Il lavoro nella Costituzione italiana*
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Lo statuto dei lavoratori del 1970 - una legge delle due cittadinanze nei luoghi di lavoro -:è stato il più serio tentativo di riportare la realtà sindacale nel quadro costituzionale. l momento è segnato dal sopravvento dell’economia sulla politica che prosciuga gli spazi della democrazia. Questo processo investe tutto il mondo, ma in Italia è già molto avanzato. Lo si vede anzitutto dalla spoliazione dei diritti del lavoro, dalla negazione del lavoro ai giovani e dalla sua dismissione come fondamento della Repubblica. La causa di ciò risiede nella rottura del rapporto vitale tra economia e democrazia sul quale si è costruita gran parte della storia moderna dell’Occidente. A questo fine, l’Assemblea costituente attribuì al contratto collettivo nazionale stipulato da sindacati giuridicamente riconosciuti dallo Stato un’efficacia para-legislativa (erga omnes, si suol dire) affinché fossero resi generalmente vincolanti e inderogabili i trattamenti economico-normativi negoziati nelle forme prescritte. Vincolanti e inderogabili, quasi una premonizione della precarietà e un impegno a combatterla e debellarla. Come dire che nell’Assemblea prevaleva una concezione bipolare del sindacato, quella che fa di lui un libero soggetto di diritto privato investito del potere di rappresentare gli iscritti e, al tempo stesso, l’incaricato di una funzione di pubblica utilità. Se il disegno costituzionale avesse trovato attuazione sarebbe stata una svolta storica. Ciononostante, si preferì evitarla: un po’ perché lo Stato insospettiva (anche questa è un’eredità del fascismo) e un po’ perché venne privilegiata un’opzione di matrice privatistica. A favore di essa militavano almeno due buone ragioni. In primo luogo, concedeva ad un movimento sindacale che, come il nostro, aveva enormi ritardi da colmare quanto ad esperienza di libertà ed autonomia l’opportunità di costruirsi la sua al di fuori di schemi regolativi eteronomi, ossia prefabbricati. In secondo luogo, forniva una persuasiva giustificazione politico-culturale del distacco dalla costituzione che si stava consumando. Va detto però che gli stessi sindacati, pur preferendo far da sé, ebbero la sensibilità politica di siglare un tacito patto di unità d’azione per rendere più sopportabili dalla generalità dei lavoratori gli svantaggi procurati dalla distanza dall’opzione costituzionale. E’ stato questo l’argine di contenimento del processo di privatizzazione del diritto sindacale e del lavoro che ne ha impedito tracimazioni. Ma non era solido come poteva sembrare. Adesso, infatti, si è in presenza di situazioni ad un passo dall’anti-costituzionalità – come testimonia l’esteso contenzioso giudiziario di questi mesi. E ciò malgrado lo statuto dei lavoratori del 1970, che pure è stato il più serio tentativo di riportare la realtà sindacale nel quadro costituzionale. Lo statuto si proponeva finalità che autorizzano a qualificarlo come una legge delle due cittadinanze nei luoghi di lavoro: distinte, ma reciprocamente collegate. Per realizzare la cittadinanza del sindacato, ne proteggeva i rappresentanti aziendali contro il potere dell’impresa. E, quanto ai lavoratori, ordinava all’impresa di adeguare il suo ordinamento interno e la sua stessa logica al principio che i lavoratori, per quanto legati ad un rapporto di dipendenza, sono anzitutto dei cittadini di una Repubblica democratica. Era un nuovo inizio. Esso però era destinato ad incontrare numerosi ostacoli. Se è vero che il sindacato, il mondo del lavoro da lui rappresentato e il mondo della produzione hanno intrattenuto con la costituzione un rapporto tendenzialmente critico, in un certo senso ciò era già scritto. Infatti, questa criticità si manifestò subito, nel momento stesso in cui l’Assemblea costituente stabilì che l’Italia “è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” (art. 1) dopo una burrascosa discussione provocata da un emendamento della sinistra che riformulava così l’incipit del documento: “L’Italia è una Repubblica di lavoratori”. Nel 1994, al giornalista che gli chiedeva “ma perché fondare la Repubblica sul lavoro e non, ad esempio, sull’intraprendenza, come piacerebbe a Berlusconi?”, Gino Giugni rispose: certo, quella adottata “è una definizione ideologica, perché riferire la Repubblica al lavoro significa portare nella costituzione un’intera classe sociale”. Tuttavia, soltanto per una manciata di voti, non più di una dozzina, l’Assemblea costituente non approvò l’emendamento. Proponendolo, infatti, la sinistra pretendeva di far arrivare nell’Assemblea l’eco lontana dei “dieci giorni che sconvolsero il mondo” era evidente. Ma proprio per questo la proposta non poteva non essere bocciata. Essa conteneva per implicito l’oscura minaccia di un rivolgimento politico e sociale indigeribile per il blocco moderato dell’Assemblea: dei 556 deputati, soltanto 226 appartenevano agli schieramenti della sinistra. La verità è che anche il personale politico più ostile alla cultura marxista era figlio del suo secolo e il ‘900 era il secolo del lavoro salariato. Dall’insieme delle disposizioni-chiave che definiscono l’elemento fondativo della Repubblica è dato desumere che essa è fondata sul lavoro retribuito con un salario “sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36), protetto da un welfare idoneo a fornire mezzi adeguati per fronteggiare situazioni di bisogno (art. 38), dotato del diritto di auto-organizzarsi sia per negoziare i trattamenti minimi inderogabili (art. 39) che per gestire la lotta sindacale (art. 40) come mezzo di pressione per realizzare il modello di società prefigurato dall’art. 3, comma 2, ove sono rimossi gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitan(o) di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”. E’ soltanto ovvio, quindi, che la nostra Repubblica riconosca esplicitamente l’universalità del diritto al lavoro (art. 4). Casomai, posto che si limita ad obbligarla a “promuove(re) le condizioni che (ne) rendano effettivo” l’esercizio, la norma costituzionale potrebbe persino sembrare formulata con una cautela che ricorda quella con cui si dispongono dei fiori in un vaso. Ma sarebbe sbagliato condividere un simile giudizio. E’ vero: “riconoscere” il diritto al lavoro non è la stessa cosa che garantirlo. Ma è del pari vero che la sua violazione non può essere repressa in un’aula giudiziaria. Il giudice infatti non può imporre risarcimenti adeguati – se non a vantaggio di chi il lavoro ce l’ha e ne viene ingiustamente privato. Oggi, però, la stessa reintegra, che venne introdotta per la prima volta dall’art. 18 st. lav.,sembra chiaramente riflettere la tendenza dominante è a limitarne drasticamente l’applicabilità. Insomma, pur essendo il prototipo della terza generazione dei diritti, comunemente chiamati sociali per distinguerli da quelli civili e politici, il diritto al lavoro è fragile, perché quello che protegge è un interesse che può essere soddisfatto, e per lo più solo indirettamente, entro limiti che variano nel tempo, nello spazio e secondo i cicli dell’economia. Non si deve esagerare, però, e concludere che quello al lavoro è un diritto destinato a soggiornare in un luogo simile al limbo dove, secondo la religione cattolica, dimorano le anime dei candidi. Diversamente, si finirebbe per non prendere sul serio l’art. 4. Un conto è credere ciecamente che per risolvere la questione occupazionale si debba scommettere sullo spontaneismo delle dinamiche del mercato; e l’esperienza s’incarica di dimostrare che questa è un’idiozia dovuta ad un’infatuazione ideologica. La verità è che l’enunciato normativo è paragonabile al polmone di una strategia di politica economica e sociale attenta all’effettività del diritto al lavoro; un generatore di corrente, una bussola, un radar per orientare un ventaglio virtualmente illimitato di interventi presi da decisori pensosi. Pensosi perché pensano tutto il giorno, e tutti i giorni, al lavoro senza il quale il comune mortale non ha, ma soprattutto non è. Insomma, bisogna imparare ad usare l’art. 4 come un’invisibile antenna capace di stabilire una ramificata rete di intrecci e interferenze tra materie – dalla famiglia alla scuola, dall’ambiente alla salute – che, per quanto eterogenee, sono tenute insieme da un sotterraneo, ma non segreto legame. Il primo giurista che abbia pienamente compreso che il diritto al lavoro è la Primula Rossa dei diritti sociali, nel senso che è dappertutto, ma è inafferrabile, è stato uno dei padri costituenti, tra i più autorevoli, e successivamente membro della Corte costituzionale. Ma Costantino Mortati è rimasto inascoltato e il suo messaggio è caduto nel vuoto. Rileggere una sua monografia risalente al 1954, che scruta meticolosamente le innumerevoli pieghe l’ordinamento costituzionale in cui si annida il diritto al lavoro, serve per misurare gli arretramenti compiuti da frettolosi riformatori. I quali, facendo un uso capovolto non meno che disinvolto della costituzione e dei suoi principi-base, affrontano la questione-lavoro in una maniera che è un elegante eufemismo definire spregiudicata. Hanno infatti inventato un fittizio antagonismo tra diritto del e diritto al lavoro, facendo credere che l’effettività di questo dipende dalla distruzione di quello. Vittime di un’evidenza più onirica che empirica, perseguono con una tenacia degna di miglior causa l’obiettivo di smantellare il diritto del lavoro degli insider di oggi. Così, invece, non solo non ci saranno più chance occupazionali per gli outsider né di oggi né di domani, ma saranno meno protetti e più insicuri tutti gli insider. Di oggi e di domani. Umberto Romagnoli
Umberto Romagnoli, già professore di Diritto del Lavoro presso l'Università di Bologna. Membro dell'Editorial Board di Insight. |