Il contagio del referendum
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La previsione che si raggiungesse un accordo con la Grecia non teneva conto dell’obiettivo di fondo dei signori dell’eurozona: la punizione di una provincia che aveva osato ribellarsi. Ora Alexis Tsipras ricorre alla vecchia arma democratica del referendum. Dopo cinque mesi di trattative l’opinione più diffusa era che il governo greco e le istituzioni europee avrebbero trovato un compromesso dell’undicesima ora – o dell’ultimo minuto, quando martedì sera l’eurogruppo si è riunito in teleconferenza, respingendo l’ultima proposta greca prima del referendum (Tsipras letter). La previsione di un compromesso era a suo modo ragionevole. Con un difetto: era paradossalmente troppo ragionevole. Non teneva conto dell’obiettivo di fondo dei signori dell’eurozona: che non era la ricerca di un compromesso ragionevole ma la punizione di una provincia che aveva osato ribellarsi all’impero. Era necessaria una lezione esemplare: colpire uno per educarne cento. La decisione del governo Tsipras di indire il referendum è una scelta che sposta il conflitto a un nuovo livello, finalmente democratico, sottratto ai raggiri dell’oscura tecnocrazia di Bruxelles e all’arroganza di Wolfgang Schäuble. Su cosa dovrà esprimersi il popolo greco? Proviamo a ricapitolare brevemente i dati essenziali.(Qui le propste del governo greco prima della rottura del negoziato Greece's Proposals ) Il governo Tsipras ha trovato in eredità un debito pubblico astronomico di 320 miliardi di euro. A chi sono andati i prestiti delle istituzioni europee e del Fondo monetario internazionale? Si cerca di accreditare l’idea di un popolo levantino, abituato a vivere a sbafo, comunque al disopra delle proprie possibilità. E’ semplicemente falso. Nemmeno un euro è andato al popolo greco. Scrive Branco Milanovic, ex capo-economsta del Dipartimento di ricerca economica della Banca mondiale: “L’intera operazione di salvataggio della Grecia è stata un’operazione di salvataggio delle banche tedesche e francesi”. Essendo stati posti questi prestiti a carico del bilancio pubblico, ne è derivata una crescita esplosiva del debito Greco, e l’imposizione del famigerato programma di austerità. I suoi disastrosi risultati sono alla luce del sole. Scrive l’Economist, sul quale non pesa l’ombra di una qualche debolezza ideologica verso il governo greco: “ Dopo cinque anni di salvataggi e tagli del debito, l’economia greca si è ridotta del 25 per cento, la disoccupazione è al 26 per cento e il debito vicino al 180 per cento del PIL…Al primo ministro Alexis Tsipras, è stato chiesto di sottoscrivere misure di austerità simili a quelle prescritte ai precedenti governi che aveva combattuto dai banchi dell’ opposizione”. Padoan li avrebbe sottoscritti? Domanda retorica, essendo la risposta scontata. Il governo Tsipras aveva accettato – in effetti, subìto – l’impegno ad accrescere l’avanzo di bilancio fino al 3,5 per cento entro il 2018. Un impegno assunto con la corda al collo per un paese che avrebbe bisogno di investimenti pubblici per tornare a crescere. Per realizzare un simile programma non c’è altra soluzione che, da un lato, continuare a ridurre le spese sociali e gi investimenti; dall’altro aumentare le entrate. Il punto più corrosivo dal lato della spesa è quello delle pensioni. Bisogna aver in mente che a partire dal 2010 la spesa pensionistica è stata già ridotta del 45 per cento. E che il 75 per cento delle pensioni è sotto o vicina alla soglia della povertà. L’imposizione di ulteriori tagli è una pretesa micidiale per qualsiasi governo semplicemente decente, non diciamo di sinistra, se questa qualificazione ha ancora un senso. Ma Il governo Tsipras non si è tirato indietro. Ha proposto un progressivo risparmio sulla spesa pensionistica: da un lato, riducendo i prepensionamenti; dall’altro, col graduale aumento dell’età per l’accesso alla pensione fino a raggiungere la soglia dei 67 anni nel 2025. Una scadenza più vicina di quella programmata in Germania dove il limite dei 67 anni è previsto per il 2027. Le entrate sarebbero aumentate: a) elevando, da un lato, l’IVA al 23 per cento per tutti i prodotti con esenzione dei beni alimentari e dell’elettricità il cui aumento sarebbe stato limitato al 13 per cento – mentre una terza aliquota ridotta al 6 è riservata a medicine, libri e spettacoli teatrali - clausola quest’ultima capace di suscitare l’ironia di una tecnocrazia ignara di Euripide e Aristofane, padri nobili dell’antico teatro greco e dell’intero mondo occidentale. Non potendo bastare l’aumento dell’IVA, il governo greco aveva proposto di accrescere le entrate con: a) un aumento del 3,9 per cento dei contributi previdenziali pagati dai datori di lavoro - oggi al livello più basso in Europa; b) un aumento dell’aliquota sui redditi d'imprsa più alti dal 26 al 28 per cento; c) un’imposta una tantum sui profitti d'impresa superiori a 500 mila euro. Apriti cielo. Bruxelles ha bocciato le proposte greche in base al seguente argomento: l’avanzo di bilancio deve essere realizzato solo dal lato della riduzione delle spese, e dell’aumento dell’imposizione indiretta sui consumi, senza toccare i contributi previdenziali pagati dalle imprese, e i profitti anche al di sopra di 500 mila euro. Non meno importante una riforna del mercato del lavoro all'insegna della libertà di licenziare e la limitazione della contratazione collettiva. Tutto dettaggliato e sottoposto al controllo preventivo delle autorità dell'eurozona. Ora la parola passa al popolo sovrano. Se il referendum sancirà il SI alle proposte delle autorità europee, la maggioranza che sostiene il governo Tsipras si sfalderà, e le autorità europee chiederanno di trattare solo con un nuovo governo possibilmente guidato da un tecnocrate “alla Monti” e sostenuto da una nuova maggioranza che dovrà comprendere i partiti che hanno messo in ginocchio il paese. Cosa possiamo attenderci da una vittoria (mettiamo) plebiscitaria del NO? Il governo Tsipras chiederà di riaprire il ngoziato questa volta da una posizione di forza. Allora le autorità dell'eurozona dovranno scegliere: o un compromesso accettabile per la Grecia o forzarne l’uscita dall’euro. Una scelta non indolore. Nel primo caso sarà dimostrato, per la prima volta, che uno Stato membro può condizionare e cambiare la politica di austerità fino a cancellarne gli aspetti più irragionevoli. Allora prenderanno fiato le forze di opposizione e chiederanno ragione ai governi di Spagna, Francia e (perché no?) Italia della loro sottomissione alle politiche di austerità. Sarebbe un NO contagioso. I falchi dell’eurozona guidati da Schäuble cercheranno di far prevalere la linea dell’uscita della Grecia da presentare come una punizione esemplare, tale da scoraggiare ogni altro tentativo di ribellione. Ma l’aspetto paradossale è che i più interessati alla permanenza nell’euro dovrebbero essere i principali paesi dell’eurozona che direttamente, o attraverso Banca centrale, sono detentori della maggior parte del debito greco. Perché allora questa guerra al governo greco? L’interrogativo è sbagliato, se posto in termini di un’ordinaria logica di convenienza. Scrive Stiglitz: “ Non si tratta di soldi. ma di costringere la Grecia ad accettare l’inaccettabile – non solo misure di austerità, ma un insieme di politiche regressive e punitive”. Ma proprio per questo il referendum greco rappresenterà, anche al di là del suo esito, una scelta “contagiosa”. Molti altri paesi saranno tentati da questa nuova vecchia arma della democrazia da utilizzare contro l’oscuro autoritarismo della tecnocrazia di Bruxelles, sostenuta dalla Germania. Ha scritto Luciano Cafagna su Repubblica: ”Il referendum è lo strumento della sovranità popolare che veniva utilizzato nell’età antica. Chi lo critica si mette dalla parte degli oligarchi”. Da che parte si colloca il governo italiano? Finora con gli oligarchi. Ma il referendum voluto da Tsipras è destinato ad aprire nuovi scenari. Non solo in Grecia, ma in tutta l’eurozona, e la coppia Renzi- Padoan difficilmente potrà cavarsela con un’alzata di spalle, o rincorrendo, come cagnolini al guinzaglio, Angela Merkel. |