italia sarà di 2.

    Naturalmente questa differenza nella politica fiscale si è riflessa nell’andamento del debito. Nel 2008, al momento dello scoppio della crisi finanziaria, la Spagna aveva un rapporto debito-PIL inferiore alla metà di quello italiano: 39,4 rispetto a 102,3. Nel 2015 il debito spagnolo è stimato al 100,4 e quello italiano a 133,1. La differenza si è ridotta ad un terzo. Entrambi i paesi hanno la bilancia delle partite correnti in attivo, più alta la quota italiana (2,2) di quella spagnola (1,2). Ma la disoccupazione spagnola è al 22,4 contro il 12 italiano.

    Differenze anche più sensibili si notano nel panorama delle forze politiche. In Italia le elezioni del 2013 hanno portato alla ribalta il Movimento 5 Stelle (M5S) e il suo leader, l’ex comico Beppe Grillo (i seguaci del Movimento sono anche detti “grillini”). Il M5S ha conseguito il 25% dei voti partendo praticamente da zero (vi erano stati dei risultati positivi a livello locale, ed in particolare in Sicilia). Si tratta di un movimento populista con un atteggiamento anti-casta che mescola democrazia diretta anti-nomenklatura con posizioni ora di sinistra ed ora di destra (per esempio sul tema dei migranti).

    La principale forza politica, il Partito Democratico (PD), è stato conquistato da Matteo Renzi e portato su posizioni centriste, con una ideologia “decisionista” che ricorda molto quella proposta, ma non attuata, da Berlusconi. La Lega Nord, sotto la direzione di Matteo Salvini ha messo da parte il tema dell’indipendenza della Padania (cioè il nord Italia) per avvicinarsi alle posizioni di Marine Le Pen, di nazionalismo populista, con in primo piano l’atteggiamento anti-immigrati (che peraltro era già ben presente nella Lega). La Lega è in crescita di consensi erodendo l’elettorato di Forza Italia, forza politica in crisi in seguito al declino di Berlusconi.

    In Spagna invece accanto alle due formazioni nazionali dei popolari e dei socialisti, il fenomeno più recente è l’emergere di due formazioni: Podemos a sinistra e Ciudadanos a destra. Podemos ha le sue radici nelle manifestazioni degli “indignati” contro le misure di austerità attuate prima dal governo socialista e poi da quello popolare. Ciudadanos invece nasce in Catalogna, come espressione della borghesia locale che non condivide la scelta indipendentista della formazione guidata da Artur Mas, ma si è esteso poi su scala nazionale. Entrambe le formazioni criticano le forze politiche tradizionali, ma sono disponibili al dialogo. Il leader di Podemos, Pablo Iglesias ha sottolineato la diversità della formazione che dirige rispetto al M5S, e la sua vicinanza alla formazione diretta da Tsipras, Siriza.

Una differenza tra la situazione italiana e quella spagnola è che in Italia vi sono partiti dichiaratamente anti-euro, o anti-UE, principalmente il M5S e la Lega. Attualmente nei sondaggi queste forze raccolgono almeno il 40% dei consenti elettorali. In Spagna invece le formazioni anti-euro non hanno un peso rilevante; anche il movimento indipendentista catalano, salvo la componente di estrema sinistra, vuole rimanere nell’euro (e ovviamente nella UE).

    Nelle elezioni portoghesi di domenica 4 ottobre la coalizione di centrodestra ha ottenuto il 37% contro il 32,4% ai socialisti, ma non ha raggiunto la quota di 116 deputati, la maggioranza assoluta in Parlamento. La speranza a Berlino di una piena conferma della politica di austerità è stata in parte delusa. Degli altri due partiti presenti in Parlamento, il Bloco de Esquerda, appoggiato da Podemos e Syriza, ha avuto un buon successo, raddoppiando i seggi in Parlamento con il 10,2%, e superando la coalizione dei comunisti e dei verdi (8,2%). Sarà difficile formare un governo e alcuni osservatori ritengono probabili nuove elezioni l’anno prossimo.

In Spagna molto probabilmente le elezioni daranno un risultato ancora più incerto. Non è detto che i popolari del conservatore Mariano Rajoy avranno la maggioranza relativa, ma è sicuro che non avranno quella assoluta. L’austerità, in ultima analisi, nella penisola iberica va incontro a tempi difficili.

Ruggero Paladini

Economist - Professor of "Scienza delle Finanze" at University "La Sapienza" Roma; Member of the Economic Board of Insight - ruggero.paladini@uniroma1.it