Il lavoro senza cittadinanza

Sottotitolo: 
Nel dopo-statuto si è venuta consolidando a ritmi sempre più accelerati la tendenza a ri-mercificare il lavoro, e il governo Renzi avanza spregiudicatamente in questa direzione.   

Umberto Romagnoli

Lo statuto riconosce al lavoratore più di ciò che può dare un ordinario contratto di scambio come è il contratto di lavoro. Molto di più; e può farlo perché trasferisce nell’ambito di un rapporto contrattuale tra privati il principio costitutivo della società contemporanea che fa del lavoro il passaporto per la cittadinanza. Per questo, lo statuto segnò un nuovo inizio.
In effetti, non era mai successo che il diritto del lavoro pretendesse di ricalibrare il centro gravitazionale della figura del cittadino-lavoratore spostando l’accento dal secondo sul primo: ossia, dal debitore di lavoro sul cittadino. 

Se è sufficiente uno sguardo d’insieme sul passato meno recente per rendersi conto che lo statuto è privo di antecedenti normativi, neppure occorrono analisi approfondite per rendersi conto che nel dopo-statuto si è venuta consolidando a ritmi sempre più accelerati la tendenza a ri-mercificare il lavoro. Per questo, il suo diritto ha cambiato segno e, mentre ha funzionato soprattutto nella seconda metà del secolo scorso come leva del cambiamento sociale di segno progressista, nel nuovo secolo si sta trasformando nel suo contrario. E ciò perché il tempo presente è il tempo della subalternità all’economia della politica e dei diritti che ne sono espressione; dell’ascesa incontrastata del neo-liberismo e del malinconico declino delle forme storiche della rappresentanza del lavoro; del rimpicciolirsi della sovranità dello Stato-nazione e della globalizzazione dei mercati, incluso quello delle regole del lavoro alla cui dinamica si deve il selvaggio espandersi della de-localizzazione produttiva gestita principalmente da imprese prive come le multinazionali per le quali la responsabilità sociale è un optional. In questo quadro, il renzismo applicato in materia di lavoro non è altro che la traduzione dialettale del pensiero unico dominante.

Se lo definisco così è perché l’innovazione di cui il premier è portatore attiene più allo stile di governo che al contenuto delle decisioni adottate. Il contenuto infatti è così poco originale da omologare il diritto del lavoro a quello che si aspetta il mercato. E ciò che si aspetta il mercato è una revisione della normativa esistente a misura dell’istanza di ri-legittimare la storica asimmetria del rapporto di lavoro attraverso il restauro del potere unilaterale di comando dell’imprenditore, destabilizzando a questo fine anzitutto la madre di tutte le tutele esigibili in costanza del rapporto: la protezione contro il licenziamento ingiustificato. Ma ciò che il mercato si aspetta dagli Stati-nazione è esattamente lo stesso che si aspettano dai medesimi le istituzioni sovra-nazionali dell’UE disposte a chiudere un occhio, e spesso tutt’e due, sulla manipolazione della Carta dei diritti fondamentali.

Vero è che quest’ultima è ormai diventata parte integrante del Trattato istitutivo dell’UE e ne possiede lo stesso valore giuridico. Tuttavia,il diritto del lavoro che si sta modificando in Europa è influenzato non tanto dal diritto primario dell’UE (cioè, da prescrizioni giuridicamente vincolanti) quanto piuttosto da orientamenti della governance europea delle politiche economiche e finanziarie che, maturati al di fuori delle procedure decisionali disegnate per l’esercizio dei poteri regolativi dell’Unione, si esprimono attraverso atti della più diversa natura il cui denominatore comune, però, è un elevato tasso di prescrittività nei confronti dei membri dell’euro-gruppo.

Ne costituisce un esempio paradigmatico l’ossessiva insistenza delle “raccomandazioni” della Commissione europea a modernizzare i diritti nazionali del lavoro sulla base dei parametri propri del modello (praticato nei paesi scandinavi, ma per favorirne la mitizzazione) ri-denominato con discutibile gusto letterario flexicurity – il corrispondente vocabolo sincopato in lingua italiana sarebbe “flessicurezza” ed è ancora più orribile. Nondimeno, a Bruxelles e dintorni il mantra è piaciuto e piace perché avrebbe il pregio di far intuire che è possibile unire la flessibilità (cioè, elasticità, variabilità, derogabilità) del livello di protezione del lavoratore quando svolge il suo lavoro e la sua sicurezza economica (cioè, la continuità del reddito) quando il lavoro lo perde.

Non stupisce allora che proprio questa sia la prospettiva in cui si colloca la riforma renziana del lavoro. Una prospettiva di lungo periodo, ovviamente, dato che non può non essere attuata in due tempi: flexibility ora, e dunque una secca riduzione degli standard protettivi del posto di lavoro nell’immediato; mentre la security è rinviata a quando ci saranno risorse per rafforzare la protezione dei lavoratori nel mercato. Ma il riformatore nostrano ne è egualmente entusiasta. Diversamente, non avrebbe scomodato l’autorità e la memoria di un celebre scienziato polacco. In occasione dell’approvazione del primo della sequenza di decreti attuativi del c.d. Jobs Act, Matteo Renzi ha infatti twittato che il suo governo ha innescato una “rivoluzione copernicana”. L’innesco consisterebbe per l’appunto nello scambio tra un drastico indebolimento della tutela contro il licenziamento illegittimo e – in aggiunta al sussidio di disoccupazione se, e nella misura in cui, ne ricorrano i presupposti – il riconoscimento al licenziato del diritto ad avvalersi di risorse pubbliche per stipulare con un’agenzia per il  lavoro un “contratto di ricollocazione” che gli garantirà un “servizio di assistenza intensiva” nella ricerca di una nuova occupazione.  

L’espediente è ricco meno di creatività che di criticità sia da un punto di vista fattuale, anche perché nel nostro paese la carenza di politiche attive del lavoro è una costante storica, sia dal punto di vista giuridico e, perché no?, etico-politico. C’è da chiedersi infatti quale possa essere la logica di sistema che si esprime nella previsione di stanziare soldi pubblici per attenuare (alcuni dei) danni provocati da comportamenti che lo stesso Stato ha facilitato e di cui, attraverso i suoi giudici, ha accertato l’illiceità. E’ una contraddizione che può essere razionalizzata soltanto congetturando che, secondo il legislatore, quello di licenziare non è più un potere da limitare; tutt’al contrario, è un diritto da proteggere nell’interesse della collettività. Tant’è che la stessa è pronta persino a farsi carico delle conseguenze di un suo esercizio abusivo.
Basterebbe questa sola sottolineatura per mettere in evidenza il mix di superficialità e grossolanità che caratterizza il dialettalismo renziano. Ma c’è dell’altro ed è ancora peggio, perché non supera il test di compatibilità coi principi di una democrazia costituzionale.

La verità è che l’iniziativa del radicale cambiamento in atto del diritto del lavoro è stata presa dagli organismi dirigenti di un partito che non ne aveva fatto neanche menzione nel programma elettorale in base al quale ha ottenuto la quantità  di consensi che gli consente di guidare il governo; che la legge delega è stata approvata con voto di fiducia delle due Camere che è stato imposto proprio per comprimere e amputare il potere legislativo; che, essendo sostanzialmente in bianco, la legge delega concede al governo un ampio margine di discrezionalità.Come dire che il più nazional-popolare dei diritti “cambia verso” senza che né il popolo né i suoi rappresentanti parlamentari si siano pronunciati – né, del resto, i rappresentanti sindacali, il cui ruolo si è ridotto a quello di un gruppo di ascolto di quanto è stato pre-deciso altrove.     

Come è noto, la delega legislativa in materia di lavoro, venduta all’opinione pubblica con un insolito quanto indecifrabile anglicismo per aumentarne il fascino, si compone di circa duecento righe. Soltanto un paio di esse, però, ha polarizzato l’attenzione. Eccole: “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio” (catuc, secondo  un acronimo che avrà fortuna perché fa risparmiare tempo e spazio). Poiché l’oscurità del linguaggio non permetteva di scrutare le reali intenzioni del legislatore delegante, è plausibile che le abbia vergate la mano truffaldina di un uomo (o una donna, non si sa) con gli occhi di Bambi convinto che l’art. 76 cost. sia scritto sull’acqua: qual’era l’oggetto della delega legislativa? quali erano i criteri direttivi?

Adesso sappiamo che la reticenza era intenzionale: si volevano le mani libere e, al tempo stesso, si voleva simulare la disponibilità ad accogliere l’idea, in circolazione da qualche anno e di per sé non priva di buon senso, che le tutele legali sono suscettibili di dilatarsi gradualmente con l’accumularsi dell’anzianità aziendale fino a raggiungere una protezione piena. Lo stesso europarlamento l’aveva valutata positivamente. Gli apprezzamenti però erano espressi nel presupposto che il trattamento degli occupati attuali fosse il punto d’arrivo per i neo-assunti. Viceversa, il candido come una colomba e astuto come un serpente, il legislatore delegato ha chiarito che la sola forma di tutela destinata a crescere (a ritmo annuale e fino ad un massimo di 24 mensilità) è l’indennità corrisposta in caso di licenziamento ingiustificato; un’indennità che, con la serenità di un tagliatore di teste aziendale, qualcuno si è già affrettato a  ridefinire asetticamente “costo della separazione”, scolorendone così la natura di risarcimento forfettario del danno causato da un illecito civile.

Insomma, il trattamento degli occupati attuali non sarà mai acquisito dai nuovi assunti perché l’art. 18 ha i giorni contati: si estinguerà un poco alla volta, via via che i (milioni di) lavoratori assunti prima dell’entrata in vigore della riforma cesseranno per qualsiasi motivo la propria attività. Come dire che l’art. 18 si dissolverà un poco alla volta, senza necessità di abrogarlo. Il che è meno stupefacente di quanto possa sembrare perché, per sopprimere una norma che sa ancora parlare alle piazze anche nella versione maltrattata dalla legge Fornero nel 2012, ci voleva proprio la faccia tosta di farlo di nascosto in un clima surreale di finzioni e inganni. Un clima dove niente è ciò che appare. A cominciare dallo stesso diritto del lavoro. Di cui infatti è in corso una disordinata e incontrollata frammentazione promossa da un decreto (poi convertito in legge) risalente al Ferragosto del 2011, e dunque a poco prima della caduta dell’ultimo governo Berlusconi, che conferisce alla contrattazione collettiva “di prossimità” la potestà di introdurre, sulla base di consensi maggioritari d’incerta verifica, deroghe peggiorative non solo alla contrattazione nazionale, ma anche a gran parte del diritto del lavoro legificato.

Un giorno si saprà con la desiderabile precisione quel che sta succedendo in periferia con la complicità delle vittime più inermi di fronte all’emergenza economica invocata a sostegno del provvedimento legislativo. Intanto, però, si deve registrare la tacita, ma pressoché generale condivisione che esso si è guadagnata. Infatti, astenendosi dal disinquinare il sistema delle fonti di produzione delle regole del lavoro, tutti i governi che si sono avvicendati nell’arco di questi anni hanno trasmesso un messaggio di questo tenore: l’avvelenamento dei pozzi non è la criminale vigliaccheria che effettuano gli eserciti occupanti prima dell’evacuazione; tutt’al contrario, è una decisione che merita rispetto.

D’altronde, la stessa Cgil, dopo una flebile protesta iniziale, ha convenuto con Cisl, Uil e Confindustria che si potesse svuotare l’intervento legislativo buttandola in diplomazia come la intendeva Henry Kissinger, secondo il quale i diplomatici sono bugie vestite in abito da sera. Infatti, accanto all’infastidito ammiccamento all’insolenza di un legislatore che si è messo in testa di dire ai sindacati come e su quali materie possono contrattare, nella dichiarazione resa dalle parti sociali il 21 settembre dello stesso anno trova posto il reciproco impegno a comportarsi esclusivamente in conformità alle regole che le stesse formulano nella loro autonomia – oggi assemblate nel T.U. sulla rappresentanza del 14 gennaio 2014. Come dire che per motivare il rifiuto non hanno trovato altra ragione che quella di rivendicare orgogliosamente la priorità della contrattazione collettiva perché ne hanno una concezione proprietaria.  Secondario, invece, è che nel frattempo venga messa a rischio la costituzione “più bella del mondo” di cui il diritto del lavoro è stato, e dovrebbe essere, uno strumento di attuazione.

Umberto Romagnoli

Umberto Romagnoli, già professore di Diritto del Lavoro presso l'Università di Bologna. Membro dell'Editorial Board di Insight.