I paradossi dell'eurozona

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Tra austerità, riforme di struttura e recessione le politiche autodistruttive dell’Eurozona.

Un raro umore di compiacimento ha caratterizzato la leadership dell’eurozona dopo l'ultimo Vertice europeo di marzo. All’origine vi furono la decisione del secondo salvataggio della Grecia con il varo del pacchetto di 130 miliardi di euro e il taglio di altri 100 miliardi di euro di debiti verso le banche private: una doppia manovra per evitare l’imminente default della Grecia.

 Allo stesso tempo, e non meno importante, la decisione di Mario Draghi di far intervenire la BCE sui mercati finanziari con oltre mille miliardi di euro a medio - lungo termine e con un costo irrisorio dell’uno per cento a favore delle banche e indirettamente del debito sovrano. Infine, il varo del “fiscal compact” fortemente voluto da Angela Merkel per porre sotto controllo i bilanci pubblici degli stati dell’eurozona. Risultati presentati come passi decisivi sulla strada dell’uscita della crisi.

In verità un passo nel mondo dell’illusionismo nel quale si muove la leadership dell’eurozona e una dimostrazione dei sorprendenti paradossi che ne caratterizzano la politica da quando la crisi è scoppiata. Basta dare uno sguardo ravvicinato, cominciando dalla Grecia.

Dopo il secondo piano di salvataggio, se tutto funzionerà secondo le previsioni dell'UE e del FMI, la Grecia  raggiungerà nel 2020 il120,5 per cento del rapporto debito-PIL. Vale a dire, un tasso superiore al livello che registrava la Grecia quando il neo- eletto primo ministro George Papandreou denunciò la falsificazione del bilancio da parte del precedente governo conservatore di Kostas Karamanlis.

A quell’epoca una graduale soluzione concordata con le autorità di Bruxelles avrebbe potuto consentire una gravosa ma non impossibile marcia sulla strada del riequilibrio, favorita dalla serietà del nuovo governo greco. Ma le autorità europee respinsero ogni ragionevole ipotesi di programma concordato, imponendo per i primi interventi di assistenza tassi d’interesse punitivi e una politica di austerità che hanno gettato il paese nella profonda recessione che continua e in un inevitabile peggioramento del debito.

Ora, dopo tre anni di recessione, di crescente disoccupazione di massa e di disgregazione sociale, il debito è al 165 per cento del PIL. E, paradossalmente, per attestarsi al 120,5 per cento del prodotto interno lordo, l’attuale livello del debito italiano, la Grecia dovrebbe aspettare fino alla fine del decennio. In sostanza, il rischio di default greco rimane invariato, e l’inverosimile paradosso della politica europea verso la Grecia non potrebbe essere più evidente.

Il vero cambiamento nella politica della zona euro degli ultimi mesi deve essere ampiamente accreditato alla Banca centrale europea. Attraverso l’operazione di rifinanziamento, per oltre mille miliardi di euro con durata triennale e una gamma di collaterali indiscriminata, oltre 1000 banche hanno attinto a un finanziamento a tassi d’interesse negativi. Quest'operazione "ha evitato una grave crisi del credito", secondo il presidente della Bce, Mario Draghi. Ma non solo.

Le banche sono tornate sul mercato delle obbligazioni sovrane  favorendo, per un breve periodo di tempo, una consistente riduzione dei tassi d’interesse per i paesi più pericolosamente esposti alla speculazione, come Spagna e Italia. Così, dopo un lungo e inconcludente dibattito sul ruolo della Banca centrale, come prestatore di ultima istanza verso il debito sovrano, la BCE è in realtà diventata prestatore di prima istanza a favore delle banche private, che attraverso le operazioni di “carry trade” hanno usato una parte dei fondi presi a prestito all’uno per cento per acquistare le obbligazioni ad alto rendimento dei governi in difficoltà, guadagnando la differenza, che sarà pagata dai contribuenti. Un percorso tortuoso di una occulta quanto estesa politica di "quantitative easing", la politica tipicamente utilizzata dalla Federal Reserve per alleviare l’indebitamento del Tesoro americano e ridurne i tassi, condotta nell’eurozona passando attraverso il settore bancario privato, invece che attraverso acquisti diretti di attività sovrane. Un rimarchevole esempio dei paradossi della politica dell’eurozona sotto l’egida fondamentalista di Berlino che vieta interventi diretti sul debito sovrano, anche se Jean-Claude Trichet, il precedente presidente della BCE, vi aveva fatto ricorso nei confronti della Grecia.

Tuttavia, anche se la medicina BCE è stata utile per guadagnare tempo, il problema del debito sovrano rimane pericolosamente irrisolto nella misura in cui l'intero quadro economico è gravato dalla recessione che colpisce l’intera eurozona e, in misura maggiore, i paesi più a rischio come Spagna e Italia. Tanto più che alla fine del triennio gli oltre 1000 miliardi di prestiti dovranno essere rimborsati alla BCE, mentre i membri più deboli della zona euro collettivamente considerati, avranno bisogno di prestiti per due mila miliardi nei prossimi due anni, secondo Willem Buiter di Citigroup.

Ed ecco la terza operazione di cui Berlino e Bruxelles si sono mostrate particolarmente orgogliose: il nuovo “patto fiscale”. Cioè, il nuovo impegno giuridico di ciascuno Stato membro di limitare il deficit di bilancio entro lo 0,5 per cento del PIL e di ridurre il debito del 5 per cento ogni anno fino a raggiungere il 60 per cento dei parametri di Maastricht. Funzionerà questa nuova dottrina?

La prima reazione è venuta dalla Spagna. L'inchiostro con cui il patto era stato scritto era ancora fresco, quando, con grande disappunto dei tecnocrati di Bruxelles, il primo ministro Mariano Rakoy, ha fatto presente che la Spagna, ormai nel pieno della recessione, non sarebbe stata in grado di rispettare l’obiettivo di ridurre il deficit dall’8,5 per cento del 2011 al 4,4 programmato per il 2012, annunciando che l'obiettivo del nuovo governo sarebbe stato un deficit del 4,8 per cento (ma alla fine costretto dalla Commissione Europea di concordare al 5,3 per cento).

La reazione è perfettamente ragionevole. La Spagna è in recessione e la disoccupazione è vicina al 25 per cento della forza lavoro, un livello che ricorda la Grande Depressione negli Stati Uniti nel 1932 durante gli ultimi mesi del presidente Hoover. Tuttavia, con una grande differenza. Allora Franklin Roosevelt si accingeva ad assumere la presidenza e a invertire la tendenza attraverso le politiche del New Deal. Questa volta, le politiche europee si muovono rovinosamente nella direzione opposta.

La strategia di contrasto alla crisi si basa sulle politiche dal lato dell'offerta, il cui centro sono le famigerate “riforme di struttura”. In sintesi: il taglio delle spese sociali e l’ulteriore deregolazione del mercato del lavoro. Subito dopo essere stato eletto, Mariano Rajoy ha varato per decreto-legge (strumento legislativo privilegiato dei governi d'impronta tecnocratica) sulla definitiva liberalizzazione dei licenziamenti e la libertà per le aziende di modificare unilateralmente i contratti collettivi, riducendo i salari. Sperava con queste ennesime misure di attacco al sindacato e alle classi lavoratrici di soddisfare le richieste di Bruxelles e di ottenere maggiore comprensione dal lato della politica di bilancio. Ma, come abbiamo visto, così non è stato e la pressione delle autorità europee, insieme con l’aggravarsi della recessione, ha spinto verso un nuovo rialzo lo spread sui titoli a lunga scadenza.

Poi è stato il turno del premier italiano Mario Monti, alla testa di un governo tecnocratico per eccellenza, di dimostrare la sua indiscussa fedeltà alle politiche europee. Il primo impegno del nuovo governo tecnocratico era stata la riforma delle pensioni con l'estensione dell'età pensionabile fino a 67-70 anni – un traguardo molto apprezzato da Bruxelles che scavalca tutte le precedenti riforme europee in tema di pensioni.

La seconda è stata una generale riforma del mercato del lavoro con al centro la sostanziale eliminazione dell’articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori, mirante a escludere il reintegro dei lavoratori in seguito all’eventuale accertamento da parte del giudice dell’illegittimità del licenziamento per ragioni economiche. In pratica, la definitiva marcia di avvicinamento ai licenziamenti ad nutum o “at wish”, secondo il modello americano. Ma questa volta la decisa opposizione sindacale, in particolare, della CGIL, e l’opposizione del Patito democratico hanno imposto un compromesso al governo “super-europeo” di Monti (si vedano in questo numero gli articoli di Romagnoli e Lettieri) .

E 'sorprendente vedere come le autorità europee si siano date il compito di demolire la credibilità dei governi nazionali indotti a imporre politiche impopolari quanto controproducenti, mettendo in discussione il funzionamento democratico delle istituzioni. "La Grecia è la prima colonia della zona euro ", ha scritto Wolfgang Munchau, vice-direttore del Financial Times. Il Portogallo sembra essere il secondo candidato alla neo-colonizzazione tramite i mercati e le tecnocrazie europee. Ma cosa dobbiamo attenderci per i paesi più grandi della zona euro? Per il momento Rakoy è stato il primo a sollevare obiezioni, anche se senza risultati, all’assurda ostinazione deflazionista dell’asse Berlino-Bruxelles. Mario Monti, per la prima volta in difficoltà in Italia ha sia pure sommessamente spiegato che l'Italia non può reggere un clima di “austerità” (più tasse e tagli della spesa sociale) mentre si approfondisce la recessione e cresce la disoccupazione di massa.
 
Ma né Rakoy né Monti sono in grado di sviluppare una vera opposizione alla strategia dell’asse Berlino-Bruxelles. La vera novità potrebbe venire dalla Francia. François Holland sembra destinato a guadagnare le elezioni di maggio. La sua, pur cauta, contestazione del nuovo patto fiscale e la richiesta di un cambiamento politico in direzione della crescita ha allarmato Angela Merkel, consapevole dell'importanza del partenariato francese.

In effetti, l'Unione Europea è stata sin dalla sua origine il frutto della determinazione francese e tedesca. Dopo più di mezzo secolo, in un contesto profondamente cambiato, il futuro europeo continua a dipendere dalla partnership franco-tedesca r. All'inizio, la Francia era il centro politico della costruzione europea. Oggi, la Germania ne ha accaparrata la leadership. E finora ha esercitato la sua egemonia politica chiudendo la zona euro in un labirinto di paradossi. La via d'uscita è profondamente incerta. E purtroppo non è difficile immaginare che, senza una radicale inversione della condotta masochista della sua leadership, la costruzione europea inclina verso una fatale auto-distruzione.