I paradossi della crisi e le possibili vie d'uscita
Abstract:
I bilanci delle istituzioni finanziarie sono migliorati grazie al fatto che esse prendono fiumi di denaro gratis dalle Banche centrali. Ma assistiamo al paradosso che i sostenitori del vecchio modello di sviluppo, basato sulla centralità dei mercati e la riduzione del ruolo pubblico usano proprio la crescita dell’indebitamento pubblico per ribadire e rafforzare la richiesta di una riduzione del ruolo pubblico e soprattutto della spesa sociale.
A che punto è la notte?
Il peggio è passato, ma la ripresa sarà lenta. Questa è l’opinione corrente e può darsi che sia vera: secondo il Fondo monetario internazionale il rapporto fra deficit pubblico e prodotto lordo nel complesso dei G20 è passato dall’1,1% nel 2007 all’8,1% nel 2009: un così massiccio intervento pubblico non poteva non avere un significativo impatto sul livello dell’attività economica mondiale ed è naturale che l’impatto più evidente si mostri in quei paesi che, Usa in testa, più hanno utilizzato la leva del deficit pubblico. Se si vuole però andare più in là di una diagnosi così generica occorre porsi almeno un paio di domande: sono i sistemi finanziari stati risanati? Sono, soprattutto, in via di superamento i profondi squilibri che si erano andati accumulando nell’economia mondiale nel trentennio del ciclo economico neo-liberista, che sono alla base degli abnormi processi di indebitamento e della degenerazione della finanza e dei quali la causa principale sono la crescente disuguaglianza nella distribuzione del reddito nelle varie aree e la crescente concentrazione della ricchezza?
Lo stato della finanza
Per quanto riguarda la finanza è troppo presto per cantare vittoria. E vero, il collasso dei sistemi finanziari, che fu una caratteristica determinante della crisi degli anni ’30, è stato evitato e se si considera la riprese dei profitti e dei bonus ai dirigenti della grandi banche statunitensi si potrebbe credere che tutto stia tornando come prima. Non è così. Il livello di indebitamento delle famiglie e delle banche, specie nei paesi anglosassoni, resta molto alto; il livello dei default nel campo dei mutui può aumentare e ad essi stanno sommandosi crescenti default nel credito al consumo ed alle imprese.
I bilanci delle istituzioni finanziarie sono migliorati grazie al fatto che esse prendono fiumi di denaro gratis dalle Banche centrali e li impiegano non per finanziare le imprese quanto per acquistare azioni e titoli pubblici, emessi in abbondanza per finanziare l’esplosione dei deficit, o per intraprendere nuove avventure speculative nei mercati delle commoditiy, delle valute o dei paesi emergenti. Alcuni di questi paesi stanno già frapponendo ostacoli all’ingresso di capitali speculativi. Lo straordinario rally delle borse è il frutto di questa attitudine ed è sostenuto da politiche monetarie con tassi di interesse reali prossimi allo zero o addirittura negativi. E la stessa situazione che ha favorito, a partire dal 2003, la formazione della bolla immobiliare e non è affatto escluso che nuove bolle si stiano ora formando nei mercati azionari e nei mercati delle commodity.
Purtroppo il modo in cui finora, soprattutto il governo Usa, ha operato salvando non solo le banche, come era necessario, ma anche i banchieri ed i manager che hanno provocato il disastro ed il permanere di politiche monetarie molto espansive, che determinano anche un trasferimento di reddito dai risparmiatori alle banche e favoriscono nuove tendenze speculative, giustificano il timore espresso da Trichet, di un ritorno al “ business as usual”. Anche l’International Bank of Settlement, convocando una riunione di banche centrali, ha avvertito che “….le imprese finanziarie stanno tornando ai comportamenti aggressivi della fase precedente.” Il salvataggio dei banchieri, tra l’altro, ha lasciato intatta la forza della potentissima lobby della finanza statunitense che si oppone ora strenuamente ad una adeguata riforma della regolazione della finanza.
Il livello di capitalizzazione delle banche resta, tuttavia, profondamente inadeguato esso dovrebbe essere ulteriormente rafforzato secondo le nuove regole che si vanno prospettando, ma non è detto che i mercati saranno disponibili a fornire tali capitali. Secondo l’Ocse, per raggiungere un livello di capitalizzazione adeguato, tenendo conto delle perdite acclarate ed un rapporto capitale/debito accettabile, le banche europee dovrebbero alzare 2,8 trilioni di dollari di capitale. Una somma enorme che non è detto i mercati siano disposti a sottoscrivere. Tale cifra potrebbe tuttavia risultare sottovalutata in quanto una parte delle perdite presenti nei portafogli delle istituzioni finanziarie non appare in seguito al cambiamento delle regole di contabilità, deciso in corso d’opera, che consente di valutare una serie di asset non più ai prezzi di mercato, ma con parametri convenzionali. Il risultato di tutto ciò è che per un periodo non breve i sistemi bancari non saranno in grado di sostenere adeguatamente l’economia reale ed una dicotomia, peraltro già evidente, tra le grandi imprese che possono abbastanza facilmente rifornirsi di risorse finanziarie direttamente da mercati molto liquidi e quelle, piccole e medie, che sono costrette a rifornirsi attraverso le banche.
In definitiva, si può dire che il collasso è stato evitato con veri e propri salvataggi, formidabili iniezioni di liquidità nelle banche e mascherando il livello reale delle perdite nella speranza che in qualche anno il miglioramento della situazione ne riduca l’ammontare. Si spera insomma che passi la nottata, ma niente esclude che durante la notte scoppino altri temporali.
Gli squilibri
Il tema degli squilibri dell’economia mondiale può essere affrontato innanzitutto guardando a ciò che sta accadendo in seguito alle politiche adottate; in secondo luogo considerando gli orientamenti politici che stanno confrontandosi su questo tema decisivo. Se guardiamo alle bilance dei pagamenti, dall’inizio della crisi il deficit strutturale degli Usa è dimezzato e così gli attivi di Cina, Germania, Giappone. Questi dati segnalano una consistente riduzione degli squilibri; disgraziatamente tale riduzione appare, per ora, semplicemente come la conseguenza della recessione e della caduta del prezzo del petrolio che essa ha provocato: la caduta della domanda di consumi nei paesi anglosassoni ha comportato una riduzione delle loro importazioni ed una forte riduzione delle esportazioni dei paesi esportatori: non a caso sono questi ultimi che hanno patito la più forte diminuzione del prodotto lordo. D’altro canto al primo accenno di ripresa il deficit statunitense è peggiorato e le esportazioni di Germania e Cina sono ripartite alla grande. Proiezioni elaborate in una recente ricerca del Peterson Institute for International Economics e riportate in un interessante saggio sulla crisi dal suo direttore Fred Bergsten sul numero di Novembre 2009 di Foreign Affairs mostrano che, se le cose restassero come sono, la posizione sull’estero degli Usa si deteriorerebbe ed il deficit della bilancia dei pagamenti corrente salirebbe dal record del 2007, pari al 6% del Pil, al 15% nel 2030, alla stessa data il debito netto sull’estero salirebbe dal 30% al 150%. Naturalmente tali livelli non saranno mai raggiunti: ben prima assisteremmo a nuove pesantissime crisi.
Anche il ritorno al risparmio delle famiglie statunitensi segna la riduzione di uno squilibrio, in quanto l’eccesso di consumi e di indebitamento è stato una delle cause della crisi. Questo è un fenomeno destinato a durare ed ad aumentare, visto che il livello di indebitamento delle famiglie resta altissimo e che l’attuale livello di risparmio è ancora insufficiente. Per ora, tuttavia, anche tale riduzione si scarica semplicemente nella recessione: la caduta della domanda di consumi dei paesi anglosassoni, che è stata per anni la più dinamica componente della domanda mondiale, in mancanza di qualcosa che la sostituisca, si traduce semplicemente in una caduta della domanda mondiale; per ora tale fenomeno e contrastato solo dall’aumento della domanda pubblica e non si intravede ancora cosa possa in futuro sostituire il ruolo determinante per lo sviluppo dell’economia mondiale che ha avuto la crescita dei consumi dei paesi anglosassoni finanziati con indebitamento.
Il problema del livello e della distribuzione spaziale della domanda resta fondamentale anche perché mentre l’ l’aumento del tasso di risparmio è un fenomeno generalizzato, nei paesi Ocse esso è aumentato in media del 7,4% del Pil, mentre il livello degli investimenti è crollato ed un più alto tasso di risparmio delle famiglie insieme ad una minore propensione al rischio caratterizzerà probabilmente i comportamenti futuri. Se a questo si aggiunge il fatto che i processi di ristrutturazione avviati dalle imprese in risposta alla crisi sta contribuendo ad aumentare dappertutto il tasso di disoccupazione riducendo il livello dei consumi si capisce perché i mercati continuano a temere una recessione con doppia caduta e perfino il rischio di deflazione.
Alcune tendenze stanno nel frattempo affermandosi che producono effetti strutturali importanti. “ Big is back”, così una recente copertina di The Economist segnalava l’aumento di concentrazione che si sta verificando in molte attività produttive. Tale fenomeno è particolarmente importante per il settore finanziario, specie se le politiche di salvataggio, come in Usa, salvano le grandi, ma lasciano fallire le piccole banche. In tal modo si aggrava il problema evocato per sostenere la necessità dei salvataggi, cioè che talune banche siano troppo grandi per lasciarle fallire. Come abbiamo visto il problema non riguarda solo le banche. Più in generale, gli interventi di salvataggio di imprese finanziarie e non, realizzate da ciascun paese a modo proprio e per obbiettivi nazionali, stanno creando situazioni incompatibili con una sana competizione.
Un’altra tendenza in atto evoca una critica mossa già negli anni ‘30 da Friederich Hayek alle politiche di deficit spending proposte da Keynes: se tali politiche, dirette a bilanciare con l’aumento della domanda pubblica finanziata in deficit la caduta di quella privata, vengono attuate nella presenza di squilibri nella struttura dell’offerta e gli investitori restano convinti che il futuro sarà come il passato, eccessi di capacità produttiva e squilibri potranno rafforzarsi. Ora è chiaro che agli squilibri accumulatisi nella struttura dell’economia mondiale corrispondono eccessi di capacità produttiva generati dal modo come si è formata la domanda e si è distribuita a livello mondiale anche in seguito alla enorme crescita dell’indebitamento. Siffatto problema è destinato ad aggravarsi se l’aumento del deficit pubblico si accompagna a politiche di incentivazione dirette a sostenere proprio i settori in eccesso di capacità produttiva. L’auto è, per unanime riconoscimento, in forte eccesso di capacità produttiva, ma è il settore più incentivato. Lo stesso si può dire per la finanza, settore sovradimensionato, ma fortemente sostenuto.
Questo problema solleva un tema di fondo. Se si guarda alla necessità di sostenere la domanda, oggi non possiamo non dirci keynesiani ed è evidente che questo intervento statale ha avuto finora un effetto positivo. Tuttavia tale sostegno si realizza in presenza di formidabili squilibri strutturali e può aumentarli. Non è la semplice adesione alla politica del deficit spending lo spartiacque fra destra e sinistra. Oggi tutti i governi le stanno praticando. Si tratta invece di sapere che il sostegno pubblico alla domanda, necessario per evitare un collasso delle attività produttive che avrebbe devastanti effetti duraturi, può alla lunga risultare inefficace e perfino controproducente se non accompagnato da politiche esplicitamente dirette a riequilibrare i sistemi economici e l’economia mondiale e perciò a cambiare il modello di sviluppo.
Altra tendenza in atto è il formidabile aumento dell’indebitamento pubblico. Sempre secondo il Fmi (The state of public finance cross-country Fiscal monitor Nov. 2009) il rapporto fra debito pubblico e prodotto lordo nei paesi avanzati del gruppo dei G20, che rappresentano buona parte dell’economia mondiale, salirà da una media del 79% del 2007, che era già un record storico in tempo di pace, al 120% del 2014. Questo rapido aumento del debito pubblico non è certo frutto di fallimenti degli Stati, al contrario è il frutto di fallimenti dei mercati che si scaricano sui bilanci pubblici. La situazione peggiora se, come analizzato in una recente ricerca di S. Cecchetti, M. Mohanthy, e F. Zampolli (The future of pubblic debt) si calcolano anche le obbligazioni che gli Stati hanno assunto in tema di pensioni in scenari caratterizzati dall’invecchiamento della popolazione. In questa prospettiva la situazione dell’Italia, benché resti peggiore alla media, risulta relativamente meno pesante in seguito alla riforma del sistema pensionistico già realizzata.
Vale la pena di notare che la situazione di alcuni fra i più importanti paesi emergenti, Cina in testa è nettamente diversa. Essi hanno bilanci pubblici ancora sani ed un eccesso di risparmio nazionale. Ciò rappresenta un altro cambiamento strutturale ed è una delle ragioni che fanno prevedere che nel corso della crisi i rapporti di forza muteranno ancora a favore di importanti paesi emergenti. Per quanto riguarda l’Asia si può aggiungere che la crisi sta dando un ulteriore formidabile impulso al processo di integrazione economica dei paesi dell’area e soprattutto con la Cina. L’Asia è forse già oggi economicamente più integrata dell’Europa e questo aumenta la competitività dell’area e la sua autonomia. Disgraziatamente fra i paesi emergenti scarsamente indebitati non rientrano quelli dell’est europeo, in genere pesantemente indebitati.
Anche questa tendenza pone un problema politico di primaria importanza. Già oggi assistiamo al paradosso che i sostenitori del vecchio modello di sviluppo, basato sulla centralità dei mercati e la riduzione del ruolo pubblico, dopo che i fallimenti dei mercati hanno provocato la crisi e la susseguente assunzione nei bilanci pubblici dell’enorme costo degli interventi per contrastare la crisi, usano proprio la crescita dell’indebitamento pubblico per ribadire e rafforzare la richiesta di una riduzione del ruolo pubblico e soprattutto della spesa sociale.
Il modello distributivo, perciò, dovrebbe diventare un punto centrale nel confronto fra destra e sinistra. Nel sostenere che dipenderà dalle scelte politiche chi sopporterà il costo della crisi, il Financial Times (6.10/09) sostiene che se la scelta sarà “…l’austerità allora pagheranno i contribuenti e coloro che confidano nella spesa pubblica ( ma si potrebbe aggiungere i giovani ed i lavoratori ndr ); se sarà l’inflazione, i risparmiatori; se… i default i creditori che hanno avuto fiducia”. E non si tratta solo del costo della crisi: dal modo come il reddito e la ricchezza sarà distribuita tra capitale e lavoro, tra pubblico e privato dipende quale sarà l’allocazione delle risorse e quindi la qualità e la sostenibilità dello sviluppo.
E si tratta anche della distribuzione delle risorse fra generazioni: l’accumularsi di un enorme debito pubblico colpisce le giovani e future generazioni che non solo dovranno pagare quel debito, ma avranno minori possibilità di occupazione in quanto l’eccesso di indebitamento getta un’ombra lunga sulle future possibilità di sviluppo. Una recente ricerca condotta entro il gruppo Axa dal capo economista E. Chaney e A. Olmedo per valutare le possibili strategie di una grande compagnia di assicurazione in caso di inflazione, “Les assurance doivent-ils craindre un retour de l’inflation?”, dopo avere ricordato che lo Stato francese all’uscita delle due guerre mondiali aveva accumulato nel 1945 un debito pari al 205% del Pil e che tale livello fu ridotto già nel 1950 al 25% soprattutto grazie all’inflazione, nota che ciò è avvenuto “…ledendo i risparmiatori a vantaggio delle generazioni che ricostruirono il paese. Un fenomeno simile si produsse in Inghilterra, dove il debito pubblico aveva raggiunto il 275% del Pil nel 1946”.
L’opzione inflazione non può essere a priori esclusa tra gli strumenti di una responsabile politica distributiva e di una politica di sviluppo, si tratterebbe allora non di ridurre ulteriormente la domanda riducendo il valore reale della retribuzioni e delle pensioni, che andrebbero invece adeguatamente protette, ma di svalutare il debito per dare allo Stato ed alle imprese maggiore spazio per scelte rivolte a rinnovare il tipo di sviluppo. E significativo che in un paper scritto da O. Blanchard, attuale direttore del dipartimento ricerche del Fondo Monetario Internazionale, insieme a G. Dell’Ariccia e P. Mauro, che tenta di fondare un nuovo approccio per la politica macroeconomica (Rethinking macroeconomic policy ) a partire dalla critica dell’approccio finora dominante nel quadro del pensiero unico e patrocinato a suo tempo anche dal Fondo una proposta è di elevare il livello accettabile di inflazione per dare maggiore spazio di manovra alla politica macroeconomica. La realizzabilità di una tale ipotesi, tuttavia, è molto difficile nel contesto della moneta unica, soprattutto per l’atteggiamento storico dei tedeschi, ma le vicende della crisi potrebbero essere ancora lunghe e non sappiamo quali mutamenti politici sono ancora possibili.
Più in generale è decisivo chiedersi quali dovranno essere gli elementi trainanti dello sviluppo nel nuovo ciclo che pensiamo debba segnare l’uscita dalla crisi nella consapevolezza che il modo più efficace per rispondere ai grandi problemi derivanti dell’eccesso di indebitamento e dai formidabili mutamenti demografici è di avere un robusto tasso di crescita e, soprattutto, un miglioramento dell’efficienza e delle performance del sistema paese. Per un paese come il nostro e per i paesi europei in generale si tratta di sapere se pensiamo ad un nuovo ciclo trainato ancora dalla crescita dei consumi privati, che in Italia sono già relativamente alti, anche se andrebbero in parte redistribuiti perché molti non ne hanno ancora a sufficienza, o ad un tipo di sviluppo diverso, caratterizzato da una sostenuta crescita della domanda interna determinata da un robusto flusso di investimenti diretto da una parte a fare compiere all’apparato produttivo un salto di qualità, orientandolo anche verso la green economy, al fine di consentirgli di riposizionarsi adeguatamente in un mercato mondiale in profondo cambiamento e di affrontare anche con forti aumenti di produttività il problema del debito e dall’altra dall’impegno a potenziare beni pubblici quali, la messa in sicurezza e la valorizzazione del territorio, il complesso delle infrastrutture, l’istruzione, la sanità, la ricerca, la giustizia e l’ordine pubblico.
Se, come appare sensato, la scelta dovesse essere la seconda si tratterebbe di vedere come uno sviluppo trainato da beni pubblici possa essere finanziato in una situazione di bilancio pubblico così deteriorata. Questo probabilmente sarà il principale problema della politica economica nei prossimi anni. A tale problema una risposta non potrà essere data senza inventare nuove forme di collaborazione fra privato e pubblico, sia per quanto comporta la messa in campo di nuovo modelli di finanziamento degli investimenti, sia per quanto riguarda l’esplicazione di vecchie e nuove forme di welfare. Si tratta certo di ampliare gli spazi di applicazione dei capitali privati, ma, tenuto conto che la crisi attuale ed il conseguente drammatico peggioramento dei bilanci pubblici sono la conseguenza di fallimenti dei mercati, è necessario inventare meccanismi che, mentre aprano spazi ai capitali privati, rafforzino la capacità di controllo e di direzione strategica da parte del pubblico. La riforma dell’Amministrazione diventa di fondamentale importanza per dare alle funzioni pubbliche la necessaria qualità ed efficienza e per dare allo Stato in tutte le sue articolazioni una capacità di direzione strategica.
Crisi finanziaria e squilibri
Dallo scoppio della crisi fra i paesi avanzati due, Usa e Giappone, hanno chiaramente affermato la volontà di superare gli squilibri modificando il modello di sviluppo. Tale scelta è coincisa con due nette svolte politiche a sinistra quella che ha riportato al potere i democratici negli Usa, per la prima volta con un presidente nero, l’altra che realizza un’alternanza al governo per la prima volta in Giappone. In questi due casi si tratterà di vedere quale sarà l’effettiva capacità di realizzare il rinnovamento scelto dagli elettori, dovendo Obama fare i conti con la potenza di un sistema lobbistico deciso a contrastarlo ad ogni costo e dovendo il partito democratico giapponese fare i conti con la propria inesperienza e con la necessità di destrutturate un blocco di potere che per oltre cinquanta anni ha cementato l’industria, la finanza ed il partito al governo.
In Europa le cose vanno diversamente. La Germania, come è noto, continua a difendere il suo modello trainato dalle esportazioni ed a ritenere che la crisi si affronti sostanzialmente ri-regolando la finanza. Ma non si tratta solo della Germania: in Inghilterra l’affermazione di Lord Turner, capo dell’Autorità di controllo della finanza, sulla necessità di ridurre il grado di finanziarizzazione del sistema economico inglese, che è stata la caratteristica dominante del modello di sviluppo britannico negli ultimi trenta anni, ha provocato una quasi unanime reazione di rigetto. In altri paesi, come l’Italia, c’è il grande nulla.
L’argomento principale usato dei tedeschi per motivare la loro indisponibilità a una politica di correzione degli squilibri è che tale problema non riguarderebbe l’area euro poiché la posizione commerciale di essa è sostanzialmente in pareggio con il resto del mondo. Il che è vero. Disgraziatamente una bilancia dei pagamenti europea non esiste: essa è solo un artificio contabile. Le bilance dei pagamenti sono nazionali e ciascun paese risponde della sua. Il presunto equilibrio commerciale dell’Europa risulta dalla somma algebrica degli attivi strutturali di paesi come la Germania e l’Olanda, che non hanno da invidiare quello della Cina, e dai passivi strutturali terrificanti di paesi come Spagna, Grecia, Portogallo, Irlanda. Insomma i famosi squilibri dell’economia mondiale esistono anche dentro l’area euro.
Il risultato di tutto ciò è che quello che è stato considerato il principale vantaggio che i paesi deboli abbiano tratto dall’ingresso nell’euro, l’allineamento dei loro tassi di interesse a quello della Germania, si sta rivelando illusorio giacchè i mercati finalmente stanno realizzando che il fatto che alcuni paesi usano la stessa moneta non vuol dire che essi comportino gli stessi rischi. I tassi di interesse si stanno infatti pesantemente diversificando.
Sapevamo tutti che, date le grandi differenze esistenti fra i diversi paesi, quella dell’euro non era un’area monetaria ottimale. E sostenevamo perciò che all’unificazione monetaria dovesse seguire anche l’unificazione a livello europeo di importanti aspetti della politica economica allo scopo di riequilibrare lo sviluppo dell’area. Questo era anche lo spirito del trattato di Maastricht. Ciò non è avvenuto ed ora i nodi arrivano al pettine: questa crisi è il primo vero test sulla tenuta della moneta unica e il rischio di default di alcuni paesi viene ora esplicitamente valutato dai mercati. Che quella euro non è un’area monetaria ottimale vuol dire anche che il tasso di cambio tende ad assestarsi ad un livello che risulta troppo alto per i paesi deboli, minandone la competitività, e basso per i paesi forti che ricevono così un vantaggio competitivo: anche questo spiega le straordinarie performance nel commercio estero di Germania ed Olanda nella fase di funzionamento dell’euro. In tale situazione l’aumento della divergenze è inevitabile. Tale situazione sta peggiorando in un contesto nel quale non solo la Cina, ma anche altri paesi, manovrano i cambi per guadagnare competitività.
Di fronte al rischio di default della Grecia alcuni paesi, Inghilterra in testa, ma pare che in questo gruppo ci sia anche il governo italiano, sostengano che sia il Fondo Monetario Internazionale ad occuparsene. Ciò significherebbe ammettere esplicitamente che l’Unione monetaria è per i paesi aderenti fonte di vincoli senza che essi possano ricevere alcuna protezione in caso di difficoltà.
La proposta di costituire un Fondo Monetario Europeo è comparsa e scomparsa come una meteora dileguata dalla osservazione della Merkel che la sua realizzazione avrebbe comportato il cambiamento del trattato di Maastricht da realizzare con l’unanimità dei 27 componenti l’Unione.
Resta tuttavia interessante valutare le motivazioni apportate dai tedeschi per la costituzione del Fondo e il meccanismo proposto come risulta da un intervento del ministro dell’economia, W. Schauble sul Financial Times del 12.3.10, che riecheggia anche ipotesi avanzate in una recente pubblicazione del Ceps a cura di D Gross e T. Mayer “ How to deal with sovereign default in Europe: towards a Euro(pean) Monetary Fund”. Senza entrare nel dettaglio della proposta si può concordare con quanti hanno notato che essa sembra diretta più che ad aiutare i paesi in difficoltà a restare nell’euro ad aiutarli a uscirne. Tale interpretazione sembra convalidata dalla successiva dichiarazione della Merkel rivolta a riconoscere esplicitamente la possibilità di uscita dall’area monetaria. In tal caso la domanda che viene naturale è: a quanti paesi, oltre la Grecia, si dovrebbe applicare l’ipotesi dell’uscita? E viene in mente che all’origine, ai tempi di Kohl, la Germania pensava a un’area monetaria costituita da un “ nocciolo duro” di sei paesi con caratteristiche confrontabili con la Germania, tra i quali, tra l’altro, non c’era l’Italia, né altri paesi del sud dell’Europa. Nell’articolo citato Schauble sembra ritenere che la mancanza di un’effettiva sorveglianza sui bilanci pubblici sia la causa principale della crisi per cui “ vi è solo una strada da seguire: i membri dell’eurozona devono ritornare all’aderenza al patto di stabilità il più rapidamente possibile”. Questa interpretazione travisa la realtà dando al caso greco un valore paradigmatico che non ha. Basta guardarsi intorno per vedere che paesi europei in grave crisi e già sotto l’attacco dei mercati, quali la Spagna, l’Inghilterra, l’Irlanda,il Portogallo avevano livelli di indebitamento pubblico nettamente più bassi della media; la Spagna nel 2007 aveva addirittura il bilancio in attivo. I due paesi che sono l’epicentro della crisi, Usa e UK, entrambi avevano indebitamento pubblico inferiore alla media dei paesi avanzati. All’origine di questa crisi mondiale non vi è stato il debito pubblico, la cui esplosione è una conseguenza della crisi, ma un eccesso di indebitamento privato e squilibri strutturali delle bilance dei pagamenti. Il che ci riporta al tema degli squilibri.
E bene ricordare che nel creare il Fondo Monetario gli accordi di Bretton Woods gli affidarono due funzioni e di esse l’intervento a sostegno dei paesi in difficoltà non era la più importante. Più importante era l’intervento per evitare il persistere di squilibri strutturali delle bilance dei pagamenti che, come l’esperienza mostrava, erano fonte di conflitti e di crisi. Questa seconda funzione si è nel tempo indebolita fino a scomparire, nella misura in cui gli Usa diventavano la fonte principale degli squilibri. Rilanciare questa funzione per realizzare un effettivo coordinamento delle politiche dei diversi paesi in un mondo globalizzato e multipolare dovrebbe essere il focus di una riforma del Fondo. Stesso discorso vale per l’Europa. Al punto in cui siamo i salvataggi sono necessari, ma è necessario anche realizzare un coordinamento delle politiche economiche al fine di ridurre gli squilibri, anche perché il semplice funzionamento dell’Unione monetaria opera nel senso di aumentare le divergenze.
All’attuale situazione si possono dunque dare due risposte; quella patrocinata dalla Germania è di indurre semplicemente i paesi deboli a terrificanti politiche di austerità protratte nel tempo. Questa è la strada seguita tradizionalmente dal Fondo Monetario, visto che gli Usa avevano respinto la proposta di Keynes di intervenire soprattutto sui paesi in attivo di bilancia dei pagamenti inducendoli ad aumentare la domanda interna. E lecito avere dei dubbi sulla sostenibilità politica di tale scelta, che, tra l’altro, avrebbe anche il difetto di contribuire ad abbassare il livello della domanda nell’area euro, tanto più che essa riguarda anche Spagna, Portogallo, Irlanda, Italia, Inghilterra. L’altra strada sarebbe quella di indurre anche i paesi in attivo di bilancia dei pagamenti ad elevare il livello della domanda interna europea.
Questo può essere fatto aumentando le retribuzioni per aumentare il livello dei consumi,come propone soprattutto la stampa anglosassone, ma può essere fatto anche utilizzando l’eccesso di risparmio che i paesi in attivo inevitabilmente hanno per alimentare politiche di investimento a scala europea, finanziandoli non solo attraverso indebitamento del bilancio dell’Unione, ma anche attraverso la costituzione di appositi fondi di capitali privati. Si tratterebbe di rielaborare ed arricchire un indirizzo già previsto dal “ Libro bianco “ di Delors rimasto purtroppo inattuato. Oggi è lecito chiedersi quale sarebbe la situazione dell’Unione se nella direzione prima indicata fossero stata indirizzata quella consistente parte del risparmio europeo che si è invece diretto all’acquisto massiccio di titoli tossici statunitensi.
Se nessuna delle due strade fosse intrapresa o avesse successo la tenuta dell’euro diventerebbe un problema concreto. Sarebbe ottimistico ritenere che la moneta unica, nella sua attuale conformazione, rappresenti una realtà irreversibile. Ma si può sperare che sia l’urto della crisi a spingere gli europei a fare compiere all’Unione uno scatto in avanti nel rafforzamento dell’unione politica. Il confronto sulle due linee è diventato esplicito anche all’interno dell’Unione Europea dopo l’intervento di C. Lagrange in polemica con la posizione tedesca.
Sarebbe importante che il Consiglio Europeo regolato secondo il trattato di Lisbona assumesse la riduzione degli squilibri come obbiettivo dell’Unione e che i paesi dell’area euro definissero esplicitamente le regole per gestire la crisi di paesi aderenti e di eventuali salvataggi anche allo scopo di ridurre lo spazio per manovre speculative. Più in generale sarebbe importante che l’UE stabilisca un tasso di crescita nominale del Pil e dell’occupazione per i prossimi cinque anni e verso di essi orientasse le politiche dei singoli paesi e quelle dell’Unione.
Politiche di stabilità e politica monetaria
C’è un aspetto del problema che rischia di restare in ombra: il ruolo sempre più importante che sistemi e mercati finanziari sono andati assumendo ed il loro conseguente ruolo nella crisi.
Possiamo partire da due paradossi dei quali nessuno parla. L’attuale crisi bancaria, la più grande dagli anni ’30, non è un fenomeno isolato. L’intero trentennio neo-liberista è stato segnato da una successione di grandi crisi e grandi salvataggi pubblici di banche: crisi e salvataggio del sistema della Casse di risparmio statunitensi, crisi e salvataggio di tutti i sistemi bancari scandinavi, Credit Lyonnese, due massicci interventi di salvataggio del sistema bancario giapponese, per non parlare degli innumerevoli salvataggi in Asia ed America Latina in occasione delle crisi finanziarie ivi esplose nella seconda metà degli anni ’90. Ed ora il salvataggio totale.
Neanche la sinistra ha voluto comprendere in tempo reale il paradosso per cui, mentre imperava la regola d’oro del pensiero unico per la quale i salvataggi pubblici erano banditi, si realizzavano i più grandi salvataggi di banche della storia del capitalismo. E non si tratta di un fenomeno recente: le crisi finanziarie erano frequenti anche nell’Ottocento, cioè nella fase di accelerazione del processo di globalizzazione guidato dai mercati che a preceduto quella in corso. E per oltre un secolo si sono rafforzati ed estesi a livello mondiale i meccanismi di assicurazione pubblica dei rischi delle banche. La particolarità degli ultimi trenta anni è stata che, mentre più forti ed estese diventavano le garanzie statali sui rischi della finanza, l’attività delle banche è diventata incredibilmente più rischiosa.
In un saggio d P. Alessandri e A.G. Haldano, ricercatori delle Bank of England, “ Banking on the State”, che esamina l’evoluzione del rapporto fra banche e Stato per oltre un secolo, si mette in evidenza, tra l’altro, che il rapporto fra il totale degli asset delle banche inglesi e prodotto nazionale a partire dal 1880 “…fu piatto per quasi un secolo intorno al 50%...Ma dall’inizio degli anni ’70 questa situazione è cambiata drammaticamente. All’inizio di questo secolo, il bilancio delle banche era pari a oltre cinque volte il prodotto lordo dell’Inghilterra”. Il capitale proprio delle banche non si è rafforzato in corrispondenza sicchè il ratio di capitale delle banche inglesi, che nel 1880 era mediamente di circa il 24% ed erano ancora di circa il 15% nel 1929 si aggiravano all’inizio di questo decennio intorno al 5%
I rischi scaricati sulle spalle della collettività sono enormi e questo è avvenuto mentre le banche sempre più rivendicavano la propria natura di imprese private. Di conseguenza, secondo il saggio citato, a livello mondiale l’ammontare dei vari interventi di salvataggio è stato nella crisi in corso finora di 15 trilioni di dollari, pari a circa il 25% dell’intero prodotto lordo mondiale. L’altra faccia della medaglia è rappresentata dallo straordinario aumento del rendimento del capitale proprio delle banche inglesi; esso si aggirava in passato intorno al 10%, simile a quello delle altre imprese, e si è portato in questo decennio intorno al 30%. Le banche Usa hanno seguito la stessa traiettoria.
Vale la pena di ricordare che queste evoluzioni della finanza sono avvenute nel contesto di modelli di sviluppo trainati dall’indebitamento delle famiglie che hanno caratterizzato soprattutto i paesi anglosassoni e che, per dirla con The Economist (l 6/12/08), “ Attraverso i loro sistemi finanziari sempre più sofisticati, gli americani ed i britannici sono stati in grado di indebitarsi con i parsimoniosi asiatici per finanziare le loro spese crescenti”. In effetti la quasi totalità delle famose “ innovazioni” della finanza è stata realizzata da banche anglosassoni.
Altro paradosso riguarda le Banche centrali la cui autonomia e il cui potere sono aumentati dappertutto nell’ultimo trentennio. Ormai è evidente che esse sono tra i principali responsabili di questa crisi finanziaria e di tutte quelle che si sono susseguite a partire dal 1987. Il compito principale delle Banche centrali è di assicurare stabilità ai sistemi finanziari e, per quanto riguarda l’Europa, la Bce è stata anche custode del patto di stabilità. Ma il patto non ha funzionato: l’instabilità non è mai stata così evidente e le crisi bancarie così clamorose.
Al di là dei fallimenti nell’attività di controllo, ormai generalmente riconosciuti, le Banche centrali non hanno voluto riconoscere che la forma principale dell’instabilità, a partire dalla fine degli anni ’80, non era più l’eccesso di inflazione o di deficit pubblici, per evitare i quali erano state pensate le politiche di stabilità, compreso il patto europeo, ma da un eccesso di indebitamento privato e di finanza e dalla conseguente formazione ed esplosione di bolle speculative mobiliari ed immobiliari. Perciò esse si sono rifiutate di riconoscere che la stessa politiche monetaria può essere fattore destabilizzante se, mentre guarda all’inflazione dei beni di uso corrente, non si dà carico dell’inflazione degli asset patrimoniali, anzi, in pratica lo alimenta, e mentre guarda al livello dell’indebitamento pubblico non di preoccupa del livello dell’indebitamento privato, né di quello complessivo di ciascun paese.
Ora, mentre le responsabilità delle Banche centrali nell’origine della crisi vengono generalmente riconosciute, il loro potere sta, paradossalmente, ulteriormente aumentando: esse sono state direttamente coinvolte in salvataggi di banche e di assicurazioni, inondano di liquidità quasi gratuita le banche accettando ogni tipo di collaterale e consentono loro di acquistare buona parte dei titoli pubblici emessi per finanziare i crescenti deficit. Il bilancio della Federal Reserve è triplicato nel corso della crisi. E sono soprattutto i banchieri centrali che ora ci stanno spiegando come andrebbe ri-regolata la finanza.Una domanda si impone: cosa ha reso possibile un mutamento così straordinariamente favorevole alle banche ed alla finanza in genere di quello che la ricerca citata chiama “ contratto sociale fra banche e Stato” e cosa ha reso possibile lo straordinario potere delle Banche centrali?
L’ascesa della finanza non è avvenuta perché essa sarebbe in grado, come il famoso barone, di sollevarsitirandosi per i capelli. Se vince l’idea che i mercati siano sostanzialmente razionali, che siano in grado di allocare al meglio le risorse, distribuire al meglio il reddito e la proprietà delle imprese è naturale che il ruolo della finanza, che è il principale motore allocativo dei mercati, venga esaltato. Anche il compito di preservare la stabilità del sistema economico, che nella fase “ statalista” spettava allo Stato è stato trasferito alle banche, che si danno carico delle eventuali perdite delle altre imprese, mentre lo Stato ha conservato il compito di garante di ultima istanza che interviene per salvare le banche se esse soccombono rispetto quell’impegno. I fatti mostrano, tuttavia, che, data la loro natura di imprese private, tendenti, secondo la visione dominante, a realizzare la massima valorizzazione del capitale degli azionisti, le banche possono diventare esse stesse fonte di grande instabilità.
Altra convinzione dominante è che affinchè tutto funzioni per il meglio è sufficiente che un’accorta politica monetaria tenga di volta in volta la domanda ad un livello adeguato, così la politica monetaria, orientata soprattutto al controllo dell’inflazione, diventa quasi l’unico strumento della politica macroeconomica. Che così stessero le cose è riconosciuto anche dal citato paper coordinato da O. Blanchard. Se, di fatto, la sola politica monetaria è chiamata a sostenere il livello della domanda, anche stimolando l’indebitamento privato, ed a rispondere alle crisi finanziarie, nessuna meraviglia che si assista a periodi prolungati di politiche monetarie espansive. Anche ora si sta rispondendo con politiche monetarie straordinariamente espansive ad una crisi che origina anche da politiche monetarie prolungatamente espansive. Così la politica monetaria diventa fattore di destabilizzazione e il ruolo delle Banche centrali si rovescia nel suo contrario.
Una ricerca coordinata dal Prof G. Nardozzi nell’ambito della Fondazione G. Carli, “ I rapporti fra finanza e distribuzione del reddito:un’interpretazione di fine secolo”, aveva messo in evidenza, esaminando il caso statunitense, che la politica monetaria e la sua interazione con i mercati finanziari aveva un ruolo centrale nel determinare la distribuzione del reddito e il ritmo della crescita economica, tale valutazione poteva autorizzare la conclusione che “…la distribuzione del reddito ha sempre una determinante istituzionale, cioè politica, che è costituita o da politiche dei redditi, vale a dire da un accordo distributivo fra governo e parti sociali, o dalla politica monetaria” (Silvano Andriani: “ L’ascesa della finanza” – Donzelli editore).
Le banche centrali sono dunque il deus ex machina di tale sistema, ma il loro ruolo non è neutrale in quanto loro compito è innanzitutto di proteggere il denaro e il risparmio: i loro interventi tendono a essere asimmetrici tendono, per esempio, a evocare subito il pericolo di un aumento del costo del lavoro ed a non accorgersi dell’aumento inflazionato dei prezzi degli asset che rappresentano il capitale.
Superare tutto questo implica un radicale cambiamento dell’approccio. L’attività distributiva e allocativa realizzata dalla politica monetaria e creditizia andrebbe collocata nel quadro di un modello distributivo definito complessivamente a livello politico e di politiche a livello sovranazionale rivolte a riequilibrare i sistemi economici e a ricollocare ciascun paese in un contesto mondiale destinato a cambiare profondamente.
Regolazione della domanda e programmazione
Bisognerebbe allora, innanzitutto, evitare di confondere Keynes con Laffer. Il deficit spending è stato pensato come un intervento episodico e il maggiore indebitamento pubblico che esso provoca dovrebbe essere recuperato, una volta che l’economia riparta, con politiche fiscali rigorose. Tutt’altra cosa è teorizzare che riducendo le aliquote fiscali, la progressività delle imposte e la pressione fiscale in modo strutturale si migliori l’andamento dell’economia e del bilancio pubblico, tesi che i fatti hanno smentito ripetutamente. Gli interventi in deficit spending realizzati da Reagan e, soprattutto, da Bush Jr per contrastare la recessione si sono sposati a questa filosofia ed hanno prodotto danni permanenti al bilancio pubblico.
Più in generale vi è una pericolosa tendenza a ridurre il keynesismo al deficit spending, o, più precisamente, a ridurre il riformismo al keynesismo e questi al deficit spending. Il corpo di dottrine e di policy prodotto dal pensiero riformista in risposta alla crisi degli anni ’30 nacque dall’incontro di due grandi scuole, l’una di orientamento socialdemocratico, basata prevalentemente in Scandinavia, il cui leader era Gunnar Myrdal e l’altra liberaldemocratica che faceva capo a Keynes, certo più nota, ma è bene ricordare che quando il “ Piano Beveridge”, che viene in genere considerato il manifesto del “ welfare state”, fu elaborato in Inghilterra i governi socialdemocratici scandinavi stavano realizzando lo Stato sociale già da dieci anni.
Entrambe quelle scuole, che furono favorevoli a bilanciare con l’aumento del deficit pubblico la caduta della domanda privata che la crisi provocava, si posero il problema di come governare in modo sistematico la domanda, nel suo livello e nella sua composizione. La risposta fu la programmazione e la “ politica dei redditi” che ne costituiva il nocciolo. Politica dei redditi, in senso lato, significa un modello distributivo definito a livello politico e non dal mercato. Il modello distributivo di tipo socialdemocratico non solo produsse una sostanziale riduzione delle disuguaglianze, ma rese estremamente funzionale la distribuzione del reddito alle esigenze di stabilità e di sviluppo. In quel trentennio non vi furono crisi finanziarie e il livello di indebitamento complessivo rimase costante nonostante la forte crescita economica. D’altro canto la crescita sistematica delle retribuzioni reali, collegata a livello nazionale a quella della produttività, consentì l’accesso a nuovi consumi per la generalità dei cittadini e lo sviluppo della meccanizzazione e della produzione in serie, mentre la crescita della quota di reddito nazionale assegnata al bilancio pubblico consentiva la realizzazione dei servizi sociali. L’introduzione dei sistemi pensionistici a ripartizione aggiungeva stabilità nel tempo al livello della domanda.
Oggi si tratta di definire un modello distributivo in grado di realizzare gli stessi obiettivi di giustizia sociale, di stabilità e di funzionalità rispetto alle attuali esigenze di sviluppo, nella consapevolezza, tuttavia, che essi vadano conseguiti in un contesto sostanzialmente diverso rispetto a quello di allora, sia per il livello di globalizzazione conseguito, sia per i profondi mutamenti demografici e culturali. La distribuzione del reddito in un paese si basa sostanzialmente su tre pilastri: sistemi contrattuali, sistema fiscale e sistema previdenziale. La ratio di tali sistemi andrebbe riesaminata tenendo conto delle nuove realtà e dei nuovi bisogni e anche del tipo di sviluppo che si intende promuovere.
Il collegamento delle retribuzioni alla crescita deve essere stabilito in un contesto di globalizzazione e in presenza di modi di produzione che rendono sempre meno efficace il semplice riferimento alla produttività, parametro meramente quantitativo, tipico del modello fordista che poteva essere calcolato e applicato anche a livello nazionale. Andrebbe riferito a più complesse modalità di misurazione delle performance. La performance dell’impresa, tuttavia, può essere definita solo con riferimento a una determinata visione del suo ruolo. Se la visione resta quella dominante, la “ shareholder value”, per la quale unico obiettivo dell’impresa è valorizzare il capitale, cioè fare profitti, e i manager sono considerati gli agenti del capitale finanziario, i sistemi di incentivazione saranno determinati di conseguenza.
Se si afferma invece una visione stakeholder, per la quale l’impresa deve corrispondere all’interesse dei diversi soggetti che a essa fanno capo e ruolo del management è di elaborare strategie di sviluppo di lungo periodo che comportino una valorizzazione non solo del capitale, ma di tutti gli asset presenti nell’impresa, e ne definiscano la responsabilità sociale, la performance va definita diversamente e i parametri che la misurano e i meccanismi di incentivazione scelti di conseguenza. Un tale approccio comporta che nella valutazione del lavoro perda peso la sua componente astratta, che lo assimila a una merce, e aumenti quella concreta, che è determinata dall’ inserimento nello specifico modo di produrre di una determinata impresa o sistema di imprese e dai processi di apprendimento che esso comporta. Perciò la valutazione della qualità dei modelli organizzativi adottati, dai quali dipende la valorizzazione del lavoro, diventa determinante. Tutto ciò dovrebbe comportare un ripensamento del ruolo dei sistemi contrattuali e dell’organizzazione del mercato del lavoro.
Il livello di progressività del sistema fiscale andrebbe recuperato anche per ridurre le disuguaglianze e per contribuire a rendere la distribuzione del reddito funzionale al finanziamento di un nuovo modello di sviluppo che richiede, tra l’altro un aumento del tasso di risparmio delle famiglie. Perciò sarebbe necessario ridurre la pressione sul lavoro e le attività produttive. Realizzare finalmente il principio della parità di trattamento fiscale per ogni tipo di reddito consentirebbe di realizzare una maggiore giustizia fiscale, aumentare la progressività del sistema, in quanto includerebbe nel principio di progressività dei redditi che ne sono esclusi e che sono particolarmente concentrati nelle categorie più abbienti e contribuirebbe a finanziare la riduzione della pressione sulla produzione. La tassazione del patrimonio nelle varie forme andrebbe nella stessa direzione e dovrebbe anche evitare un’eccessiva concentrazione della ricchezza che ha, fra l’altro, l’evidente effetto di distorcere il funzionamento dei mercati.
Per quanto riguarda i sistemi previdenziali, andrebbero resi chiari la distinzione e il ruolo rispettivo della componente assicurativa da quella redistributiva di tipo politico. Entrambi i meccanismi corrispondono a criteri di solidarietà, ma le finalità sono diverse. La distinzione fra le due componenti non coincide necessariamente con la distinzione pubblico/privato, ma i meccanismi di finanziamento sono diversi. Andrebbe chiarito anche quando e per quali motivi coperture assicurative vengono rese obbligatorie.
Una particolare attenzione merita il tema della stabilità e quello della regolazione della finanza. Le politiche di stabilità seguite dal Fondo Monetario Internazionale e assunte nel patto di stabilità europeo derivano dalla risposta data all’instabilità generata dalla crisi degli anni ’70. Essa ebbe origine da un conflitto distributivo che opponeva i paesi produttori a quelli consumatori di materie prime e, in molti casi, il lavoro al capitale e si manifestava attraverso una forte inflazione e una forte crescita dei deficit pubblici. Le politiche di stabilità furono così dirette a contenere l’inflazione e a ridurre i deficit pubblici ed ebbero generalmente successo.
Da oltre venti anni, tuttavia l’instabilità ha avuto un’altra origine e un’altra fenomenologia. Si è manifestata principalmente attraverso formazione di bolle speculative mobiliari e immobiliari, cioè inflazione da asset e conseguenti crisi finanziarie. Questi fenomeni, come si è già notato, non sono alimentati da eccessi di indebitamento pubblico, ma da eccessi di indebitamento privato e da un eccesso di finanza: le ricerche svolte da Bis hanno mostrato una fortissima correlazione fra livello di indebitamento privato e rischio di bolle speculative. Il risultato è che il Patto di stabilità non ha dato garantito la stabilità. Perciò la ratio delle politiche di stabilizzazione andrebbe cambiata: per valutare il concorso di un paese alla stabilità o alla instabilità dell’economia mondiale il riferimento dovrebbe essere non solo l’inflazione dei beni di uso corrente, ma anche quella degli asset; e non solo il livello di indebitamento pubblico, ma il complessivo indebitamento risultante dalla somma del debito pubblico con quello delle famiglie e delle imprese e la conseguente esposizione debitoria sull’estero. La politica monetaria andrebbe orientata di conseguenza anche a impedire il formarsi di eccessi di indebitamento privato. Naturalmente ciò andrebbe fatto all’interno di un modello distributivo che nel suo complesso dia la risposta al problema del livello e della composizione della domanda.
Il ruolo della finanza
Per quanto riguarda la finanza, alla base dovrebbe essere la constatazione del progressivo suo distacco dall’economia reale realizzatosi negli ultimi due decenni. Ad essa si dovrebbe aggiungere che le politiche di quantitative easing ( QE ) messe in atto dalle Banche Centrali in risposta alla crisi con enorme immissione di liquidità, se hanno certamente evitato il fallimento di qualche grande banca d’affari e contribuito ad elevare i prezzi degli asset, migliorando così la situazione di portafogli delle istituzioni finanziarie, non hanno sostanzialmente aumentato il flusso di finanza verso l’economia reale ribadendo così il distacco tra andamento della finanza e quello dell’economia reale. Il tema è dunque come ridurre tale distacco per agevolare la ripresa economica e corrispondere alle esigenze di un nuovo modello di sviluppo caratterizzato da un maggiore tasso di risparmio e da un formidabile flusso di investimenti necessario a migliorare qualità ed efficienza del sistema produttivo ed a potenziare i beni pubblici.
Nel dibattito in corso si intravede qualche tentativo di risposta. Particolarmente interessante quella elaborata da CentreForum, “Credit where is due”, relativo al caso inglese. Il punto di partenza è proprio nella constatazione dell’incapacità dell’attuale QE di alimentare l’economia reale. La proposta è di passare da una semplice fase di quantitative easing ad una di credit easing destinando parte dei fondi erogati dalla Banca Centrale ad un fondo pubblico “ Credit Easing Fund”. Da questo Fondo la nuova liquidità dovrebbe essere diramata per sostenere il mercato dei mutui, per finanziare programmi pubblici di sostegno alle piccole imprese, sia attraverso finanziamenti sia con partecipazione al capitale di rischio, per finanziare fondi private equity esistenti, per creare una pubblica National Infrastructural Bank. La proposta del CentreForum è facilitata dal fatto che l’Inghilterra dispone di una propria Banca Centrale e di una propria politica monetaria. Non è detto tuttavia che una proposta di utilizzare per l’economia reale parte della liquidità immessa dalla Bce non sia praticabile. Anzi proprio la destinazione diretta all’economia reale potrebbe essere il motivo per fare durare più a lungo politiche di quantitative easing.
A livello europeo vi sono i fondi di investimento creati per energia e trasporti e il Fondo Inframed per investimenti nell’area del Mediterraneo. Anche nel Parlamento statunitense si discute di una banca per le infrastrutture. Il governo francese ha lanciato un bond diretto a finanziare interventi di vario genere, ma tutti orientati a migliorare la qualità del sistema economico. Nel caso italiano si sta dando vita a un Fondo per le piccole imprese avviato dalla Cassa Depositi e Prestiti e da alcune grandi banche ed aperta ad altri ingressi per assumere partecipazioni in imprese private o finanziare fondi di private equity esistenti.
Si tratta di primi deboli passi verso nuove forme di fare finanza che andrebbero potenziate al massimo. Esse consentirebbero di indirizzare i flussi di investimento convogliando il maggiore risparmio che dovrebbe caratterizzare il prossimo ciclo finanziario, sostenere così la domanda interna e contribuire a modificare il modello di sviluppo. Tale strategia può essere agita a livello europeo, non solo con indebitamento diretto dell’Unione, ma anche attraverso la costituzione di fondi privati o misti orientati da progetti pubblici. Ciò consentirebbe di realizzare e arricchire l’impostazione del Piano Delors. Può essere agita anche a livello nazionale, purchè si disponga di piani di sviluppo che comprendano grandi progetti infrastrutturali e si eviti di ritenere ideologicamente che i beni pubblici debbano essere finanziati sempre e soltanto con denaro pubblico. Tutti i beni pubblici dai quali è possibile trarre un reddito possono essere finanziati con il concorso di capitali privati, il che consentirebbe di concentrare le risorse pubbliche verso le attività che devono essere poste a carico della fiscalità generale. Importante è che il controllo sui beni pubblici resti pubblico.
Le iniziative richiamate sono state generalmente avviate con il concorso di istituzioni finanziarie para-pubbliche tipo Casse Depositi e Prestiti e forse, in questa fase, ciò era inevitabile. In futuro bisognerebbe allargare di molto la sfera dei proponenti e dei partecipanti. In ombra finora resta il ruolo degli investitori istituzionali: Fondi pensione e compagnie di assicurazione dispongono di grandi masse di finanza e, per loro natura, sono interessati ad investimenti di lungo periodo che diano rendimenti stabili anche se non elevati. Il potenziamento di questo tipo di attività richiederebbe comunque una riclassificazione delle norme che regolano operazioni di project e infrastructural finance. Anche per le imprese andrebbe favorito il ruolo di strutture finanziarie specializzate nel valutare le strategie di sviluppo delle imprese in determinati campi di attività assumendo anche partecipazioni nel capitale e favorendo la nascita di imprese di capitale e lavoro in quelle attività nelle quali il ruolo della conoscenza è particolarmente importante. Lo sviluppo di tali entità finanziarie, che possano convogliare verso le imprese, soprattutto medie e piccole, parte dei fondi dei grandi gestori può essere favorita in presenza di una visione dello sviluppo nazionale che individui le attività strategiche su cui puntare ed indirizzi al loro potenziamento gli strumenti dell’intervento pubblico. In questo quadro andrebbero riconsiderate le norme che regolano i fondi private equity.
Regolazione e controllo della finanza
Anche il tema della regolazione, che è attualmente al centro del dibattito, andrebbe focalizzato non solo al conseguimento di stabilità e di trasparenza dei sistemi e dei mercati finanziari, ma anche alla necessità di favorire un più stretto rapporto tra finanza ed economia reale. Il complesso delle norme, norme di funzionamento, di contabilità norme fiscali ed anche quelle di governance dovrebbero, ad esempio, favorire strategie ed investimenti di lungo periodo ed un minore livello di indebitamento delle banche. Tutto questo resta ancora in parte in ombra, mentre il confronto si è concentrato su alcuni punti che rivestono comunque una grande importanza.
La prima questione è: a quale livello devono essere definite le regole ed esercitato il controllo. L’esperienza delle crisi finanziarie trascorse mostra l’enorme potere di contagio che esse contengono, tanto più grande se il male ha origine in paesi leader dell’attività finanziaria quali Usa e UK. Il livello deve essere allora quello mondiale se si vuole avere una regolazione efficace. Forse è troppo presto per sostenere la formazione, da qualcuno già proposta, di un’Autorità mondiale, ma interessante appare la proposta di Barry Eichengreen relativa alle costituzione, accanto al Wto, del Wfo (World Financial Organization ) con uno statuto che fissi le regole di base che i paesi aderenti si impegnerebbero a rispettare. J. Stiglitz ha ricordato giustamente che in ogni caso i singoli paesi hanno il dovere di preservare la stabilità dei propri sistemi finanziari a tutela dei propri cittadini, anche se questo, in mancanza di adeguate regole internazionali dovesse comportare interventi di carattere difensivo.
A livello europeo, senza che vi sia stata reale discussione, sta passando la proposta conclusiva del “ Rapporto De Larosiere”. Tale rapporto è alquanto incoerente, giacchè a un’analisi molto critica dei sistemi di controllo esistenti e dell’attività delle tre Commissione di coordinamento esistenti a livello europeo, rispettivamente per banche, assicurazione e gestioni patrimoniali, la cui evidente inefficacia deriverebbe dall’ampia autonomia di cui i singoli paesi dispongono nell’interpretare le direttive europee, fa seguire la proposta di rafforzare i compiti di tali Commissioni. Si potrebbe invece sostenere la loro trasformazione in vere e proprie Authority.
Sia a livello europeo, sia a quello mondiale viene, giustamente, avanzata l’esigenza di un’entità deputata alla valutazione dei rischi sistemici. Il Rapporto De Larosiere propone che entità coincida con la Bce allargata alla presenza di altre Banche centrali europee. Per quanto la valutazione dei rischi sistemici debba specificamente considerare quelli che riguardano i sistemi finanziari, è evidente che essa deve tenere conto dell’intero quadro macroeconomico mondiale, perciò sarebbe opportuno considerare la creazione di un organismo che comprenda la presenza significativa di esponenti politici e di forze sociali. A meno di non volere continuare a delegare alle Banche centrali quasi l’intera politica macroeconomica.
“Too big to fail”, questo è l’argomento che ha sostenuto tutti gli interventi di salvataggio. Ora questo problema si sta aggravando in quanto, in seguito alla crisi ed ai salvataggi, il grado di concentrazione dei sistemi bancari, soprattutto negli Usa, sta aumentando. Varie misure sono state proposte, soprattutto l’aumento e il miglioramento della qualità del capitale proprio a copertura dei rischi ed in particolare di quello destinato a coprire i rischi delle attività di trading. Tutto questo va bene, tuttavia, ancora più della dimensione costituisce problema il grado di integrazione delle diverse attività finanziarie all’interno di singole istituzioni finanziarie, preoccupazione espressa anche da Bis nella convocazione della citata riunione. In effetti, occorre considerare una più netta separazione delle diverse attività finanziarie e anche delle diverse funzioni delle banche, soprattutto fra le funzioni di banca commerciale e quelle di banca di investimento dalla cui commistione possono nascere distorsioni nella valutazione dei rischi o veri e propri conflitti di interesse.
Non si tratta allora di specializzare le diverse forme di attività creditizia, come avvenne negli anni ’30 in Italia. Si tratterebbe di garantire che le banche che hanno accesso ai fondi delle Banche centrali e i cui depositi sono garantiti pubblicamente operino oculatamente negli interessi delle famiglie e delle imprese, mentre le istituzioni impegnate in attività di trading di tipo speculativo sopportino fino in fondo i rischi conseguenti. Tale esigenza è, naturalmente, osteggiata dalle banche d’investimento anglosassoni, ma è interessante notare che a suo favore, invece, si sono espressi personaggi che hanno svolto o svolgono ancora importanti funzioni di controllo in Usa e UK: Paul Volker e Nicolas Brady che, in qualità rispettivamente di Presidente della Fed e di ministro del tesoro Usa, affrontarono negli anni ‘80 la crisi del debito, Mervin King e Lord Turner rispettivamente Governatore della Banca d’Inghilterra e presidente dell’Authority per il controllo della finanza. In questa direzione pare vadano le proposte recenti di Obama. L’introduzione di un’imposta sulle grandi banche è diretta invece a coprire almeno in parte il costo dei salvataggi bancari.
Il modello di business dominante nella finanza negli ultimi venti anni è stato l’ “originate and distribuite model”. La sua caratteristica era la massiccia cessione di rischi da parte degli emittenti, molto conveniente per essi e motivata dall’ opportunità di distribuire i rischi su una scala molto più vasta. La riduzione della concentrazione dei rischi è certo un fatto positivo, ma il modo con il quale essa è stata realizzata ha invece fortemente aumentato il livello dei rischi. Le vie attraverso le quali la cessione è stata realizzata sono state le securitization e i derivati. La cessione spesso totale dei rischi da parte di chi aveva la competenza per emetterli e gestirli ha comportato una distorta valutazione e una inadeguata gestione di essi ed un deterioramento della qualità dei prodotti. Inoltre le emissioni si sono riprodotte per partogenesi dando luogo ad una crescita abnorme di prodotti finanziari gravanti sempre sugli stessi asset. I prezzi di tali prodotti venivano di regola fissati dagli emittenti al di fuori di ogni reale verifica di mercato.
Tra le misure da prendere vi è, innanzitutto, la necessità per gli emittenti di trattenere una quota robusta dei rischi emessi. La predisposizione di meccanismi di mercato per fissare i prezzi dei prodotti ivi compresa la creazione di clearing house. Ridurre la possibilità di generare prodotti di secondo e terzo livello sugli stessi asset mentre i prodotti derivati andrebbero standardizzati e il loro uso circoscritto, per quanto possibile, alla sola reale copertura dei rischi. Nel campo della previdenza bisognerebbe incentivare gli operatori ad assumere nei propri portafogli i rischi e a fornire rendite garantite.
Il ritorno all’erogazione di bonus ai manager delle banche di investimento Usa ha avuto un impatto forte sull’opinione pubblica tale da concentrare su questo tema l’attenzione dell’ultima riunione dei G20. E bene tuttavia tener presente che non solo i proventi del top management, ma l’intero sistema retributivo degli operatori finanziari è fortemente influenzato da un rapporto con le performance che spinge a un’eccessiva assunzione di rischi: la necessità di riferire tale rapporto ai risultati di medio-lungo termine vale perciò in generale. Anche per il sistema finanziario, tuttavia, si tratterebbe di definire i sistemi di incentivazione in relazione con il ruolo che si intende fare assolvere alle imprese finanziarie.
Sul versante della connessione fra risparmiatori e imprese finanziarie un contributo alla riduzione delle asimmetrie informative o ai rischi di conflitti di interesse potrebbe venire dallo sviluppo di una rete di consulenti finanziari indipendenti che, a differenza di agenti e promotori, operino per conto del risparmiatore per prospettargli, dietro pagamento di una commissione, le diverse e migliori alternative di acquisto di prodotti finanziari ed assicurativi.
Considerazioni conclusive
Da un’analisi di questo tipo si possono evincere alcuni punti importanti del possibile confronto sulla politica macroeconomica; altri possono riguardare i temi delle politiche industriali e, più in generale, della riforma delle istituzioni multilaterali, che qui non vengono trattati.
La stessa analisi delle origini della crisi è oggetto di confronto, se essa sia un fenomeno essenzialmente finanziario o se tragga origine soprattutto dagli squilibri accumulati nell’economia mondiale, nel qual caso la loro riduzione dovrebbe essere l’obiettivo principale di politiche economiche coordinate. Questo tema ha una valenza specifica per l’Europa e per l’area euro.
Vi sono poi i temi delle nuove regole per la stabilità da definire a livello mondiale ed europeo e perciò anche della nuova politica monetaria. Vi sono le scelte da fare in tema di ripartizione dei costi della crisi e più in generale rispetto al modello distributivo: la riduzione delle disuguaglianze, la funzionalità della distribuzione rispetto alle esigenze di sviluppo e di stabilità, la riclassificazione dei sistemi che determinano la distribuzione del reddito.
Infine vi sono le scelte relative al nuovo modello di sviluppo e al il suo finanziamento, ai i nuovi rapporti pubblico/ privato. Tutti questi temi meritano di essere oggetto di elaborazioni specifiche. Silvano Andriani
Presidente Centro Studi di Politica Internazionale (CESPI) - Roma |