Il futuro dei giovani - Lavoro e "ascensore sociale"

Sottotitolo: 
Non mancano i giovani di talento, mancano i mezzi per individuarli e valorizzarne il merito.  

Tra crisi economico-sociali e trasformazioni tecnologiche bisogna preoccuparsi soprattutto del futuro dei giovani. Invece li si aggraverà dell’enorme debito pubblico e frattanto li si spedisce forzatamente dal Sud al Nord (d’Italia o d’Europa) per mancanza di lavoro adeguato o financo d’un lavoro qualsiasi (l’ha stigmatizzato da ultimo l’Arcivescovo Battaglia). È la cronaca nera a occuparsi dei giovani: bullismo; baby-gang; stupro di gruppo; droga; ubriacature e accoltellamenti nella movida. Inoltre dispersione scolastica e inettitudine (molti non studiano e non lavorano).

A parte il pessimismo, nella stragrande maggioranza i giovani sono diligenti e seri quando lavorano: nelle aziende, nelle professioni, nell’impiego pubblico, nell’arte, nella cultura. Dove dimostrano capacità e ingegno anche in organizzazioni tecnologicamente avanzate. Senza dire degli episodi edificanti di volontariato laico e religioso per la collettività (ammirevole l’abnegazione degli “angeli del fango” nella frana di Casamicciola!).

 Poco si discute però d’una questione giovanile importante per la società: in Italia – specie al Sud – è da tempo bloccato l’“ascensore sociale”. Col quale giovani di talento, ma di modeste origini, avrebbero reali opportunità di raggiungere alte posizioni lavorative con conseguente ragguardevole ruolo sociale. Pochissimi giovani fanno col lavoro il “salto di classe” passando, per intenderci, dalle stalle alle stelle: nella società, nella politica, nell’arte. Nei primi sessanta/settant’anni del secolo scorso si capivano meglio ragioni e percorsi del salto essendo più chiaro il perimetro di classi e ceti.

Oggi, nella complessità dei cambiamenti sociali, è più difficile. Il lavoro è rimasto l’unico mezzo per dare ai giovani identità e dignità sociale. Se però il lavoro perde valore – perché mutevole, flessibile, precario, malpagato – inevitabilmente l’ascensore si blocca. O addirittura funziona in discesa, non in salita, quando si è costretti a lavorare dissipando capacità e aspirazioni (netturbini laureati). Certo la diversità dei contesti esige analisi disaggregate: per settori produttivi, professioni, aree artistiche ecc. In alcuni ambiti è più facile, in altri più difficile far valere talento e motivazione. Solo nell’impiego pubblico e in alcuni impieghi privati i contratti collettivi prevedono progressioni di carriera, scatti d’anzianità e automatismi (talora eccessivi).

Escludiamo ovviamente ambizioni infondate di “arrampicatori sociali”. Per ragioni opposte escludiamo pure casi di successo personale di chi emerge in settori particolari (arte, artigianato, spettacolo ecc.). Dove l’accertamento del talento dipende dall’oggettivo giudizio e riscontro del pubblico: teatro, cinema, musica, canto, sport, danza, letteratura, giornalismo, moda, sofisticato artigianato. Il problema è invece difficile per la massa dei giovani. Non esiste nel lavoro un “diritto alla valorizzazione del talento personale” se si prescinde dalla cultura familiare, dall’illuminata discrezionalità d’un datore di lavoro e da qualche altro strumento, magari inconfessabile. Non esiste cioè l’eguaglianza sostanziale delle opportunità, da non confondere con quell’egualitarismo cui s’appellano solitamente furbi incapaci e inetti. 

Certamente il buon funzionamento dell’ascensore sociale dei giovani dipende anzitutto dalla politica. Non basta dire: “non si lascerà indietro nessuno” senza apprestare concrete condizioni perché tutti, meritandolo, possano usufruire dell’ascensore sociale. È la stessa Costituzione a disporre l’eguaglianza delle opportunità affinché ogni cittadino possa esprimere il proprio talento (artt. 3, 30, 31, 33 e 34).

Legislatore e governi (centrale e locale) devono dunque garantire il funzionamento di strumenti educativi e formativi (invece il Governo ha appena cancellato il “bonus-cultura” dei giovani). Indispensabili sono poi le “Agenzie formative”. In primo luogo la famiglia, non sempre però garanzia di eguaglianza sostanziale. Mentre una famiglia colta e benestante o influente fa da propellente naturale dell’ascensore sociale dei ragazzi, una famiglia modesta o disagiata non può coltivarne e farne valere il talento. Che se accertato giova all’intera società. Ci sono poi scuola, formazione e università. Sono però note le loro difficoltà a svolgere realmente la loro funzione maieutica: scarsità di risorse e servizi; burocratismo eccessivo; inadeguatezza per numero, e talora preparazione, di docenti e formatori. Senza dire che a esse ora si chiede, mortificando appunto l’eguaglianza delle opportunità, di valorizzare il merito piuttosto che il talento.

È ciò che con superficialità chiede alla scuola il Ministro “dell’Istruzione e del merito” Valditara. Ma può esistere il merito senza il talento? Il primo si manifesta se si è fatto emergere il secondo. Lo sanno bene i “maestri di strada”, che fanno questo di mestiere scoprendo talenti occulti. Infine i Centri per l’impiego, in teoria deputati a far incontrare domanda e offerta di lavoro, dunque ad accertare capacità e motivazione dei giovani. Ma sono pochi e sprovvisti di risorse materiali e soprattutto umane specializzate in questo compito delicatissimo.

Non parliamo dei polverosi concorsi pubblici: dove l’ossessione burocratica della precisione cartacea prevale sull’indagine delle reali potenzialità dei candidati. Più attrezzata logicamente è l’impresa privata coi suoi “cacciatori di teste”, che però giustamente selezionano i migliori talenti nell’esclusivo interesse dell’impresa. A chi spetterà occuparsi dell’ascensore sociale nel palleggio di competenze tra Stato e Regioni? In fondo non mancano i giovani di talento, mancano i mezzi per individuarli e valorizzarne il merito.   
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Da  Corriere del Mezzogiorno Editoriale 12 dicembre 2022

Mario Rusciano

Professore Emerito di Diritto del lavoro, Università di Napoli Federico II.