Il bazooka scarico di Draghi

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La politica monetaria non basta senza una politica fiscale espansiva. Ma la Germania non vuole: potrebbe uscire provvisoriamente dall'eurozona, adottando "un nuovo marco".

Leggendo l’intervento del Vice-Presidente della BCE, Vítor Constâncio, mi è tornato in mente il titolo di un recente e interessante libro di Mohamed El-Erian, “The Only Game in Town: Central Banks, Instability, and Avoiding the Next Collapse”. L’intervento di Constâncio è esplicitamente volto alla difesa della politica monetaria della BCE; non è difficile indovinare a chi è rivolto il discorso.

Le critiche rivolte alle recenti decisioni della BCE riguardano l’inefficacia delle misure o comunque la non sufficienza.  Quest’ultima è un’affermazione banale, dice Constâncio, e l’appello del G20 per politiche fiscali e riforme strutturali sarebbe benvenuto. Ma, vi sono giustificati dubbi sulla possibilità di implementare queste politiche. “Per cominciare le politiche di stabilizzazione fiscale sono limitate per legge nella UE, e dalla politica negli USA. Più in generale, i paesi che potrebbero usare lo spazio fiscale (Constâncio si riferisce alla Germania) non vogliono, e molti altri che vorrebbero, non possono”.

Questo è parlare chiaro, ma le proposizioni che seguono sono ancora più interessanti. “Ci rimangono le riforme strutturali. Alcune, come il miglioramento dell’istruzione e dell’efficienza giudiziaria, sono importanti, ma richiedono tempo per essere implementate e per produrre risultati. Le riforme strutturali che gli economisti spesso hanno in mente (cioè liberalizzazione e deregolamentazione dei mercati) conducono nel breve periodo a salari e prezzi più bassi, cosa che non aiuta a normalizzare l’inflazione. E, per quanto riguarda la disoccupazione, una produttività più alta spesso inizialmente implica un risparmio di lavoro. Le riforme strutturali sono essenziali per la crescita potenziale di lungo periodo, ma è difficile vedere come possano spingere la crescita in modo significativo per i prossimi due anni, specialmente quando il problema attuale è la carenza di domanda globale”.

Del resto, aggiunge Constâncio, il piano del G20 di Brisbane, che doveva determinare una crescita addizionale di due punti con una lista dettagliata di riforme, è stato un fallimento. Conclusione: l’unica politica possibile resta la politica monetaria: “If not monetary policy, then what?”.

Lasciamo da parte il discorso su quali “riforme strutturali” determinino la crescita di lungo periodo, se non per dire che sulla piena flessibilità del lavoro si possono avere molti e fondati dubbi. Torniamo al Quantitave easing (QE) della BCE; ammesso che sia l’unica politica possibile, rimane il dubbio se sia efficace. Constâncio torna sul tema dell’inefficacia: certo, dice, se si guarda all’andamento dell’inflazione, sembrerebbe che il QE non abbia funzionato. Ma se ci domandiamo cosa sarebbe successo se la BCE non avesse svolto la sua politica espansiva, la conclusione, basata su diversi modelli, è che nel 2015 avremmo avuto una deflazione di -0,33% e anche nel 2016 avremmo avuto deflazione. Insomma il QE ha impedito una caduta dei prezzi, malgrado il crollo del prezzo del petrolio. Inoltre la BCE stima che due terzi della crescita degli ultimi due anni sia dovuta alla politica monetaria, ma che il recente rallentamento dell’economia mondiale abbia ridotto la spinta delle esportazioni nette.

Be', sarebbe strano che la BCE valutasse di modesta entità le misure del QE; si può prendere con una certa cautela queste valutazioni, come d’altra parte bisogna fare anche per le valutazioni opposte delle agenzie di rating. Piuttosto va considerato che siamo già al terzo potenziamento del QE, quest’ultimo con due novità: l’acquisto diretto di obbligazioni delle (grandi e solide) imprese, e un TLTRO (Targeted Longer-term Refinancing Operations) ulteriormente rafforzato. Intanto il dato dell’inflazione a febbraio è un -0,2%, rispetto al +0,3% di gennaio.

Rimane sempre vero che è più facile tirare una corda che spingerla. Il punto è che nell’Europa del nord non vi sono problemi al finanziamento degli investimenti; la questione è la riluttanza delle imprese a farli. Nell’Europa del sud, dove da sempre il peso del finanziamento bancario è particolarmente forte, invece ci sono anche seri problemi dal lato del credito. E qui compare una delle stranezze delle politiche europee: mentre il QE spinge in una direzione nella politica monetaria a livello macro, le misure dell’EBA e della stessa BCE a livello micro vanno in direzione opposta.

Le ultime previsioni della Commissione danno un 8,6% sul PIL della bilancia delle partite correnti in Germania. A parte il fatto che siamo in evidente squilibrio macroeconomico, è chiaro che vi è tutto lo spazio fiscale del mondo per politiche espansive. Ma se in Germania sono sordi, e se la spinta della Commissione si è risolta nel piano Juncker, allora una modesta proposta può essere la seguente: la Germania esca per almeno un quinquennio dall’euro (insieme ad Austria e Olanda, se vogliono), tornando al “nuovo marco”, mentre gli altri paesi restino nell’euro, per evitare svalutazioni competitive tra Francia, Italia, Spagna e altri paesi. Il nuovo marco si rivaluterà, mentre l’euro si svaluterà anche nei confronti del dollaro, sterlina e yen. Chissà, può essere che tra cinque anni gli umori in Germania saranno cambiati.

Ruggero Paladini

Economist - Professor of "Scienza delle Finanze" at University "La Sapienza" Roma; Member of the Economic Board of Insight - ruggero.paladini@uniroma1.it