Il Fiscal compact e il rebus dei 50 miliardi
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Secondo il governatore della Banca d'Italia basterebbe una crescita nomnale del PIL del 3 per cento l'anno per rispettare il Fiscal compact. Ma le politiche imposte da Bruxelles paralizzano la crescita, creando un assurdo circolo vizioso. Sono proprio ncessari cinquanta miliardi di ulteriori tagli e tasse per rispettare il Fiscal compact? La questione è decisiva, perché trovarli significherebbe dover adottare una politica di bilancio che ucciderebbe qualsiasi prospettiva di ripresa della nostra economia. Un autorevole pronunciamento è venuto dalla “lezione magistrale” del governatore di Bankitalia Ignazio Visco a Pavia: “In condizioni di crescita “normale”, vicina al 3 per cento nominale, sarebbe sufficiente mantenere il pareggio strutturale del bilancio. A differenza di quanto sostenuto da alcuni commentatori, non sarebbero necessarie manovre correttive da 40-50 miliardi all'anno, non sarebbe richiesto mantenere un orientamento permanentemente restrittivo alla politica di bilancio”. Ricordiamo i termini del problema. Gli accordi europei che il governo italiano ha sottoscritto ci impegnano non solo a raggiungere il pareggio di bilancio (cosa che abbiamo inserito anche nella nostra Costituzione, pur non essendo obbligati a farlo), ma anche a ridurre il rapporto tra debito pubblico e Pil che eccede il 60% di un ventesimo l’anno a partire dal 2016 (ma… vedi più avanti). La parola chiave è “rapporto”: significa che non si deve necessariamente ridurre la cifra del debito, perché si può agire sull’altro termine, cioè far crescere il Pil. E’ appunto questo che ha detto Visco: se – mantenendo il bilancio in pareggio – si riesce a far crescere il Pil di almeno il 3 %, il rapporto diminuisce senza bisogno di ulteriori manovre. Il 3% è inteso come nominale, cioè considerando anche l’inflazione. E dunque basterebbe una crescita reale dell’1% e un’inflazione del 2 per centrare l’obiettivo. Detta così sembra alla nostra portata. Dopo un calo del Pil del 2,7% nel 2012 e dell’1,9 nel 2013, possibile che non si riesca ad avere un rimbalzino di almeno l’1%? E invece il successo è tutt’altro che scontato, perché per tutte e due le variabili decisive (crescita e inflazione) gli obiettivi si presentano problematici. Cominciamo dall’inflazione. Che oggi in Italia è bassa come non è mai stata, addirittura negativa negli ultimi due mesi (gennaio e febbraio) e allo 0,5% su base annua, e nell’eurozona appena un pelo di più. Ma, soprattutto, non si prevede che aumenti molto. Le aspettative del mercato si ricavano dai tassi swap, ed è ancora Visco a rilevare che gli operatori ritengono che fra tre anni l’inflazione sarà ancora all’1,2%, con una quota consistente (uno su 5) che la prevede tra due anni addirittura allo 0,9% o meno. La Bce, da parte sua, la stima all’1% per quest’anno, all’1,3 nel 2015 e all’1,5 nel 2016 e Bankitalia ritiene che valori simili ci saranno anche in Italia. Stando dunque a queste stime – anche se sappiamo quanto valgono le stime a medio-lungo termine: pochissimo, chiunque le faccia – la componente di crescita reale dovrebbe essere tra l’1,5 e il 2%. Non irraggiungibile, certo, ma a patto che si verifichino alcune condizioni: che la congiuntura internazionale non peggiori, in modo che il nostro export non ne soffra; e che le nostre politiche di bilancio non siano restrittive, ma anzi sufficientemente espansive da non penalizzare ulteriormente la nostra domanda interna, che conta per i tre quarti della crescita del Pil. E qui veniamo al secondo termine del rapporto, il Pil. Prima però bisogna chiarire un punto: la “regola del debito” (quella della riduzione di un ventesimo) scatta formalmente dal 2016, ma quella che si considera è la media degli ultimi tre anni: quindi già il risultato di quest’anno conta ai fini del calcolo. Ora, nel Documento di economia e finanza del settembre scorso il governo prevedeva che il 2013 si chiudesse a –1,7% (e si è invece chiuso a –1,9) e che nel 2014 la crescita fosse dell’1%, mentre le attuali stime del ministro Padoan sono scese a un +0,6. Dunque per arrivare a una media – diciamo – dell’1,8% nel triennio bisognerebbe raggiungere almeno il 2% in ciascuno dei prossimi due anni. Entrano dunque in gioco le condizioni ricordate: congiuntura internazionale e politica di bilancio. Diamo per soddisfatta la prima, su cui comunque non abbiamo alcun controllo. Per la seconda c’è qualche problema. Tra gli impegni del Fiscal compact c’è anche quello del pareggio strutturale di bilancio, “strutturale” nel senso che si effettua una correzione per tener conto del ciclo economico. Ma come si effettua questa correzione? Sulla base di una metodologia elaborata dai tecnici della Commissione Ue, che però è tutt’altro che inattaccabile. Per esempio Stefano Fantacone, Petya Garalova e Carlo Dilani, su re-vision.info, hanno osservato che il tasso di disoccupazione di equilibrio, che sarebbe quello oltre il quale si generano tensioni inflazionistiche, viene posto per l’Italia al 10,4% nel 2013 per arrivare all’11% nel 2015. Si tratta di cifre assolutamente irrealistiche, ma il calcolo ne viene influenzato e conclude così che mancheremmo il pareggio strutturale per uno 0,6% di Pil nel 2013 e ancora 0,6 e 0,9 nei due anni seguenti. Fanno in totale circa 33 miliardi di ulteriori tagli, mica bruscolini. Ma basterebbe che la disoccupazione di equilibrio fosse considerata all’8,6% (un tasso comunque ancora sicuramente eccessivo) per ottenere “miracolosamente” il pareggio di bilancio già nel 2013 e anzi addirittura un piccolissimo attivo. Se facciamo altri tagli la crescita ce la sogniamo. Ma se non ci sarà la crescita bisognerà fare tagli per rispettare il Fiscal compact (forse anche quei 50 miliardi che Visco ritiene esagerati: ma con una crescita del 3%!). Una situazione degna del mitico Comma 22 di cui si favoleggiava in tempo di guerra: "Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo". Che conclusioni trarre da questa orgia di tecnicismi? Purtroppo una sola: siamo nelle mani di tecnocrati che sulla base di stime che si sono rivelate il più delle volte clamorosamente sbagliate e di formule la cui correttezza è per lo meno discutibile dettano una politica economica che peggiorerebbe la situazione. Qui non è più nemmeno questione di euro o non euro: se si vuole salvare l’Europa bisogna uscire subito da questa logica. Carlo Clericetti
Giornalista - Collaboratore di "La Repubblica.it." Membro dell'Editorial Board di Insight. Blog: http://www.carloclericetti.it |