Il lato nascosto della rappresentanza sindacale

Sottotitolo: 
La rappresenanza sindacale è in crisi anche per un dufetto di legittimazione demicratuca che rende evanescente il controllo dal basso dei processi decisionali.    

Poco prima di lasciarci per sempre, un acuto giurista del lavoro prematuramente scomparso – Gaetano Vardaro – dettò un bellissimo intervento per la rubrica-forum di Lavoro e diritto del 1988: “sarà veramente saggio”, esordì, il giurista del lavoro che persuaderà la comunità scientifica e gli attori sociali che il diritto sindacale è destinato a misurarsi più coi problemi attinenti agli aspetti interni dell’organizzazione sindacale che con “quelli inerenti alla sfera dell’attività  esterna”.

Nel medesimo arco di tempo, Massimo D’Antona identificava il “non-detto” dello statuto dei lavoratori nella sua laconicità in ordine al “modo di essere rappresentati, da chi e come”; un modo da ridefinire tenendo conto, scriveva, del “bisogno più generale di ridisegnare nel sistema giuridico l’immagine dell’individuo, con le sue istanze di autodeterminazione di fronte ad ogni potere, anche se protettivo e benefico,” piuttosto che come “destinatario finale di decisioni vincolanti assunte in suo nome e per suo conto”  

Le esortazioni non sono state raccolte. In effetti, i giuristi del lavoro si occupano moltissimo di quel che il sindacato fa. Pochissimo di quel che è. Anche per questo, è con crescente frequenza che si ascoltano giudizi come questi: “è un sindacato molto rappresentativo, ma è un cattivo rappresentante” oppure “è poco rappresentativo, ma è un efficiente rappresentante”. Il fatto è che rappresentatività a rappresentanza entrano in rotta di collisione sia quando il sindacato è vittima di una overdose di universalismo – che può indurlo persino a trascurare l’aggiornamento dell’anagrafe degli iscritti – sia quando ubbidisce ad una logica chiusa di gruppo, facendo sua una concezione della rappresentanza rigidamente ricalcata sull'ordinario modello privatistico.

Si dirà che, stante la forma storica che ha assunto nel nostro paese, il sindacato non è seccamente riducibile né al primo né al secondo tipo. Vero. Infatti, è un ibridismo. Tant’è che ai miei studenti raccomandavo di averne un’idea simile a quella del centauro della leggenda: metà uomo e metà cavallo. Dunque, lo accostavo ad un ibrido di successo. Agli stessi studenti, però, raccontavo anche che, quando la straordinaria creatura si ammala, non si sa se chiamare il medico o il veterinario. Per fortuna, aggiungevo, il problema non sembra essersi mai posto né, comumque, è all’ordine del giorno, perché il sindacato ritiene di avere una salute di ferro: con un passato di cui gloriarsi come il suo, è convinto di avere un futuro di cui fidarsi e, per quanto il presente sia poco brillante, conosce l’arte della rimozione.

L’incipit del presente scritto può meravigliare. Per questo, mi affretto a spiegare quale ne sia la motivazione. Il fatto è che trovo insoddisfacente l’angolo visuale prevalente nell’annoso dibattito sulla rappresentanza sindacale che si trascina stancamente con un ritmo stop and go. E ciò perché l’ottica adottata privilegia l’aspetto della rappresentanza sindacale che ne fa il congegno in assenza del quale la contrattazione collettiva non potrebbe neanche funzionare; punto e basta. Non che si possa dubitare di questo suo carattere strumentale e della sua indispensabilità. Però, l’ottica è riduttiva e, al di là delle intenzioni, amputa l’orizzonte di senso in cui si situa la rappresentanza sindacale. Infatti, sfiora appena i nodi della sua legittimazione democratica e li lascia nello sfondo.

“Il disegno di legge che il mio ministero sta elaborando”, disse una volta Giacomo Brodolini, “si propone di fare del luogo di lavoro la sede della partecipazione democratica alla vita associativa sindacale e alla formazione di tramiti democratici di comunicazione tra il sindacato e la base”. Allo statuto dei lavoratori invece il miracolo non è riuscito; nemmeno quando i consigli di fabbrica erano considerati un'articolazione unitaria a livello d'impresa dei sindacati confederali e di questi sindacati si pensava tutto il bene possibile. In effetti, lo statuto si preoccupa più dei diritti dei rappresentanti nei confronti del potere aziendale che di quelli dei rappresentati nei confronti del potere sindacale: così, “al diritto di assemblea e di referendum”, puntualizzava ancora Massimo D’Antona, “corrispondono doveri a carico del datore di lavoro di consentirne l’esercizio, non doveri a carico dei rappresentanti sindacali di farne uso per ottenere il mandato o per rispondere ai rappresentati”.

Anche la Corte costituzionale – cui nessuno può rimproverare insane simpatie movimentiste né giovanili intemperanze – nel 1990 ha dovuto prenderne atto e trarne spunto per criticare il legislatore; ma non per ciò che aveva fatto nel 1970, quando la rappresentatività delle confederazioni non era discussa e anzi era in fase ascendente, bensì per ciò che si ostina a non fare: ridare le certezze necessarie per sapere “chi rappresenta chi e come”. Certezze che, pensa e dice la Corte, sono raggiungibili in base a regole “ispirate alla valorizzazione dell’effettivo consenso come metro di democrazia nell’ambito dei rapporti tra lavoratori e sindacati”. Del resto, significherà pure qualcosa che i padri costituenti abbiano espressamente imposto ai sindacati un obbligo da cui invece esentarono i partiti politici (art. 49 cost.): l’obbligo di darsi “un ordinamento interno a base democratica” (art. 39, co. 3, cost.).

Non è che credessero che i partiti politici non possano averne bisogno. Il fatto è che ai sindacati si doveva richiedere esplicitamente una garanzia di democraticità del loro modo d’essere e d’agire perché nel sistema costituzionale essi sono dei soggetti privati incaricati di una funzione pubblica in quanto i contratti collettivi da essi stipulati mimano la sostanza autoritaria della legge: hanno efficacia erga omnes e sono inderogabili. Quindi, documento costituzionale alla mano, il sindacato agisce in qualità di un tutore piuttosto che in qualità di un rappresentante sulla base di un potere conferito volontariamente e la rappresentanza sindacale acquista i contorni della rappresentanza legale, come tale necessitata.

Né la successiva de-costituzionalizzazione del sistema sindacale può modificare i termini della questione. Infatti, al contratto collettivo della prassi si è seguitato ad attribuire a qualunque livello un’efficacia vincolante sostanzialmente para-legislativa. E ciò non solo nell’immaginario dell’opinione pubblica e nelle aspirazioni di sindacati che firmano i contratti collettivi con l’intima persuasione di dover tutelare i  diritti del singolo con riguardo meno alla sua (solo eventuale) veste di associato ad un sindacato che a quella di destinatario degli effetti del contratto.

Vero è che, dalle toghe di ermellino giù giù fino ai giudici di merito di primo grado, la giurisprudenza è compatta nel ritenere che quello dell’erga omnes sia un sogno proibito. Però, non ha mai smesso di concepire il contratto collettivo a stregua di un grande serbatoio idrico temporaneamente sprovvisto dell’impianto capace di trasformare l’energia potenziale dell’invaso in energia cinetica. Per questo, si sono moltiplicati gli stratagemmi per far arrivare la corrente elettrica in tutte le abitazioni.

Stando così le cose, fa una certa impressione che un’imponente tradizione di pensiero anche giuridico dimostri di saper apprezzare, nel sindacato, più che altro la sua capacità di assicurare la governabilità della fase post-contratto, esercitando il dovere d’influenzare i rappresentati a comportarsi in conformità agli impegni presi dall’organizzazione. Perciò, è da considerarsi un’anomalia rispetto al dominante atteggiamento culturale l’investimento sulle risorse della democrazia partecipativa compiuto dal gruppo di giuristi raccolto intorno alla rivista sotto la guida di Mario Rusciano e Lorenzo Zoppoli Diritti Lavori Mercati che ha elaborato un’organica proposta de lege ferenda. Non stupisce quindi che, in casuale unità di contesto, un settore dello star-system accademico (il cui esponente di spicco è Raffaele De Luca Tamajo) abbia reso pubblica una proposta che, nel solco tracciato dagli accordi interconfederali dell’ultimo triennio, ne accentua la diffidente cautela verso forme di controllo dal basso dei processi decisionali.

Il trittico confederale assemblato nel T.U del 2014 è animato dalla trasparente intenzione dei contraenti di prefabbricare la piattaforma, l’ordito, l’impianto di un intervento legislativo che da più parti si ritiene auspicabile. Io tuttavia sono del parere che, anche qualora tale evento si producesse, il problema della rappresentanza sindacale si porrebbe egualmente. Infatti, la rappresentanza sindacale è in crisi non solo a causa del vuoto di diritto in cui la contrattazione collettiva vive da una settantina di anni, ma anche (e forse soprattutto) perché ha perduto affidabilità come veicolo delle istanze dei rappresentati: ossia, perché si è indebolita quella che Riccardo Terzi nel fascicolo di apertura del 2015 di Inchiesta definisce con elegante eufemismo “capacità di rispecchiamento della realtà”.

E’ da qui che bisogna partire ed è per questo che bisogna formulare un interrogativo cruciale per il futuro del sindacato-istituzione del tempo presente. Esso attiene alla qualità della rappresentanza che è capace di offrire e alla domanda di rappresentanza che proviene da una base mutata sia nella sua composizione socio-professionale che sul piano antropologico-culturale, a cominciare dall’universo femminil-giovanil scolarizzato. Imprevedibilmente diversificata e frantumata, essa intima al sindacato di interrogarsi sul punto se l’amore per la specie – il lavoro con la elle maiuscola – non lo abbia portato a perdere di vista il genere e, adesso che il lavoro si declina al plurale assai più di quanto non potesse accadere in precedenza, chiedersi se l’obbligo imposto alla Repubblica di tutelare il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni non faccia parte del nucleo duro della costituzione (art. 35, co. 1).

Il T.U. è ricco di soluzioni giuridico-formali nel tentativo, in sé encomiabile, di far uscire il contratto collettivo da una crisi dipendente dall’eccesso d’informalità che nasce con l’avvento dell’età repubblicana. Però, esso tace della crisi della rappresentanza sindacale che con ogni probabilità era ancora più antica. La sola fessura da cui trapela la consapevolezza della sua esistenza è costituita dalla previsione che i contratti nazionali saranno sottoscritti “previa consultazione certificata delle lavoratrici e dei lavoratori a maggioranza semplice”.

Mettiamo pure da parte le perplessità causate dall’indeterminatezza delle procedure e dalla vaghezza della loro obbligatorietà. Accantonare invece non si può la circostanza che nell’insieme il T.U., dando il massimo risalto alla “esigibilità” del contratto collettivo, celebra l’elogio dell’efficacia cogente degli impegni contrattuali e sponsorizza il decisionismo dei vertici nientemenoche al livello che sembra destinato a diventare il cuore del sistema. Prevede infatti che i contratti aziendali sono efficaci per tutto il personale “se approvati dalla maggioranza dei componenti delle rsu” e, se firmati da rsa, sono sottoponibili a verifica entro certi limiti ed a certe condizioni. 

Non può certo sorprendere che il T.U. affronti il problema della rappresentanza sindacale nell’ottica della contrattazione collettiva per garantirne l’ordine. Casomai, desta sensazione che nei summit confederali che hanno confezionato il trittico sia furtivamente affiorata una percezione della rappresentanza che ne fa il meccanismo di esercizio del potere del rappresentante nei confronti del rappresentato. Questo infatti è un problema che appartiene ad una dimensione schiettamente endo-associativa e la controparte non c’entra per nulla né ha qualcosa da insegnare.

Quindi, l’auto-riforma del sindacato è senz’altro la via migliore. In astratto. In concreto, però, è trascorso più di un anno e non si colgono segni significativi dell’interesse del sindacato ad ispezionare il lato nascosto della rappresentanza che è suo compito esercitare. Per questo, può succedere che sia il Parlamento, lo stesso Parlamento che non senza ingenuità un’opinione pubblica stufa di partiti incapaci di gestirsi in maniera decente sollecita ad occuparsene mediante una legge ad hoc, che finisce per apparire la sede più adatta. In astratto. In concreto, il governo Renzi, che non considera il sindacato nemmeno come l’interlocutore col quale confrontarsi in vista dell’adozione di misure in materia di lavoro, dimostra di non augurarsi altro che faccia la fine dell’art. 18: scomparire senza la necessità di abrogarlo.

Umberto Romagnoli

Umberto Romagnoli, già professore di Diritto del Lavoro presso l'Università di Bologna. Membro dell'Editorial Board di Insight.