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Le scelte del dopo-elezioni sono destinate a condizionare il futuro del Partito democratico e dell'intera sinista italiana.
Le elites italiane ed europee sono rimaste sorprese e frustrate dall’inatteso risultato delle elezioni italiane. Avevano scommesso sulla certezza di un governo di collaborazione tra il Partito democratico di Bersani e il nuovo partito di Mario Monti, che doveva essere il garante della continuità della politica di austerità e di riforme strutturali in previsione di un risultato favorevole al centro-sinistra. L’imprevisto risultato elettorale ha spazzato via questa prospettiva.
L’improvvisato partito di Monti col suo deludente 10 per cento, comprensivo dei voti del vecchio centro di Casini polverizzato, è diventato irrilevante ai fini della costituzione di una maggioranza sia di destra che di sinistra. La sua politica è stata ripudiata dall’elettorato. Ma, più in generale, è stato punito l’intero arco dell’establishment politico tradizionale. Il PDL di Berlusconi, che pure ha guadagnato qualche punto rispetto alle fosche previsioni che nell’autunno scorso lo consideravano in agonia, ha perduto rispetto alle elezioni del 2008 oltre sei milioni di voti scendendo dal 37 al 21 per cento. Al tempo stesso, l’insieme dello schieramento di destra ha perduto oltre otto milioni di voti, precipitando dal 49 al 29 per cento. Si tratta di un risultato che vede per la prima volta nell’era repubblicana la destra italiana ridotta a meno del 30 per cento dell’elettorato, mentre la somma di destra e centro non va oltre il 40 percento aggiungendovi i voti della lista comprensiva di Monti e il disperso Casini.
L’aspetto intrigante è che il Partito democratico non ha minimamente beneficiato di questo rivolgimento, perdendo anzi tre milioni e mezzo di voti. Le elezioni hanno invece premiato, oltre ogni previsione, il Movimento Cinque stelle, nato appena da tre anni, guidato dal vecchio comico ma anche attivista politico Beppe Grillo. Un movimento che con un successo sorprendente ha raccolto lo scontento e la protesta di oltre un quarto degli elettori per la maggior parte provenienti dalla destra berlusconiana, ma in misura non piccola dal Partito democratico.
In questi risultati possiamo leggere due motivazioni fondamentali. La prima è il rigetto di massa della politica berlusconiana che era già in corso prima dell’avvento del governo tecnico. La seconda è il ripudio della politica del governo Monti - sconfessione che ha coinvolto e punito il PD che di quel governo è stato, più o meno malvolentieri, il principale sostenitore.
Il ripudio del governo Monti rispecchia l’inequivocabile fallimento della sua politica. Monti, in passato acclamato membro della Commissione europea, si è comportato come il proconsole di Bruxelles (e di Berlino) a Roma, imponendo un’intransigente quanto disastrosa politica di austerità, col risultato di gettare il paese nella più profonda recessione dell’ultimo mezzo secolo. Al tempo stesso, per soddisfare l’inesausta domanda di (contro)riforme strutturali di Bruxelles, col prolungamento dell’età pensionabile fino a 67 anni e oltre, ha messo centinaia di migliaia di lavoratori nella condizione di senza lavoro e senza pensione. Per non parlare della sostanziale liberalizzazione dei licenziamenti che nemmeno Berlusconi era riuscito a realizzare.
Monti ha motivato queste misure con la necessità di impedire che l’Italia subisse la sorte della Grecia. Ma si tratta di un paragone senza fondamento. Il debito sovrano italiano era nello stesso ordine di quello greco intorno al 120 per cento del PIL, ma con due differenze fondamentali: Il deficit di bilancio italiano era, dopo la crisi del 2008, tra i più bassi dell’eurozona, tre volte inferiore a quello greco, e gli interessi sul debito erano stati sempre fronteggiati da un avanzo primario fra il 4 e il 5 per cento del PIL – il più alto dell’eurozona. Senza contare che, sia pure in un quadro di bassa produttività media, l’Italia ha il sistema manifatturiero più esteso e competitivo dell’eurozona dopo quello tedesco. Il confronto con la Grecia aveva una funzione terroristica per giustificare misure non solo impopolari ma irragionevoli, il cui risultato è la perversa combinazione di recessione e disoccupazione, da un lato, e aumento del debito (al 127 per cento) dall’altro.
Il Partito democratico non poteva non pagare un alto prezzo elettorale al sostegno fornito al governo Monti del tutto indifferente alle conseguenze sociali della sua politica. (Politiche analoghe sono state imposte negli altri paesi in crisi, ma con governi esplicitamente di destra e con l’opposizione della sinistra e dei sindacati). Rimane il fatto che, anche in virtù dell'insensata legge elettorale, il Centro-sinistra ha la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato, per cui nessun governo può essere formato senza il suo accordo. Condizione non trascurabile ai fini del dibattito in corso sui possibili sbocchi della crisi.
Bersani propone al PD di presentarsi al Parlamento, prendendo atto di non avere una maggioranza precostituita al Senato, e chiedendo il sostegno su un programma limitato, al cui centro vi sono misure lungamente e invano invocate, di riforma della politica e delle istituzioni. Un programma essenziale per moralizzare la politica, ridare dignità alle istituzioni, dare una risposta allo scontento e alla protesta popolari. Ma non meno importante è il secondo capitolo del programma Bersani: vale a dire, una “rinegoziazione” di fatto dei vincoli europei, in modo da ottenere spazi di bilancio sufficienti per una prima ripresa dell’economia e dell’occupazione.
Su queste basi il Movimento cinque stelle, nella cui piattaforma questi obiettivi hanno un ruolo centrale, potrebbe accordare la fiducia se non altro al senato - una sorta di fiducia “a tempo” e, per così dire, “tecnica” per mettere alla prova il governo. Ma non è detto che ciò accada. Anzi tutto lascia presagire il contrario.
E allora? L’alternativa coltivata dai gruppi dirigenti italiani ed europei è una Grande alleanza, pudicamente denominata in vari modi, tipo "Larghe intese" o con elegante neutralità “Governo del Presidente”. Formule che certamente otterrebbero l’entusiastica approvazione di Berlusconi. In sostanza, una riedizione del governo Monti - con o senza Monti e con o senza i partiti - che paradossalmente, secondo le ultime esternazioni, potrebbe avere la fiducia del Movimento di Grillo.
Di fornte al gioco delle tre carte di Grillo che trarrebbe un indubbio vantaggio da una sorta di caos programmato, sembra avvicianrsi il momento in cui l’alternativa per il PD si porrà in termini netti: o elezioni (prima o dopo la riforma elettorale) o “larghe intese”, comunque denominate. La seconda soluzione divide il PD e rischia di essere una trappola fatale. Le elezioni sarebbero comunque inevitabili a scadenza ravvicinata, e il PD con un altro candidato (Renzi?) finirebbe dissanguato dalle Cinque stelle. Una forma di eutanasia in questo caso non vietata dalla legge, ma applaudita dalle destre italiane ed europee. Come del resto è accaduto in tutti i paesi mediterranei, dalla Grecia, al Portogallo, alla Spagna e, ultimamente, perfino a Cipro.
La linea di Bersani può apparire disperata, ma è l’unica ragionevole sia che riesca, sia che fallisca. Una missione difficile in un partito disorientato e ferito. Ma non dovrebbe essere una missione impossibile. Senza dimenticare che la partita vera bisognerà in ogni caso giocarla in Europa. Quale che sia, il governo si troverà la corda al collo di Berlino e Bruxelles. Anche se, sotto quest’aspetto, lo scenario dell’eurozona è sottoposto a crescenti scricchiolii.
La miope e arrogante egemonia della Germania sta mettendo in ginocchio l’intera eurozona, la Francia di Hollande compresa. Un governo dotato di una decente autonomia potrebbe aprire una nuova strada, come Bersani, sia pure in ritardo, comincia a proporre. (E le telefonate con Hollande potrebbero diventare qualcosa di più significativo nella partita che si gioca in Europa).
. Mark Mazower, storico della Columbia University scrive: “Per l’Europa si avvicina il tempo di scelte capitali…Coloro che predicano l’austerità probabilmente non si rendono conto di contribuire alla crisi della democrazia, ma questa è la realtà. Le elezioni italiane dovrebbero ricordare ai leader dell’eurozona che bisogna tener conto degli elettori”. (Financial Times, 1 marzo 2013). In fondo, non dovrebbe essere difficile tener conto di questa osservazione. Ma qualsiasi previsione sul futuro prossimo (e, soprattutto, più lontano) rischia oggi di rivelarsi temeraria.