Abstract:
Quando la crisi consiste nell’inasprimento delle ingiustizie sociali che, combattute in passato, si smette di combattere, l’emergenza economica si trasforma in emergenza democratica. L’attacco allo Stato sociale europeo non poteva cominciare che dal diritto del lavoro novecentesco, perché esso è il prodotto più qualificato di una politica che contende all’economia il governo della società. La cultura giuridica del lavoro dovrebbe assumersi la sua parte di responsabilità, interrogarsi sulle sue radici e riscoprire che il riformismo costituzionale non è morto.
Il più euro-centrico dei diritti
Sono grato all’Aidlass per l’invito a partecipare ai festeggiamenti del suo 50° compleanno e mi congratulo col suo Presidente per la scelta delle parole che tematizzano l’oggetto della mia relazione. Mi piace pensare, infatti, che l’assenza dell’espressione linguistica “crisi economica” non sia casuale e sia dovuta allo stesso motivo per cui nemmeno io la userò, o la userò con parsimonia.
Dato che la ciclicità è una costante dei processi economici, la crisi dell’economia è da considerarsi un abituale compagno di viaggio del diritto del lavoro. Ergo, non può designarne uno stato diverso dalla normalità. Mentre quello attuale, come tutti concordano, è uno stato d’eccezione. Stando così le cose, è preferibile parlarne come di un brutale inasprimento delle ingiustizie sociali che in passato erano combattute e che ora si è smesso di combattere. Per sempre? Non credo. E tuttavia per un periodo di tempo indefinito durante il quale rischia di cambiare non solo il nostro paese, bensì la storia dell’intero Occidente europeo che nella seconda metà del ‘900 si è costruita su di un rapporto d’interazione positiva tra economia e democrazia.
Pertanto, adesso che il rapporto si è spezzato, si profila il rischio che il lascito culturale di Federico Mancini racchiuda non tanto un monito quanto piuttosto un presagio: “se l’Europa non dovesse crescere come organismo democratico, quel che resterebbe da organizzare non sarebbe più l’Europa” .
Già dai tempi del liceo un’idea dello spirito del capitalismo delle origini ce la eravamo fatta leggendo famosi romanzi dell’800. Però, pur abitando nel fazzoletto di terra in cui il capitalismo è nato, e da cui ha spiccato il volo per colonizzare il mondo, il suo spirito originario non lo avevamo mai visto circolare per strada. Tant’è che pensavamo in buona fede che fosse estinto e la sua resurrezione impossibile. Oggi, invece, è tornato fra noi per urlarci in faccia che la narrazione di un diritto che dal lavoro prenderebbe nome e ragione è mistificante, perché quello che chiamiamo “diritto del lavoro” non è mai stato del lavoro se non nella misura compatibile con la sua matrice compromissoria e, dunque, è al tempo stesso un diritto sul lavoro. Prova ne sia che l’ininterrotta micro-discontinuità che ne caratterizza l’evoluzione è causata dalla dinamica di fattori esogeni attinenti alla logica dell’organizzazione produttiva, al modo di produrre ed alla sua efficienza, alla quantità di ricchezza prodotta ed ai criteri adottati dalle forze che ne decidono la ridistribuzione.
Come dire: in epoca risalente al lavoro è stato concesso di rompere un millenario silenzio – per affermare che esiste, vive e non è invisibile – a condizione di metabolizzare il divieto di alzare troppo la voce. Pertanto, è per via del fatto che il lavoro ha commesso il torto di alzarla oltre la soglia consentita che il capitalismo lo prende a ceffoni, riesumando i suoi animal spirits. Dopotutto, pacta sunt servanda.
E’ uno schema di ragionamento che può persuadere soltanto chi sia visceralmente interessato a sostenere che la subalternità del lavoro è incancellabile e che questo dato basta per giustificare la richiesta avanzata dal potere economico di reintegrare un dominio eroso dall’evoluzione del sistema legale.
Viceversa, il passato che abbiamo alle spalle non è interpretabile a stregua di una parabola moraleggiante sul peccato e il dovere di redimere il peccatore.
Il passato racconta semplicemente che il lavoro non aveva bussato alla porta della storia giuridica soltanto per essere rinchiuso dentro il recinto del diritto dei contratti tra privati e farsi avvolgere nel cellophane delle sue categorie logico-concettuali. Anzi, finché la sua fonte regolativa è stata l’autonomia negoziale privato-individuale, come accadeva agli inizi, il lavoro era rintanato nell’informalità della sua proto-storia. Per uscirne non gli bastò nemmeno il dispiegarsi dell’autonomia negoziale privato-collettiva. Perché anch’essa – dovendosi piegare all’esigenza, tipica della produzione industriale, di pianificare l’impiego di una forza lavoro regolare, massificata, rigidamente organizzata all’interno di macro-strutture gerarchizzate – è largamente influenzata da una cultura che attribuisce all’economia un ruolo pervasivo.
Per vedere accolte nell’ordinamento giuridico le sue aspettative in misura significativa, il lavoro ha dovuto richiamare su di sé l’attenzione di una élite intellettuale che contrastasse la pretesa dell’economia di governare la società e impedisse alla libertà dell’agire economico di tradursi nella libertà di monetizzare tutto, o quasi tutto, e dunque di mercificare il lavoro e, perché no?, la stessa esistenza. Poi, ha dovuto attendere che si formassero le condizioni materiali per mettere la politica al posto di comando.
Se si condivide questa premessa, e cioè che l’età della de-mercificazione del lavoro è cominciata solo quando si è affermata una cultura giuridica che subordina alla politica l’economia, è difficile allontanare l’impressione che il ceto professionale dei giuristi del lavoro attivi in Europa durante la lunga fine del secolo XX abbia consumato una trahison des clercs che per certi aspetti rimanda a quella di cui parlava nel secolo scorso Julien Benda.
Scagli la prima pietra quello di noi che non ha neanche flirtato col nuovo che vedevamo crescere o simpatizzato coi suoi portatori, ancorché intenzionati a rimettere in discussione i principi fondativi del diritto del lavoro insegnato nelle Università e applicato nei tribunali. Qualunque fosse il grado di coinvolgimento, e indipendentemente dalla plausibilità delle motivazioni, era un comportamento inspiegabile se non ipotizzando che l’agente non aveva la percezione di violare lo statuto epistemologico e scientifico della sua professione. Infatti, nessuno è tenuto a sapere, più e meglio di un giurista, che la legislazione è il più significativo dei mezzi espressivi della politica e che le decisioni del potere pubblico sotto forma di leggi, decreti, sentenze sono una componente costitutiva del diritto del lavoro. E nessuno, più e meglio di lui, dovrebbe sapere che, per il lavoro. ogni passo indietro della sua tutela giuridica equivale ad un passo in avanti sulla strada della rimercificazione.
Ciononostante, c’è chi ha finto di non sapere che il diritto del lavoro ha potuto proporsi come “uno dei pochi indubbi esempi del progresso della cultura giuridica del ‘900” perché, emancipandosi dalla concezione patrimonialistica e mercatistica prediletta dalla gius-privatistica, è penetrato nello spazio pubblico fino ad issarsi, nel secondo dopoguerra, nelle zone alpine del diritto costituzionale. Solo così è diventato adulto e, al tempo stesso, ha potuto contribuire ad avvicinare le società dell’Occidente europeo alla soluzione del problema di come far coesistere benessere economico, coesione sociale, democrazia politica – un problema che una volta Ralf Dahrendorf paragonò a quello della “quadratura del cerchio”.
Senza il prodursi di questo evento, Renato Scognamiglio non avrebbe potuto dire che il diritto del lavoro è “il” diritto del secolo .
Nella sola Europa occidentale, però. E, a voler essere pignoli, nemmeno in tutti i paesi, anche se d’importanza e in numero sufficienti ad accreditare l’opinione che quello del lavoro è il può euro-centrico dei diritti. In effetti, ciò che accomuna i legislatori del centro-sud e del nord dell’Europa è una tensione riformatrice, sconosciuta a tutti gli altri, per correggere le strutturali asimmetrie del rapporto di lavoro . Il che significa che in Europa, e soltanto qui, si è stabilizzato un clima culturale favorevole alla politica delle convergenze in assenza delle quali la coabitazione del diritto del lavoro col diritto di proprietà e con la libertà d’iniziativa economica degenera in rissa.
Adesso, l’equilibrio d’antan è saltato e il diritto del lavoro sta tornando dove tutto è cominciato. Perché?
L’eclisse dello Stato sociale europeo
Con la globalizzazione dell’economia si è creato uno smisurato mercato del lavoro al cui interno si scatena una sfrenata concorrenza. Lì entrano in contatto molte decine di centinaia di milioni di uomini e donne di tutti i continenti (un miliardo e mezzo, è stato calcolato) che considerano un dono del Signore qualsiasi lavoro con qualsiasi paga e circa mezzo miliardo di uomini e donne appartenenti ai paesi del G8 i quali, per scongiurare il rischio di de-localizzazione degli impianti produttivi (e/o di segmentazione dei cicli di produzione) nei paesi emergenti o in via di sviluppo, cedono diritti.
Se non tutti, molti di questi diritti rappresentano il precipitato politico di conflitti sociali esplosi entro i confini degli Stati-nazione dell’Europa occidentale dopo la cessazione della seconda guerra mondiale. Ossia, durante quello che Tony Judt definiva “il lungo momento socialdemocratico”. Era la fase della modernità dominata dall’incubo dell’effetto-contagio che l’esperimento rivoluzionario in atto nell’Est europeo era in grado di produrre a livello planetario. E’ per prevenirlo che, qualunque fosse la concezione del mondo cui aderivano (liberale, cattolica, socialista), i governanti misero a punto programmi di welfare State capaci di guadagnarsi il consenso dei governati dimostrando nei fatti come le democrazie dell’Occidente capitalistico potessero competere vittoriosamente col regime comunista.
Poi, l’impero sovietico è imploso, il Muro di Berlino è crollato e l’incubo è svanito. Là per là, pur essendo evidenti i nessi di origine, anche culturale, tra i due modelli rivali nessuno venne sfiorato dal dubbio che, caduto il modello sovietico, sarebbe caduto anche il modello dello Stato sociale europeo. Casomai, l’esito del confronto premiava il secondo e dunque provava la validità dell’approccio riformista di cui la social-democrazia ha sempre rivendicato il copy-right. Anche se, per la verità, questo è un caso in cui sarebbe consigliabile la prudenza. Coi tanti padri che ha la social-democrazia non può avere la certezza che tutte le madri siano donne oneste ed è per questo che farebbe bene ad interrogarsi sulle criticità del modello che concorrono a fare dello Stato più un generoso, docile e passivo erogatore di danaro pubblico che un avveduto gestore di servizi d’interesse collettivo.
Fatto sta che il finale della partita è stato interpretato e vissuto, anziché come un incentivo ad eliminare sprechi e distorsioni del modello europeo per migliorarne il rendimento, come la conferma irrefutabile che non esistono alternative realistiche alla società capitalistica. Così, sebbene non fosse in rerum natura né prescritto dal destino che la sconfitta del modello sovietico trascinasse per forza con sé quello europeo, ne ha accelerato l’eclisse .
Ad ogni modo – unitamente alla tolleranza della deriva dell’ideal-tipo social-democratico nelle diverse forme proprie dei singoli Stati-nazione: si pensi, guardando in casa nostra, alle pensioni-baby ed alle pensioni d’oro, al mantenimento sine die di cassa-integrati appartenenti ad aziende decotte ed all’uso dei pubblici impieghi in chiave di lotta alla disoccupazione – il naufragio del modello sovietico ha messo a nudo che l’adesione ai programmi di welfare era prevalentemente strumentale, come la disponibilità a negoziarli. In realtà, il modello europeo si sosteneva su di un intreccio di motivazioni tra cui vale la pena distinguere. Non c’era soltanto autentica convinzione. C’era anche coazione. Perché in giro c’era tanta paura: la paura del nemico; e c’era la necessità di rintuzzarne le mire espansionistiche, sia pure con mezzi che non offendessero la sensibilità democratica – indubbiamente cresciuta, rispetto agli anni del nazi-fascismo e del franchismo cui risale l’icona dello Stato-chioccia ed insieme padre-padrone, ma destinata a crescere ancora.
C’era infine una diffusa approssimazione culturale – ma su questo aspetto dovrò tornare in seguito.
Tutto ciò aiuta a capire perché l’establishment delle società acquisitive dell’Ovest europeo – cui oggi corrisponde il vertice istituzionale dell’Unione Europea – ritenga che quello Stato sociale, costruito in un contesto geo-politico che non c’è più, abbia perduto senso e scopo o, comunque, non sia più conveniente. In effetti, è riconosciuto vincente rispetto al modello col quale antagonizzava e, contemporaneamente, soccombente rispetto al modello nord-americano.
Come dire che i termini del confronto non sono più quelli di prima. Ad un certo punto sono cambiati. Sono cambiati nel momento in cui al modello europeo si è venuto contrapponendo un modello che è il compendio di quanto di più anti-europeo si possa immaginare, perché è indiscutibilmente, orgogliosamente, prepotentemente segnato ab origine dalla supremazia dell’economia sulla politica. E’ il modello che mette al posto di comando gli interessi economici privato-individuali e promuove “l’ideologia del successo individuale, che spinge al fare per avere, al saper fare al meglio per avere il meglio, al voler essere il meglio per avere il potere di scegliere il meglio per sé” . Un’ideologia che, proprio perché partorisce il sogno dell’iper-individualismo, non può non demonizzare il sogno di una società “altra” che sta dietro il riformismo. Almeno, dietro il riformismo migliore e meno contaminato o inquinato: quello che i giuristi dovrebbero convenzionalmente riconoscere nel riformismo che ha nella costituzione repubblicana il suo ormeggio identitario – ma anche questo è un elemento valutativo che dovrò riprendere.
L’incerto imprinting culturale del diritto del lavoro
Leggendo nei testi scolastici che l’ora X dell’inizio dello smantellamento dello Stato sociale europeo è scoccata quando, col competitore, sparì anche la necessità di conservare intatti gli apparati allestiti per gareggiare con lo Stato sovietico, soltanto i più ingenui o più sciocchi dei nostri nipoti si meraviglieranno che il diritto del lavoro novecentesco sia stato il bersaglio da colpire per primo. In effetti, il suo sacrificio era una scelta obbligata. Avendo molto in comune con ciò che ha portato la social-democrazia europea all’auto-dissoluzione, anche quella del diritto del lavoro è un’intrinseca debolezza: genetica, si potrebbe dire.
Ne costituisce un sintomo la frequenza con cui i giuristi del lavoro si comportano come il figliol prodigo che torna dal padre e gli confessa i danni che ha causato alle stesse idee di progresso per seguire le quali se ne era andato di casa. Non che fossero tutti compattamente schierati da una parte sola; tutt’altro. Il fatto è che il diritto del lavoro del ‘900 è uno dei prodotti meno imperfetti e più riusciti del riformismo, le performance del quale però dipendono dall’indeterminatezza della matrice culturale.
Per questo, la letteratura giuridica in materia di lavoro s’infittisce di dissidi non antagonistici (o di antagonismi apparenti) dove non si tarda a capire chi sia tra i contendenti quello che di fatto ha già accettato il modo di pensare dell’avversario, si serve del suo lessico, condivide i suoi referenti ideali. E ciò perché attingono dai medesimi serbatoi di pensiero, si muovono nel medesimo retro-terra valoriale e sono prigionieri dei medesimi pregiudizi.
Vero è che, frutto spontaneo della prassi, il diritto del lavoro è subito caduto in preda alle contrapposte ideologie che ambivano ad esserne considerate le levatrici: il liberalismo, nella sua declinazione sociale (oggi declinante) piuttosto che in quella meramente economica (la chiamano neo-liberismo), e il socialismo umanitario nato da una costola dell’Illuminismo. Tuttavia, la contesa ideologico-culturale ha gradualmente generato un clima che, negli ultimi tempi, ha assunto i contorni di una specie di coabitazione durante la quale i duellanti piano piano si sono resi conto che ciò che li unisce supera ciò che li divide. Li unisce l’interesse reciproco a riconoscersi la legittimazione ad amministrare un capitalismo trionfante. Li unisce l’idea che il sistema esistente è suscettibile di manutenzione, ma non è modificabile nei suoi fondamenti. Li unisce la fiducia che, con l’essenziale contributo dei mass-media controllati dal potere economico, la società finirà per adattarsi. Quasi per inerzia: “non ci sono condizioni alle quali l’uomo non possa assuefarsi”, si legge in una pagina di un grande scrittore della Russia zarista, “specialmente se vede che tutti coloro che lo circondano vivono nello stesso modo”.
D’altronde, pur nascendo da una critica di un assetto degli interessi la cui radicalità condurrebbe in astratto ad estremizzare il conflitto, il diritto del lavoro ne è per l’appunto la versione giuridificata e, come non mi stanco di ripetere, bilateralizzata. Per questo, ne ha sempre privilegiato la pars construens anche a costo di rilegittimare ciò che è oggetto di contestazione. In compenso, però, le venature di socialità che lo connotano mettono in rilievo la condiscendenza della controparte ad annacquare l’ethos del capitalismo ed a moderarne la dirompente esuberanza.
Diciamo allora la verità: riformismo è una delle troppe parole del dizionario contemporaneo condannate a restare in una condizione di polisemia o (il che è lo stesso) ad essere frainteso. Anzi, ormai è una parola che non parla. E certamente è destinata a morire se il pensiero dominante se ne appropria per proporsi come ispiratore di un “riformismo ablativo” che ha l’audacia di sfidare l’opinione dei linguisti secondo i quali il dictum non è separabile dal dicens, laddove una parola che parlava sinistramente alle destre di tutti i paesi, cambiando improvvisamente il segno diventa un goffo tentativo per svuotarla di significato.
Se questo è un eccesso riprovevole per la sua impudenza, è invece normale che il perimetro semantico del riformismo sia nascosto da una nebbia che, piaccia o non piaccia, permette alla cultura riformistica di inglobare anche quella corporativa . Anzi, godendo dell’appoggio della Chiesa cattolica, che ne è stata la mallevadrice più autorevole, la cultura corporativa ha accumulato tra gli uomini di pensiero e d’azione nell’Europa del secolo XX crediti non inferiori a quelli che può vantare la cultura riformistica di ascendenza laica.
Per evitare equivoci, dico subito che lo stretto legame esistente tra cultura riformista e cultura corporativa – visibile soprattutto quando l’una e l’altra coprono, secondo l’id quod plerumque accidit, operazioni di piccolo cabotaggio – è meno imbarazzante di quanto non possa sembrare a prima vista. Riconoscerne l’esistenza mette a disagio soltanto chi vede nella cultura corporativa l’habitat più propizio all’instaurarsi di un regime fascista. A chi sa di storia, invece, non sfugge che il corporativismo può affermarsi tanto prima dell’avvento quanto dopo il crollo di un regime fascista.
Cade opportuno, al riguardo, riandare a Francesco Carnelutti che – sul primo fascicolo della rivista giuridica fondata e diretta da Giuseppe Bottai nel 1927, Il diritto del lavoro – pubblica un articolo con un incipit di questo tenore: “In massima, non ci sono cose nuove da dire”; e, poco più tardi, da aspirante leader dell’anti-fascismo salottiero, non esiterà a lodare il regime: “uno dei [suoi] più grandi meriti sta nel non essersi mai lasciato travolgere dall’impeto distruttivo e nell’avere conservato tutto quanto era possibile conservare” .
Insomma, è un grave errore confondere il corporativismo col fascismo: questo è un fenomeno transitorio, quello è senza tempo . Infatti, la fine dei corporativismi storicamente realizzati non può mai dirsi definitiva: è sempre e soltanto virtuale. Per questo, il culto del neo-corporativismo praticato nell’Europa degli anni ’80 restituì all’esperienza della Repubblica di Weimar un’accecante attualità: Weimar costituisce per l’appunto il prototipo delle democrazie a vocazione corporativa .
Si dà il caso, perciò, che il riformismo sia debitore di gran parte del suo successo teorico e pratico alle medesime ragioni che hanno garantito l’universalizzazione del corporativismo: la pluralità di significati, la versatilità operativa e la spregiudicatezza con cui butta sul tavolo il suo jolly. Un jolly che si trova anche nel mazzo delle carte di cui dispone il corporativismo. L’asso piglia-tutto consiste nella possibilità di ricondurre le ambiguità tanto del riformismo quanto del corporativismo ad una lettura del c.d. principio di realtà orientata in modo da negare l’esistenza di un’opzione e la discrezionalità della scelta compiuta. Non che il pragmatismo sia necessariamente sinonimo di opportunismo in senso deteriore.
Nondimeno, aperto com’è alla possibilità di auto-correggersi e perfezionarsi in corso d’opera, predispone all’indulgenza. L’intero “diritto vivente”, è l’auto-assolutoria asserzione di un autorevole esponente del corporativismo fascista, “è un sistema di contraddizioni” . Ma l’asserzione è condivisa anche dai più convinti riformisti; anzi, è il loro mantra. Come dire: riformismo e corporativismo hanno alimentato una cultura che non può non attrarre i professionisti dell’interpretazione – giuristi e politologi, filosofi ed economisti. Anche se soltanto dopo la ricerca di Irene Stolzi che ha finalmente fatto piena luce su un percorso che per molto tempo è stato più chiacchierato che studiato, adesso può ritenersi generalmente acquisita quella che all’epoca era la percezione di una ristretta élite: riformismo e corporativismo sono gli ingredienti di base della cultura dell’accomodamento empirico dove ciascuno si piglia ciò che più gli aggrada o gli serve momentaneamente.
Il diritto del lavoro del ‘900 simboleggia per l’appunto la contiguità tra riformismo e corporativismo. L’uno e l’altro hanno fatto quel che potevano affinché il lavoro, sbucato dal buio della storia, potesse far udire la sua voce. Però, l’eclettico impianto culturale del diritto del lavoro come può favorire avanzamenti così non esclude arretramenti: Gérard Lyon-Caen amava dire che “le droit du travail c’est Pénélope devenue juriste”. Dipende. Dipende dall’oscillante rendimento della sua attitudine a mediare conflitti. La quale dipende, a sua volta, dal contesto in cui ha luogo la mediazione. E vi sono contesti in cui la mediazione scade nella manipolazione del consenso od anche nel ricatto. Ed è proprio quel che successe tanti anni fa quando (come recitava la testata di un quotidiano fiorentino che si pubblicava agli albori del socialismo) “il capitale [era] tutto e il lavoro niente”. Successe durante i decenni del secolo scorso caratterizzati da quella che Charles Maier definisce la rifondazione dell’Europa borghese. Sta succedendo di nuovo.
Adesso, infatti, si profila un passaggio d’epoca che somiglia – per dimensioni e profondità del cambiamento – a quello che segnò l’avvento del capitalismo industriale e, per ciò stesso, mette in affanno la cultura giuridica più aderente alla politica che credeva di saperne domare gli eccessi. La violenza dello scontro la disorienta, perché la costringe a dubitare della sua capacità di esorcizzare lo spettro della lotta di classe che l’Europa della prima metà del ‘900 represse congedandosi dalla democrazia per riempirsi di corporativismi autoritari e, sia pure con molte differenze , si riaffaccia nel terzo millennio.
Vero è che gli esperti d’uncinetto esegetico che affollano le aule giudiziarie non smetteranno di elaborare progetti di sentenza discordanti con le scelte legislative che riducono il lavoro a variabile dipendente dell’economia. Tuttavia, l’argomentazione interpretativa non si regge mai da sola. Perché la sua correttezza logico-formale è condizione necessaria, ma non sufficiente. Ovunque e sempre, la bontà del prodotto dell’interpretazione è certificata dalla maggioranza dei consensi che ottiene, ossia è misurata dal livello di condivisione che raggiunge tra interlocutori e fruitori d’ultima istanza. Come dire che l’interprete deve fare i conti col diffuso senso comune. E, si sa, andare in contro-tendenza costa fatica.
La responsabilità della cultura giuridica del lavoro
La storiografia non può darci indicazioni su come sarebbe il paese in cui viviamo se la costituzione che oggi occupa stabilmente le piazze ci fosse andata con la stessa continuità e con la stessa carica di aggressività sin dal giorno della promulgazione. Anzi, ci parla dell’atmosfera “brumosa” che assediava la Costituente: nel 1946 Piero Calamandrei scriveva su Il ponte che “la gente ignora la sua attività e se ne disinteressa”. Del resto, anche i padri costituenti se ne rendevano conto. Ma, non essendo dei giacobini, avevano chiaro che, in democrazia, non è possibile anticipare il futuro con azioni che non siano sostenute da larghi consensi. Uno di loro ce lo ha detto apertamente.
Vittorio Foa, nel saggio che raccoglie le “riflessioni” sulla sua vita, celebra l’apologia della mossa del cavallo, che metaforizza un modo dell’agire “nella politica come in generale nella vita”. La gradualità, confessa Foa, “mi era sempre apparsa come una timidezza. (…) Da vecchio, però, mi rendo conto che è spesso qualcosa d’altro”: è considerazione degli altri e valutazione della necessità del loro concorso all’azione (…) e l’apporto della gente richiede tempo” .
Infatti, benché il disgelo costituzionale fosse stato avviato dal centro-sinistra nella prima metà degli anni ’60, senza l’accelerazione impressa dalle lotte dell’autunno caldo non ci sarebbe stato lo statuto dei lavoratori, che si proponeva di sconfiggere l’eresia giuridica che faceva dello stato occupazionale e professionale acquisibile per contratto il prius e dello stato di cittadinanza il posterius, e, senza l’impetuosa ascesa del movimento femminista nel decennio successivo, si sarebbe continuato a pensare che la sindrome anti-egualitaria che colpisce le società organizzate da e per uomini se fosse, il loro indistruttibile connotato. Con questi precedenti, verrebbe spontaneo dire che anche la gradualità del processo culminato in questi anni nell’incontro della costituzione con la gente abbia qualcosa a che fare con la mossa del cavallo.
Anche stavolta, infatti, si assiste al “coinvolgimento del prossimo nella realizzazione di un progetto”. Per questo, bisognerebbe rivisitare la cultura giuridica. E non solo quella del lavoro. Ma anche, e soprattutto, quella della gius-pubblicistica, la cui riluttanza a valorizzare la capacità regolativa della carta costituzionale ha contribuito a ritardarne, come si è accertato, la socializzazione e dunque la stessa attuazione.
Se il diritto del lavoro è bene o male arrivato fin qui, lo deve anche alla vischiosità dei discorsi giuridici di cui è stato oggetto. Sennonché, quando gli acrobati se ne vanno, arrivano i clowns o i giocolieri. Oggi, infatti, non solo i governanti sono dell’avviso che il lavoro rientri in maniera pressoché esclusiva nella sfera degli interessi del suo venditore e del suo compratore e che la regolazione dello scambio spetti a soggetti che agiscono in base ad una concezione proprietaria della contrattazione collettiva. Prova ne sia che la richiesta di abrogare l’art. 8 della legge 148 del 2011 è stata trasversalmente giudicata “inopportuna, scriteriata, populista” e l’assordante silenzio mediatico calato sulla campagna referendaria, se non l’ha affondata ut erat in votis, sicuramente l’ha danneggiata.
Il dato da cui partire è che la norma interpella direttamente gli operatori giuridici: giudici, avvocati e giuristi-scrittori, ovviamente – ma anche negoziatori sindacali, capi del personale privato e pubblico, consulenti del lavoro. Li interpella perché costoro non possono dirsi estranei al processo di de-costituzionalizzazione che ha fatto defluire ed allontanato il lavoro, le sue regole e la sua rappresentanza sociale, dalla sfera di un superiore interesse presidiato dallo Stato. Il che significa che, per auspicabile che possa apparire la rimozione dell’art. 8, è verosimile che coeteris paribus essa non potrà comportare automaticamente il blocco né a fortiori l’inversione delle tendenze ascrivibili alla cultura giuridica prevalente in materia sindacale e del lavoro : quella della privatizzazione e della cedevolezza del sistema delle fonti di produzione normativa.
Ciò che colpisce è l’intonazione gladiatoria della formula legale. La latitudine della derogabilità degli standard protettivi. La sfrontata estremizzazione dalla logica economicistica. La macro-incostituzionalità della soluzione data al problema dell’efficacia dell’auto-regolazione sociale. La protervia con cui, dietro lo schermo del consenso maggioritario dei rappresentanti sindacali come condizione dell’efficacia dei contratti collettivi, si occulta che il tit. III dello statuto dei lavoratori – come osservava Massimo D’Antona in un saggio del 1990 – “si preoccupa delle garanzie dei rappresentanti di fronte al potere dell’impresa, ma non definisce la posizione dei rappresentati nei confronti dei medesimi”; e ciò sebbene nel frattempo sia esplosa la più virulenta crisi che si potesse immaginare degli istituti di rappresentanza democratica, quella sindacale inclusa.
Insomma, ciò che colpisce è la spudoratezza con cui si prefigura la radicalizzazione di un corporativismo esasperatamente aziendalizzato in una con l’indebolimento del ruolo del contratto nazionale cui si accompagnerà, in prospettiva, la balcanizzazione delle relazioni sindacali.
Perlomeno, la Confindustria e i suoi partner sanno essere più cauti. Ma intanto non solo si pronunciano a sostegno del continuum produttività – decentramento contrattuale – flessibilità delle regole, facendone la linea Maginot di un sistema produttivo che si sta sgretolando, ma invocano sgravi fiscali sulle voci retributive erogate a livello aziendale. E’ successo in occasione della sottoscrizione dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011e l’orientamento è stato ribadito con l’accordo omologo del 24 aprile 2013 che, in attuazione della legge di stabilità in vigore, generalizza la detassazione di tutte le retribuzioni erogate in azienda, a cominciare dal lavoro straordinario.
Il commento più tenero è che la metabolizzazione dei valori costituzionali (dall’eguaglianza alla solidarietà) è un processo incompiuto e che la speranza di “provare a reagire alla crescente frammentazione del sistema lavoristico utilizzando il collante delle fonti superiori” è diventato il banco di prova della vitalità della cultura giuridica. Sarà riformismo, ma il suo situarsi nel solco della costituzione è la garanzia che non procederà allo sbando e saprà mantenere la direzione di senso del tratto dell’itinerario percorribile dal diritto del lavoro che, col passare del tempo è diventato un “diritto di attuazione costituzionale” .
Il percorso che gli resta da compiere è traducibile graficamente in un contro-movimento. Se l’inizio fu segnato dal passaggio dallo status al contratto, benché non potesse superare la prova dei fatti il dogma dottrinale che vede nel contratto – quello di lavoro incluso – una promessa di libertà, il futuro potrebbe essere segnato da un ritorno allo status; uno status che non coincide più con quello occupazionale o professionale e nemmeno ne dipende: è lo status di cittadinanza protetto da una democrazia costituzionale.