Il futuro non è più quello di una volta
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Il diritto del lavoro del dopo-costituzione doveva concorrere al rinnovamento della società, conribuendo a creare le condizioni di una cittadinanza del lavoro basata su un'eguaglianza non solo fromale ma sostanziale. In Giù la testa girato nel 1971 da Sergio Leone, uno dei protagonisti – non ricordo se le parole sono pronunciate dal peone simpatico-gaglioffo o dal terrorista irlandese in fuga soprattutto da se stesso – ad un certo punto dice: “dove c’è rivoluzione c’è confusione e, dove c’è confusione, uno che sa quello che vuole ha tutto da guadagnare”. E’ una frase che rende bene l’idea del diritto del lavoro adesso che i governanti dei paesi europei in cui esso è nato poco più di cent’anni fa stanno demolendo il suo statuto epistemologico. Soltanto una situazione d’emergenza del genere può spiegare la crescente frequenza delle domande che mi sento rivolgere da più parti: “dove va il diritto del lavoro? che fine farà? ha ancora un futuro?”. In effetti, i giuristi del dopo-costituzione hanno acconsentito e, consapevolmente o no, collaborato al deteriorarsi della bussola che anche nei momenti peggiori ha orientato l’evoluzione del diritto del lavoro e adesso non sono capaci di fare altro che ipotizzarne il ritorno al primitivismo delle origini. Il che sarà forse una scorciatoia per semplificare, ma è anzitutto un modo arrogante di cancellare un intero ciclo storico e ridisegnare l’identità del diritto più eurocentrico e novecentesco che ci sia allo scopo di renderlo più compatibile con l’orizzonte di senso predominante. La bussola diventata gradualmente inutilizzabile, e alla fine in procinto d’essere buttata via, venne fabbricata nell’officina con tornitori provetti che confezionò la costituzione, il cui art. 3 esprime un rifiuto dell’ordine esistente ed insieme l’impegno di superarlo. Nemmeno la costituzione weimariana, cui la nostra si richiama per più versi, si era spinta a giuridificare la tensione dialettica tra eguaglianza formale e eguaglianza sostanziale della quale la stessa nascita del diritto del lavoro aveva offerto una non casuale testimonianza. Come dire che, se la nostra è una costituzione sincera, essa lo deve al suo art. 3: ossia, alla sua norma più importante anche a giudizio di Piero Calamandrei, che pure detestava le norme programmatiche. Viceversa, di fratture o cesure per un lungo tratto se ne contano davvero pochine. La scelta di fondo è quella di preferire il bulino alla scure, accettando l’eredità del diritto preesistente sia pure col beneficio d’inventario, perché la pessima reputazione del de cuius esigeva qualche cautela. E’ una scelta permissiva ed insieme temeraria. Permissiva perché la Repubblica implicitamente esorta il ceto professionale degli operatori giuridici ad imparare l’astuzia dei sottili distinguo di cui approfitteranno largamente i più interessati al restauro conservativo. Contemporaneamente, la scelta è temeraria nella misura in cui espone la costituzione al rischio di essere delegittimata; e non solo perché galleggerà nel vuoto normativo, ma anche e soprattutto perché la sua inattuazione sarà caratterizzata dal falso pieno degli scenari tirati su da una giurisprudenza che si limita a rinfrescare il maquillage del diritto collettivo del lavoro e lascia inalterato quello individuale di cui è riconoscibile l’imprinting della giurisprudenza dell’epoca corporativa. La quale, va detto, aveva dato il meglio di sé fertilizzando il terreno in cui affondano le proprie radici alcuni concetti-base ad elevato impatto nell’immaginario giuridico contenuti nel codice civile del ’42: il lavoratore ha l’obbligo di collaborare con l’imprenditore, di non tradirne la fiducia, di essergli fedele e ubbidirgli tacendo. Per questo, i giuristi del lavoro meno insensibili alle novità introdotte dalla costituzione e più vicini al movimento sindacale si dedicheranno alla bonifica del tessuto normativo e ne prosciugheranno gli umori paternalistico-autoritari sedimentati dall’esperienza giuridica precedente. L’esito dell’operazione è altamente meritorio, ma può giudicarsi soddisfacente a condizione di condividerne o perdonarne i limiti il principale dei quali risiede nella prudenza con cui dottrina, giurisprudenza e la stessa Consulta fanno leva sull’indicazione virtualmente anti-sistema ricavabile dall’art. 3 cost. che punta i riflettori sulle contraddizioni strutturali di una società capitalistica e dei suoi caratteristici rapporti di produzione. Diciamo allora la verità: senza il maggio francese del ‘68, senza le lotte studentesche nel breve periodo della loro più alta congiuntura e senza l’autunno caldo del ‘69, senza lo statuto dei lavoratori e senza la legge sul divorzio del ’70, difficilmente i giuristi (e segnatamente i giuristi del lavoro) si sarebbero accorti che si stava riproducendo l’eguale nel diseguale. In particolare, il legislatore statutario provocò il rumore di un big-bang: non solo perché prestava robusti sostegni ai sindacati in azienda contraddicendo una prolungata tradizione di pensiero giuridico-politico che demonizzava il conflitto collettivo, ma anche perché vietava al datore di lavoro di perquisire il dipendente che sospettava avesse rubato, di impadronirsi dei suoi stili di vita e dei suoi stessi pensieri, di discriminarlo per qualunque motivo. Non era mai successo che il diritto del lavoro – né quello legificato né quello giurisprudenziale né quello di cui è artefice il sindacato – pretendesse di ricalibrare il centro gravitazionale della figura del cittadino-lavoratore spostando l’accento dal secondo sul primo: ossia, dal debitore di lavoro sul cittadino. E ciò perché “nella prima modernità”, come ha scritto Ulrich Beck, “dominava la figura del cittadino-lavoratore con l’accento non tanto sul cittadino quanto piuttosto sul lavoratore. Tutto era legato al posto di lavoro retribuito. Il lavoro salariato costituiva la cruna dell’ago attraverso la quale tutti dovevano passare per poter essere presenti nella società come cittadini a pieno titolo. La condizione di cittadino derivava da quella di lavoratore”. Dunque, è sufficiente uno sguardo d’insieme sul passato che aveva alle spalle per porre in luce come lo statuto fosse privo di antecedenti normativi. In effetti, aveva gettato le premesse necessarie per imprimere una violenta torsione all’evoluzione del diritto del lavoro. L’avrebbe voluta non più polarizzata sullo scambio contrattuale di utilità economiche. Non più dominata dall’esigenza di disciplinare i comportamenti del lavoratore dipendente in conformità con gli standard di prestazione imposti al lavoro organizzato. L’avrebbe voluta più attenta ai valori extra-contrattuali ed extra-patrimoniali di cui il lavoro è portatore. Viceversa, l’esortazione del legislatore statutario a ripensare le connessioni che si stabiliscono tra lavoro e cittadinanza è caduta nel vuoto: soltanto Massimo D’Antona intuì che, per il diritto del lavoro, era “una questione di ridefinizione strategica”. Perciò, quella che lo statuto racchiude è una virtualità rimasta inespressa nella misura in cui ha spaventato l’impresa più di quanto non abbia sollecitato il sindacato. Infatti, tanto l’impresa quanto il sindacato hanno rifiutato la sfida a rilegittimarsi mediante l’adeguamento dei rispettivi modelli di comportamento alla trama dei diritti che trasformano il suddito in cittadino. E adesso? C’è chi dice che il tempo è scaduto. Lo statuto ha 45 anni, li dimostra tutti e molti ne reclamano la rottamazione. Anche se ragionano così soltanto perché sono prigionieri di un sillogismo. Premessa maggiore: lo statuto chiuse un ciclo di lotte operaie di cui la storiografia parla come del “secondo biennio rosso”. Premessa minore: il referente dello statuto era la fabbrica fordista. Ergo, lo statuto è un ferrovecchio. Il sillogismo è falso e la deduzione che se ne ricava una sciocchezza, perché lo statuto non ha mai legato la sua vitalità ad un modo di produrre storicamente determinato. Si riconnette invece a valori di carattere permanente e universale la cui vulnerabilità al contatto con le ragioni dell’impresa era simboleggiata dal fordismo, ma che vanno protetti indipendentemente dal variare nel tempo e nello spazio del modello dominante di produzione e organizzazione del lavoro. Pertanto, la ragione vera della richiesta di rottamare lo statuto bisogna cercarla altrove ed è questa: perduta la rappresentanza politica, il lavoro dispone soltanto di una rappresentanza sindacale rissosa e più debole di prima. Cionondimeno, c’un Nuovo Mondo che sta ancora aspettando il suo Colombo. Che però non può salpare, perché a sua volta è in attesa di poter disporre di (almeno) una caravella. Umberto Romagnoli
Umberto Romagnoli, già professore di Diritto del Lavoro presso l'Università di Bologna. Membro dell'Editorial Board di Insight. |