Il fascino (non tanto) discreto della frode nel mercato del lavoro
Abstract:
Il lavoro è uno dei campi in cui la destra al governo Berlusconi sta rispettando, purtroppo, tutte le sue promesse è quello del lavoro. In pochi mesi si è proceduto a tappe forzate allo smantellamento di ciò che rimane dei diritti e delle norme di tutela dei lavoratori: dalle leggi anti-dimissioni in bianco ai limiti sui contratti precari, al testo unico sulla sicurezza. Di seguito una rassegna completa di tutte le controriforme attuate dall’ultimo governo Berlusconi. La scomparsa, improvvisa e prematura, di Massimo Roccella, insigne giuslavorista, membro dell'Editorial Board di Insight, lascia un senso di vuoto e un dolore condiviso dal mondo accademico quanto dal mondo sindacale e politico, disabituati ormai ad intrattenere rapporti con persone che al rigore intellettuale uniscono la virtù dell’etica civile. Una personalità scientifico-culturale, senza ombre di conformismo che aiutava a capire i problemi e le ansie del mondo del lavoro. Nel saggio che pubblichiamo Massimo Roccella analizza criticamente le controriforme del lavoro del governo Berlusconi.
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- «Ci vuole una poderosa azione di deregolazione per liberare il lavoro e rimuovere i vincoli che hanno intrappolato il paese nella scarsa crescita. […] Non sarà un’operazione certosina, ma un’opera pesante, chirurgica. Abrogheremo la nuova e demenziale disciplina delle dimissioni volontarie voluta dal mio predecessore, rimetteremo mano al testo unico sulla sicurezza, riducendo le sanzioni, reintrodurremo i contratti a termine…». È senz’altro presto, naturalmente, per trarre un bilancio delle politiche del lavoro della XVI legislatura, non essendo ancora giunti (ahimè!) neppure alla metà della stessa. Con l’imminente approvazione definitiva del cosiddetto «collegato lavoro», tuttavia, molto potrà già dirsi fatto, gran parte degli impegni assunti sarà stata portata a compimento. Le parole dell’allora neoinsediato ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi (1), dunque, possono essere assunte come una sorta di guida alla lettura: un manifesto programmatico che, di lì a poco, avrebbe cominciato a essere attuato a tappe forzate, procedendo con l’allegra baldanza di un rullo compressore. Lasciamone da parte l’incipit, che, preso alla lettera, lascerebbe intendere che ci fosse da intraprendere un’azione per liberare il lavoro da non meglio precisate catene (normative), foriere a un tempo di pesanti ostacoli alla crescita del paese. Anche un politico così serio e impegnato come l’onorevole Sacconi, evidentemente, non riesce a evitare qualche boutade propagandistica, a uso e consumo degli ascoltatori del momento. Lasciamolo da parte e passiamo senz’altro alla sostanza, che ha cominciato a manifestarsi, perfettamente in linea con quanto promesso, attraverso l’abrogazione della disciplina delle dimissioni. A dire il vero, alludendo alla volontà di cancellare la «disciplina delle dimissioni volontarie», il ministro non s’era espresso in termini propri: un non addetto ai lavori avrebbe potuto trarne la conclusione che si volesse privare i lavoratori della facoltà di troncare un rapporto di lavoro. Non di questo si trattava, naturalmente. L’obiettivo non era quello di ricondurre il lavoro subordinato a una condizione paraschiavistica, quanto, più modestamente, di ripristinare condizioni favorevoli al dispiegarsi della frode nel mercato del lavoro. La legge che si è voluto cancellare dall’ordinamento giuridico, infatti, non riguardava affatto le «dimissioni volontarie», presidio insopprimibile di libertà per il lavoratore, quanto, all’opposto, quelle involontarie: colpiva, infatti, una prassi particolarmente odiosa, molto più diffusa di quanto non si immagini (e non circoscritta alle sole lavoratrici, come erroneamente si afferma) come quella delle dimissioni «in bianco» (il caso classico della lettera di dimissioni fatta firmare al lavoratore all’atto dell’assunzione e completata dal datore di lavoro nel momento in cui intenda sbarazzarsi dell’interessato, aggirando in tal modo le tutele previste nei confronti del licenziamento privo di giustificato motivo). Si trattava, invero, di uno dei provvedimenti più significativi in materia di lavoro approvati dalla precedente maggioranza di centro-sinistra (2). Una legge che aveva mostrato subito la propria efficacia nel colpire la prassi fraudolenta in questione: dal momento che, in forza di essa, la validità delle dimissioni risultava condizionata alla circostanza che esse fossero rassegnate avvalendosi di appositi moduli (reperibili gratuitamente presso le direzioni provinciali del lavoro, i comuni e i centri per l’impiego), i quali avrebbero dovuto riportare un codice alfanumerico progressivo di identificazione e la data di emissione e sarebbero stati utilizzabili non oltre quindici giorni dalla stessa. La legge, è vero, presentava qualche sbavatura: di agevole correzione, tuttavia, se l’obiettivo fosse stato quello di disporre di un congegno normativo tecnicamente più adeguato (3). Mossa palesemente da tutt’altra intenzione, viceversa, la maggioranza risultata dalle elezioni politiche del 2008 non ci ha pensato su due volte: fatta passare per un inutile appesantimento burocratico, la legge sulle dimissioni in bianco è stata puramente e semplicemente abrogata (4) (ovvero senza darsi la pena di proporre nessun meccanismo sostitutivo per contrastare la frode), restituendo in tal modo tanti lavoratori all’arbitrio dei propri datori di lavoro. Il culto della precarietà «Reintrodurremo i contratti a termine». Anche in questo caso le parole del ministro non consentono immediatamente di capire: come se la precedente maggioranza di centro-sinistra, presa da un raptus rigoristico, si fosse dedicata a una drastica azione di eliminazione del lavoro precario (spingendosi, addirittura, oltre ogni ragionevolezza, dal momento che è ben nota l’esistenza di settori e attività ove l’occupazione si presenta con caratteri strutturalmente temporanei). Vale la pena, dunque, di chiarire e, soprattutto, di ricordare – cosa sempre necessaria in un paese dalla memoria corta come il nostro – gli aspetti essenziali della lunga querelle attorno ai contratti a termine, cominciata all’inizio del decennio, a partire da quando il precedente governo Berlusconi (sottosegretario al Lavoro l’onorevole Sacconi) provò a liberalizzare la precedente disciplina in materia, col pretesto di dare attuazione a una direttiva dell’Unione Europea, cancellando il principio in forza del quale il rapporto di lavoro subordinato si instaura a tempo indeterminato (salvo eccezioni espressamente previste dalla legge o dai contratti collettivi) (5) e, soprattutto, consentendo di abusare di questa forma di assunzione mediante reiterazioni della stessa rese possibili senza limite alcuno. Riuscita per il secondo aspetto, l’operazione era però andata storta per il primo: la giurisprudenza, infatti, aveva continuato compattamente a sostenere che la regola dell’assunzione a tempo indeterminato dovesse considerarsi immanente al sistema, non foss’altro perché prevista proprio dalla pertinente direttiva europea (la quale, peraltro, imponeva anche di contrastare proprio gli abusi derivanti dalle assunzioni a termine cosiddetto «a catena» e, dunque, anche su questo punto era stata travisata in sede di trasposizione). Il successivo governo di centro-sinistra, dopo aver speso molte promesse di ri-regolamentazione della materia, non essendo anch’esso davvero immune dal virus della flessibilità a prescindere (leggasi: precarietà), poco poi in concreto ha fatto. La regola dell’assunzione a tempo indeterminato è stata in effetti espressamente ripristinata, a seguito di un emendamento presentato dalla sinistra della coalizione (allora presente in parlamento) al disegno di legge governativo di attuazione del cosiddetto Protocollo welfare, stipulato fra governo e parti sociali nel luglio 2007; quanto al contrasto delle assunzioni a termine «a catena», è stata introdotta una disciplina debolissima (non a caso su questo punto si giunse a un passo dalla rottura fra l’esecutivo di Romano Prodi e la Cgil in sede di negoziazione del Protocollo welfare), che pone un limite temporale apparente di 36 mesi al lavoro precario (6): solo apparente, perché nulla impedisce che fra un contratto a termine e l’altro lo stesso lavoratore possa essere utilizzato dal medesimo datore di lavoro mediante altre forme di impiego precario (ad esempio ricorrendo alla mediazione di un’agenzia di lavoro interinale) (7), cosicché la durata della condizione di precarietà potrebbe anche tranquillamente raddoppiare e, comunque, non risulta predeterminabile. C’era dunque bisogno di rendere ancora più elastica una disciplina del genere? Soltanto chi fosse stato in preda a bulimia di lavoro precario avrebbe potuto pensarlo. E farlo. Non si poteva più abrogare la regola dell’assunzione a tempo indeterminato: sarebbe stato impossibile, infatti, giocare di nuovo sull’ambiguità, dire e non dire come s’era fatto nel 2001, dal momento che una nuova cancellazione avrebbe rivelato, fin troppo palesemente, la volontà di disattendere la direttiva dell’Unione Europea; si è allora cercato di annacquarla, precisando che le esigenze tecnico-organizzative, che vanno indicate nel contratto di lavoro per giustificare l’assunzione a termine, possono anche essere «riferibili all’ordinaria attività del datore di lavoro». La modifica davvero rilevante, ad ogni modo, ha riguardato la regola di durata massima (apparente, come s’è detto) di 36 mesi, che dovrebbe servire a contenere gli abusi derivanti da assunzioni successive a termine: alle svariate possibilità di elusione già consentite dalla legge 247/2007, infatti, si è aggiunta la facoltà di derogare alla regola in parola mediante «diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale» (8). Dopo tante parole lasciate circolare senza parsimonia contro la piaga del lavoro precario, si noti la sottile perfidia di costringere i sindacati nella situazione di sottoscrivere accordi che sanzionano senza limiti il ricorso allo stesso. Basti riflettere un attimo sui prevedibili effetti di una norma del genere: «Siamo in un’azienda in cui un lavoratore a termine è stato assunto per più di tre anni. […] In base alla legge non può più essere riassunto. L’azienda chiede alla rappresentanza sindacale di fare un contratto in deroga in maniera da consentire a quel lavoratore una nuova assunzione a termine: quale mai Rsu potrà lasciare quel lavoratore senza un’occupazione, per quanto precaria» (9), prescindendo dal farsi troppe domande sul carattere, obiettivamente temporaneo o meno, dell’occasione di lavoro? Il culto della precarietà, d’altronde, è di quelli che richiedono a ogni piè sospinto rinnovate celebrazioni. Dev’essere per questo che il governo della destra non ha voluto lasciarsi sfuggire l’opportunità di ripristinare prontamente le poche norme della legge Biagi, ch’erano state abrogate nella precedente legislatura (anche perché poco o per nulla utilizzate dalle imprese). Con lo stesso decreto legge 112/2008 (10) si è così provveduto immediatamente a rilegittimare il lavoro intermittente (meglio noto come lavoro a chiamata: si tratta, infatti, di una sorta di part-time a zero ore, in cui al lavoratore non viene riconosciuta nessuna garanzia, neppure minima, di svolgimento d’una prestazione lavorativa, la consistenza di quest’ultima dipendendo esclusivamente dalle eventuali chiamate del datore di lavoro). Quanto allo staff leasing (ovvero al lavoro interinale a tempo indeterminato – apparentemente una contraddizione in termini – utilizzabile dalle imprese per far fronte a esigenze tutt’altro che temporanee, senza però assumere direttamente i lavoratori così impiegati, con il vantaggio dunque di potersene sbarazzare, all’occorrenza, evitando di rispettare le fastidiose regole in materia di licenziamenti), c’è voluta un po’ più di pazienza, ma alla fine anch’esso è stato festosamente riaccolto nella vasta famiglia del lavoro precario, mediante un codicillo inserito ad hoc nella legge finanziaria 2010 (ovvero in un contesto che dovrebbe essere dedicato a tutt’altre questioni) (11). Bisogna, comunque, guardare ancora al lavoro a termine per portare alla luce le perle più preziose. Innanzi tutto nell’ambito del pubblico impiego, terreno di caccia riservato del ministro Brunetta. In questo caso, per la verità, la legislatura sembrava essere iniziata bene, con l’approvazione di una norma che avrebbe potuto rappresentare un ostacolo all’abuso del contratto a termine (e del lavoro precario in genere) nel settore (12): norma di indubbia opportunità, essendo notorio che proprio le pubbliche amministrazioni hanno rappresentato, negli ultimi anni, una vera e propria fabbrica della precarietà. L’intenzione, insomma, era buona, ma purtroppo non seria, né sincera: e infatti è durata lo spazio d’un mattino. Ad appena un anno di distanza Brunetta l’inflessibile ci ha ripensato e, non volendo evidentemente essere da meno del collega Sacconi nel favorire la diffusione del lavoro precario, ha provveduto a cancellare la norma in parola con un tratto di penna, rimpiazzandola con l’obbligo in capo alle singole pubbliche amministrazioni di redigere annualmente un rapporto informativo sulle tipologie di lavoro flessibile impiegate, di cui il dipartimento della Funzione pubblica si avvarrà per confezionare una relazione al parlamento (13). Una montagna di carta, insomma, ha preso il posto, di soppiatto e senza rendere conto a nessuno delle ragioni dell’innovazione, di un congegno normativo potenzialmente alquanto efficace nel contrasto dell’impiego abusivo del lavoro precario: in effetti, «ciò che lascia a bocca aperta è la noncuranza con cui il legislatore ha soppresso una disposizione in grado di costituire un serio argine alle catene di contratti a termine, sostituendola con insulsi obblighi informativi privi di ogni efficacia deterrente» (14). È ancora nell’ambito della disciplina generale del contratto a termine, ad ogni modo, che si può rintracciare il pacco dono più pregiato per i lavoratori precari. Non si tratta ancora, al momento della scrittura di queste note, di norma di legge, avendo il presidente della Repubblica respinto al mittente il testo approvato dal parlamento (disegno di legge 1167, cosiddetto «collegato lavoro») che lo contiene, ma alla fine – si può star certi – il pacco dono giungerà a destinazione. Dopo averne lacerato l’involucro, i lavoratori precari scopriranno che è stata riservata loro una doppia sorpresa: non soltanto l’impugnazione del termine illegittimamente apposto al contratto di lavoro dovrà essere effettuata entro un breve termine di decadenza di sessanta giorni, sinora inesistente, cui è stato aggiunto un ulteriore termine di decadenza di sei mesi entro il quale depositare il ricorso nella cancelleria del Tribunale; ma è destinata a venire meno, nei casi di accertata illegittimità del termine, la possibilità di ottenere, oltre alla conversione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro, il risarcimento integrale del danno, potendo il giudice in futuro riconoscere soltanto un indennizzo di importo compreso fra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione percepita, da liquidarsi discrezionalmente secondo criteri vagamente equitativi, quale che sia l’importo del danno effettivamente subito dal lavoratore a seguito dell’illegittima cessazione del rapporto di lavoro. La prima delle due previsioni può essere vista come una sorta di sanatoria preventiva degli abusi. Non può sfuggire a nessuno infatti che quel termine di decadenza breve sortirà verosimilmente l’effetto di rendere incontestabili tante assunzioni illegittimamente effettuate a termine: essendo notorio che i lavoratori precari, nella speranza di una nuova assunzione, ci pensano due volte prima di attivare una vertenza di lavoro. Molti di essi, poi, sono lavoratori immigrati, spesso con scarsa conoscenza della lingua italiana: una condizione di (doppia) debolezza, che di per sé ostruisce i canali di comunicazione fra i sindacati e questa platea e, nella specie, non agevolerà certamente il compito di renderli consapevoli dei propri diritti. L’intero marchingegno, in ogni caso, viene fatto passare come un’operazione necessaria per riportare equità fra datori di lavoro e lavoratori, evitando che comportamenti processuali dilatori dei secondi si traducano in una lievitazione eccessiva dell’importo del risarcimento dei danni eventualmente gravante sui primi all’esito del giudizio: ma proprio per questo non sta in piedi. Dal momento, infatti, che è stato introdotto un termine di decadenza per l’azione in giudizio, non risultano più possibili tattiche processuali dilatorie (15). Le due cose (imposizione di un termine di decadenza e forfettizzazione arbitraria dell’importo del danno risarcibile), insomma, non stanno insieme: né v’è ragione alcuna, a fronte di un contratto a termine riconosciuto illegittimo, per far gravare sul lavoratore le conseguenze dell’eventuale inefficienza (in termini di durata del processo) dell’amministrazione della giustizia. Complessivamente considerato, in altre parole, il meccanismo appare di assai dubbia razionalità e, proprio per questo, destinato a essere spedito, quanto più rapidamente possibile, davanti alla Corte costituzionale (come altri, e ancor più gravi, disposti del collegato lavoro: si veda infra). Orario di lavoro e sicurezza «Rimetteremo mano al testo unico sulla sicurezza, riducendo le sanzioni». Detto, fatto. Il testo unico in materia di sicurezza del lavoro era stato appena varato (16) e rappresentava, probabilmente, l’intervento più meritorio del governo Prodi nell’area dei rapporti di lavoro. La consistenza del regime sanzionatorio ne costituiva un cardine: necessario sia per ragioni strettamente giuridiche (la materia della sicurezza del lavoro è tributaria del diritto dell’Unione Europea e la Corte di giustizia ha più volte sottolineato che le normative di trasposizione del diritto dell’Unione devono essere accompagnate da sanzioni proporzionate, effettive, dotate di adeguata efficacia deterrente), sia per elementari considerazioni sociali, di ovvia evidenza in un paese caratterizzato dal triste primato delle morti bianche. Ma quella legge non piaceva alle imprese e, dunque, andava cambiata: andava «alleggerita» proprio nell’apparato sanzionatorio (annoverato anch’esso probabilmente, nel pensiero del ministro del Lavoro, fra «i vincoli che hanno intrappolato il paese nella scarsa crescita»), in base all’assunto, indimostrato e indimostrabile (e, dunque, tutto ideologico nell’accezione deteriore del termine) secondo il quale la sicurezza dei lavoratori si potrebbe garantire meglio puntando, più che sul rigore delle sanzioni per la violazione delle norme di tutela, sulla diffusione di esempi delle cosiddette «buone pratiche»; delegando la questione, in altre parole, a una sorta di moral suasion e questo proprio nel paese in cui (sarà un caso?) le morti sul lavoro continuano implacabilmente a marciare da tempo al ritmo di tre al giorno (in media mille all’anno, senza contare le malattie con esiti letali manifestatesi a distanza di tempo e connesse a patologie contratte nei luoghi di lavoro). Non basta. Le sanzioni sono state ammorbidite dal cosiddetto «decreto correttivo» (17) del testo unico approvato dal governo Prodi; ma il buon giorno si era già intravisto dal mattino, dal momento che il nuovo governo, appena insediato, non aveva perso tempo al riguardo e, pochi giorni dopo il discorso del suo ministro del Lavoro (ricordato all’inizio), si era precipitato a intervenire (18) devitalizzando un altro aspetto del testo unico. Le analisi più attente attestano univocamente l’esistenza di un nesso fra rischi per la salute dei lavoratori da una parte, regolarità del lavoro (molto spesso, com’è noto, le morti «bianche» colpiscono lavoratori «neri»: per il colore della pelle e/o per la natura irregolare del loro rapporto di lavoro) e regimi di orario dall’altro. Proprio per questo nel testo unico spiccava una norma che consentiva alle autorità di vigilanza di disporre un provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale, qualora risultasse accertato l’impiego di personale irregolare «in misura pari o superiore al 20 per cento del totale dei lavoratori presenti sul luogo di lavoro, ovvero in caso di reiterate violazioni della disciplina in materia di superamento dei tempi di lavoro, di riposo giornaliero e settimanale, […] considerando le specifiche gravità di esposizione al rischio di infortunio, nonché in caso di gravi e reiterate violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro» (19). Nella parte relativa alle violazioni delle regole in materia di orario di lavoro (peraltro già di per sé molto elastiche, come si dirà fra un attimo) la norma in questione è stata prontamente abrogata (20): dimostrando una volta di più il governo della destra la propria insensibilità nei confronti di un nesso di così cruciale e riconosciuta evidenza. Una volta di più: perché la stessa insensibilità, da parte di un governo dello stesso colore, era già emersa nel corso della XIV legislatura, allorché l’intera disciplina dell’orario di lavoro era stata riscritta (21), con il risultato, fra l’altro, di eliminare dall’ordinamento il limite espresso di durata massima giornaliera della prestazione lavorativa sino ad allora vigente: cosicché, per effetto di un complicato intreccio normativo, oggi esiste un limite di durata massima settimanale dell’orario di lavoro (pari a 48 ore), che però non è veramente tale, dovendosi calcolare come media su un più ampio arco di tempo, in maniera da consentire l’alternarsi di settimane «brevi» e settimane «lunghe», e orari giornalieri che potrebbero (legittimamente) spingersi sino a toccare, in molti giorni dell’anno, le tredici ore nel contesto di settimane lavorative dilatate sino a 77 ore. Situazioni estreme, certo, ma forse poi non così rare. Non è inutile ricordare che il rogo della Thyssenkrupp avvolse operai giunti alla dodicesima ora consecutiva di lavoro. Non è inutile rammentare neppure che, sull’onda dell’indignazione suscitata dalla tragedia, il parlamento votò, a fine 2007, un ordine del giorno che impegnava il governo alla reintroduzione del limite di durata massima giornaliera dell’orario di lavoro. Poi quel governo è caduto, il signor B. s’è reinstallato a palazzo Chigi, il già sottosegretario Sacconi ha fatto carriera guadagnandosi la promozione a ministro e quell’impegno è diventato carta straccia. Sarebbe stato troppo, in effetti, aspettarsi che fosse onorato proprio da una compagine governativa che, nella sua precedente incarnazione, s’era così bene adoperata per la destrutturazione delle regole in materia di orario di lavoro. Un po’ più di coerenza, semmai, ci si poteva attendere dall’attuale opposizione: non si dice una campagna politica sul tema degli orari in relazione alla questione della sicurezza sul lavoro, ma almeno la presentazione di un disegno di legge in materia, tanto per dimostrare che i parlamentari che avevano votato l’ordine del giorno del 2007 non si trovavano in condizioni psichiche alterate dall’impatto emozionale delle fiamme torinesi. Nulla di ciò sinora è accaduto: perché purtroppo la memoria corta, da noi, è davvero una malattia endemica, che colpisce imparzialmente a destra e a manca. L’arbitrato d’iniquità e le altre trappole del collegato lavoro «Non sarà un’operazione certosina, ma un’opera pesante, chirurgica». Chissà se l’onorevole Sacconi aveva già in mente i contenuti del collegato lavoro quando ha pronunciato queste parole. Certo è che il collegato lavoro, al momento di nuovo all’esame delle Camere dopo il rifiuto del presidente della Repubblica di promulgare la legge già approvata, si presenta come un’operazione normativa, appunto, chirurgica e sicuramente pesante (devastante, in realtà, sarebbe l’aggettivo più adeguato) per i diritti dei lavoratori. La destra, in effetti, ha dimostrato di sapere imparare dai propri errori. Anziché caricare a testa bassa, puntando a cancellare direttamente diritti essenziali, come quello alla reintegrazione nel posto di lavoro a fronte di un licenziamento illegittimo (sancito dal famoso articolo 18 dello statuto dei lavoratori), con il rischio di ritrovarsi in piazza la protesta di tre milioni di lavoratori e dover fare marcia indietro, come accadde nel 2002, ha immaginato di perseguire lo stesso obiettivo per vie traverse, in maniera obliqua, con un intervento che non riguarda (apparentemente) il diritto sostanziale, ovvero le regole di diritto del lavoro, ma quello processuale. Ubi ius, ibi remedium dicevano gli antichi: di quest’aurea massima devono essersi ricordati i giureconsulti di riferimento del governo, suggerendo un intervento incentrato, appunto, sui remedia, tale da cancellare in un colpo solo le sanzioni e gli strumenti processuali atti a farle valere e, dunque, da rendere i diritti una sorta di relitto galleggiante sull’acqua. L’idea geniale è stata quella di recuperare, per destinarli ad altra funzione, due istituti già esistenti (la certificazione dei contratti di lavoro e l’arbitrato), ma rimasti sinora, non casualmente, inutilizzati. La certificazione è stata introdotta nell’ordinamento nel 2003, mediante la cosiddetta legge Biagi, ma è nata morta, perché l’obiettivo di far certificare da apposite commissioni (costituite in ambito pubblico, presso direzioni provinciali del lavoro e province, ma anche privato, presso enti bilaterali di emanazione sindacale e consigli provinciali dei consulenti del lavoro) la natura del contratto di lavoro, in maniera da impedire al lavoratore di rivendicare in giudizio il carattere subordinato del rapporto a fronte di un fittizio contratto di lavoro autonomo, non poteva più essere perseguito come si sarebbe voluto nelle proposte iniziali, a fronte di una pronuncia della Corte costituzionale, dalla quale risultava inequivocabilmente l’impossibilità di far prevalere la qualificazione formale del rapporto sulla sua realtà effettuale. L’arbitrato, per parte sua, esiste da tempo immemorabile anche nell’ambito delle controversie di lavoro, è stato riformato da ultimo nel 1998, ma non ha mai suscitato particolare interesse, soprattutto presso le imprese, dovendo i collegi arbitrali attenersi al rispetto delle medesime norme (di legge e contratto collettivo) applicate dai giudici dello Stato. Le imprese in effetti hanno sempre voluto tutt’altro. Non semplicemente la possibilità di ricorrere alla giustizia privata in luogo di quella dello Stato, ma una particolare forma arbitrale cosiddetta d’equità, espressione dal sapore accattivante, dietro la quale, purtroppo, si cela un istituto le cui implicazioni tecnico-giuridiche consentirebbero un’aggressione radicale ai diritti dei lavoratori, così come finora sono stati conosciuti e applicati: l’arbitrato d’equità che il collegato lavoro vorrebbe introdurre nell’ordinamento, infatti, si caratterizza proprio per il fatto di riconoscere al collegio arbitrale la facoltà di decidere secondo criteri di giustizia del tutto soggettivi e discrezionali e senza obbligo alcuno di rispettare le norme inderogabili di legge e contratto collettivo. L’arbitrato, dunque, potrebbe diventare uno strumento davvero particolarmente appetibile per le imprese. Per evitare poi che i lavoratori possano continuare a manifestare la loro preferenza nei confronti della giustizia ordinaria, si è pensato di rendere sostanzialmente obbligatoria la scelta per quella privata consentendo l’introduzione di una clausola compromissoria, che impegna le parti a devolvere ad arbitri tutte le future controversie, nel contesto di un contratto di lavoro certificato. Ecco, dunque, materializzarsi l’intreccio tra certificazione e arbitrato: tecnicamente sottile, ma comunque di assai probabile incostituzionalità, alla luce dei precedenti della Consulta in materia, puntualmente richiamati nel messaggio con cui il presidente della Repubblica ha rinviato il testo alle Camere. Essendo pattuita nel contratto di lavoro, all’atto dell’assunzione o a conclusione del periodo di prova (secondo quanto previsto dal testo riformulato dalla Camera dopo il rifiuto del presidente della Repubblica di promulgarne la versione originaria), ovvero in circostanze che, sia pure in diversa misura, vedono il lavoratore in condizione di estrema debolezza, non certo compensata dalla previsione della stipulazione davanti a una commissione di certificazione (quale lavoratore confesserà che l’impegno di devolvere le future controversie a un collegio arbitrale gli è stato imposto, con il rischio di compromettere l’agognata assunzione definitiva?), la clausola compromissoria soltanto formalisticamente potrebbe essere considerata rispondente all’«effettiva volontà» (22) del lavoratore: la quale potrebbe essere davvero salvaguardata solo ove l’accordo per deferire una controversia ad arbitri fosse raggiunto ex post (caso per caso e a controversia insorta), non certo da una clausola compromissoria che vincoli in generale per qualsiasi controversia futura. Quello prefigurato, in realtà, resta un arbitrato sostanzialmente obbligatorio e, per giunta, d’equità: una forma particolarmente iniqua di giustizia privata che ha giustamente attirato gli strali del Quirinale, i cui rilievi critici, più che sul varo definitivo della legge, appaiono destinati a pesare sul giudizio che, prima o poi, la Corte costituzionale sarà chiamata a esprimere sulla disciplina in questione. Al momento in cui si scrive, ad ogni modo, non è possibile esprimere un giudizio compiuto al riguardo, essendosi il disegno di legge impantanato, dopo la nuova approvazione da parte della Camera, presso la commissione Lavoro del Senato. Non è possibile, dunque, dire con certezza se (e sino a che punto) il tentativo di scardinare l’impianto del diritto del lavoro per via processuale andrà in porto (in tutto o in parte). Certo è che l’emendamento approvato alla Camera, a mente del quale non si potrà fare ricorso ad arbitri per risolvere controversie in materia di licenziamento, dovrebbe valere a trarre in salvo, ancora una volta, l’articolo 18, ma non risponde affatto esaurientemente ai rilievi del presidente della Repubblica. Quell’emendamento, infatti, implica che tutte le altre controversie, quantitativamente e qualitativamente di grande rilievo e riguardanti questioni cruciali del rapporto di lavoro (salario, orario, mansioni e qualifiche, discriminazioni e molestie sessuali, tutela della salute eccetera), potranno essere sottratte alla giustizia dello Stato e decise secondo criteri discrezionali e imprevedibili (in una vera e propria esaltazione della massima incertezza del diritto). Quand’anche la materia dei licenziamenti e l’articolo 18 riuscissero ancora una volta a resistere al tentativo di demolizione delle tutele, in altre parole, il problema giuridico-costituzionale non sarebbe affatto risolto: dal momento che, come sottolineato a chiare lettere nel messaggio del capo dello Stato, le gravi controindicazioni della disciplina dell’arbitrato «vanno al di là della questione, pur rilevante, delle garanzie apprestate nei confronti del licenziamento dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori». Non si sarebbero potute scrivere parole più pertinenti: dev’essere per questo che la destra governativa è montata su tutte le furie. L’onorevole Giuliano Cazzola, che con Brunetta e Sacconi compone la squadra dei tre moschettieri socialisti traslocati armi e bagagli nel campo della destra, ad esempio, non l’ha presa proprio bene: «È la prima volta che un presidente della Repubblica si pronuncia così puntualmente e ampiamente sul merito di una legge rinviata alle Camere e sicuramente costituisce un precedente», è stato il suo commento, cui è seguito l’annuncio minaccia: «La maggioranza dispone dei numeri per approvare il nuovo testo» (23). Dichiarazioni del genere dovrebbero fare riflettere. Le singole scelte del capo dello Stato, naturalmente, si possono condividere o meno: se a monte di quelle più recenti si è posta davvero, come da più parti affermato, una valutazione d’opportunità, appare però difficile non concordare. Dovendo scegliere – appunto per ragioni di opportunità politica – fra il non promulgare una legge (quella sul legittimo impedimento) che, dopotutto, pur rilevantissima sul piano dei princìpi, riguarda in concreto una trentina di persone e sembra destinata a essere certamente cassata dalla Corte costituzionale, e il rifiuto di sottoscrivere un provvedimento che tocca in maniera decisiva la sorte di milioni di lavoratori, risulta agevole comprendere come e perché si siano equilibrati i piatti della bilancia presidenziale. Si tenga conto, oltre tutto, che il messaggio del presidente della Repubblica non si è limitato a contestare le nuove regole in tema di arbitrato, ma ha toccato altri punti «critici» (per usare un eufemismo) del disegno di legge 1167. Si è già detto dei pensieri da esso riservati ai lavoratori precari. Non si potrebbe però concludere senza richiamare l’attenzione almeno su un’altra norma di macroscopica iniquità, dalla quale traspare, ancora una volta, la disponibilità a lasciare senza conseguenze il ricorso alla frode nel mercato del lavoro: la previsione con la quale si pretenderebbe di applicare un termine di decadenza (di sessanta giorni secondo la versione originaria della legge; novanta secondo un emendamento presentato dalla maggioranza e attualmente in discussione al Senato) per l’impugnazione del licenziamento anche a quelli che la legge qualifica come inefficaci (perché intimati in forma orale). Sino ad oggi la giurisprudenza ha sostenuto che l’impugnazione dei licenziamenti orali non è soggetta al rispetto di alcun termine di decadenza, per l’ovvia considerazione che, in casi del genere, non si saprebbe neppure da quando fare decorrere con certezza il termine in questione. Domani non sarà più così: e dunque i licenziamenti orali, sinora alquanto residuali, rischiano di avere libero corso e di restare impuniti, quand’anche del tutto privi di uno straccio di motivazione plausibile, potendo sempre datori di lavoro così disinvolti, da non rispettare neppure elementari regole di forma, avvalersi in giudizio di testimoni compiacenti, disposti a dichiarare che il licenziamento è avvenuto ben prima di quanto affermi il lavoratore (e, dunque, va considerato ormai inattaccabile per mancato rispetto del termine di decadenza) (24). E l’opposizione? Come sono state contrastate dai parlamentari d’opposizione queste raffinatezze della nouvelle vague giuslavoristica? Spiace dover ricordare che, proprio mentre il parlamento, grazie all’iniziativa del capo dello Stato, è stato chiamato nuovamente a discutere sul disegno di legge 1167, si è avuta notizia che 47 parlamentari del Pd hanno presentato un d.d.l. che rimette in questione l’articolo 18 dello statuto (per la via breve dell’attacco alla norma come tale), facendo propria la ben nota proposta del cosiddetto contratto unico (25). L’iniziativa, a quanto sembra, non è condivisa dalla maggioranza del Pd, che anzi pare averne preso risolutamente le distanze: il che è senz’altro positivo e incoraggiante. È meno incoraggiante che il maggior partito d’opposizione, proprio in un frangente del genere, si sia dovuto impegnare in simile discussione: senza che valga la pena aggiungere altre parole, questo spiega davvero molte cose. Post scriptum Non tutte le tessere del mosaico sono state poste sotto i riflettori (un discorso a parte, in effetti, andrebbe dedicato quanto meno all’impegno profuso dal governo per favorire il varo del nuovo sistema di contrattazione collettiva, senza il consenso della Cgil e prescindendo da qualsiasi forma di consultazione dei lavoratori: un sistema che, secondo molti osservatori, sembra fatto apposta per aggravare ulteriormente, nei prossimi anni, la tendenza alla caduta progressiva di valore reale dei salari): quanto detto, tuttavia, dovrebbe avere illuminato a sufficienza la coerenza e sistematicità di un’azione di governo univocamente rivolta a promuovere gli interessi di una parte sola. Non si può, ad ogni modo, risparmiare ai lettori la confessione di essere stati troppo ottimisti nel supporre che molto, di quanto realizzabile nel campo dei rapporti di lavoro, abbia già preso forma nel primo biennio della legislatura. Le cronache più recenti, in effetti, hanno dato conto di nuove esternazioni del ministro del Lavoro, con l’annuncio che le prossime attenzioni del governo saranno dedicate allo statuto dei lavoratori, la storica legge voluta da socialisti (senza virgolette) come Giacomo Brodolini e Gino Giugni. A parere del «socialista» Sacconi lo statuto sarebbe «troppo rigido e con tutele in una sola direzione»: giusto, dunque, proporsi di relegarlo in soffitta. Che l’onorevole Sacconi abbia in serbo di festeggiare in questo modo i quarant’anni appena compiuti dello statuto è cosa che, a ben vedere, doveva apparire ampiamente prevedibile. Ma l’opposizione, questa volta, come reagirà? Si scuoterà dal suo torpore o resterà appisolata e silente? Saprà costruire un argine alle sempre più aggressive pretese della destra (governativa e confindustriale), oppure metterà in scena una nuova replica della frusta rappresentazione del dialogo «costruttivo» e «riformista»? Note (1) Pronunciate il 7 giugno 2008 in occasione di un convegno dei Giovani imprenditori e riportate nel bel libro di F. Colombo, La paga. Il destino del lavoro e altri destini, il Saggiatore, Milano 2009, p. 49.
Massimo Roccella
Massimo Roccella, membro dell'Editorial Board di INSIGHT, è scomparso nel mese di novembre del 2010. Professore di diritto del Lavoro presso l'Università di Torino e autore di libri e saggi sul diritto del Lavoro tra i quali:Manuale di diritto del lavoro; Diritto del lavoro della Comunità europea; La Corte di giustizia e il diritto del lavoro,del Diritto del lavoro della Comunità europea. E’ stato componente del Comitato scientifico del Centro internazionale di studi sociali (CISS)e membro della Consulta giuridica del lavoro della CGIL. Collaboratore di riviste scientifiche e giornali fra i quali: "Lavoro e diritto", "Rivista giuridica del lavoro",,"L'Unità","Il Manifesto", "Il Fatto". |