I 300 di Juncker
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Sembra che siano stati presentati progetti per un ammontare di 1300 miliardi, a fronte di una disponiblità originaria di 21 miliardi! Ricordate il “Compact for Growth and Jobs”? No? Eppure sono passati poco più di due anni dalle decisioni dei Ministri europei del 28-29 giugno 2012. Nella dichiarazione iniziale i leader europei “esprimono la loro a stimolare una crescita intelligente, sostenibile, inclusiva, efficiente e creatrice di posti di lavoro”; vaste programme, avrebbe detto De Gaulle. Ma ricordano anche l’importanza di avere finanze pubbliche sane e di fare le riforme strutturali; come dicevno i Romani, in cauda venenum. Dopo aver indicato una panoplia di obiettivi d’investimento, viene deciso di aumentare il capitale della Banca europea d’investimento (BEI) di 10 miliardi, i quali determineranno un aumento della capacità di finanziamento di 60 miliardi, i quali a loro volta daranno la spinta “fino a 180 miliardi di investimenti addizionali”. Peccato che questo moltiplicatore, potenzialmente pari a 18, sia svanito nel nulla. Il sito della BEI non fornisce informazioni sull’iniziativa di due anni fa, ma annunzia con entusiasmo i 21 miliardi del nuovo Presidente della Commissione, i quali dovrebbero avere un moltiplicatore, nell’arco di tre anni, di 15, portando così gli investimenti addizionali (sic!) a 315 miliardi. Già solo questi dati dovrebbero indurre a pensare che il nuovo programma possa fare la fine del precedente, ma si può aggiungere qualche altra considerazione. Infatti i 21 miliardi non sono nuove somme aggiuntive: si tratta di 15 miliardi nel bilancio della Commissione, già destinati in molti casi a programmi di investimento, più 6 miliardi della BEI, che vengono girati all’European Fond for Strategic Investment (EFSI), che dovrebbe gestire le risorse e ottenere il miracolo. Ma l’EFSI non avrà le capacità di Gesù; anche perché si comporterà come si è sempre comportata la BEI; sceglierà gli investimenti con ritorni monetari alti e sicuri, come farebbe un qualunque fondo d’investimento privato, stando ben attenta al rating AAA. Non si conoscono i circa duemila progetti che sono stati presentati, per un ammontare di 1.300 miliardi. Ma è probabile che la maggior parte di essi non rientreranno nelle caratteristiche richieste. Ad esempio in Italia la messa in sicurezza del territorio, anche dal punto di vista sismico, è sicuramente una priorità, e non è necessario fare un’analisi costi-benefici per capire che il rendimento sociale d’investimenti in questo settore è tra i più alti (e nel rendimento va calcolato anche i risparmi sugli interventi necessari dopo alluvioni, frane, terremoti e altri disastri). Ma né la BEI prima né l’EFSI prenderebbero in considerazione investimenti di questo tipo. Forse l’aspetto più divertente è la possibilità per i singoli Stati di effettuare dei contributi volontari all’EFSI. Pare che questi contributi, per grande benevolenza della Merkel, non verranno calcolati nelle regole del fiscal compact. Tuttavia il fatto che un paese effettui un versamento volontario non implica che le risorse verranno effettuate a favore dei progetti presentati dal paese: non fia mai! Sarebbe un modo per aggirare le regole sul bilancio, togliendo alcune spese d’investimento dal deficit. No, gli investimenti verranno decisi da un board indipendente, i cui membri dovranno parlare in tedesco. Qualunque persona che conosce un minimo di teoria dei giochi, ed in particolare il dilemma del prigioniero, può intuire che con questo tipo di regole non si va da nessuna parte. La cosa più sconcertante è che ci sono 500 miliardi presso l’ESM che potrebbero essere utilizzati per dotare l’EFSI di risorse con le quali finanziare non solo i 315 miliardi di Juncker ma il doppio. Inoltre il QE, verso il quale Draghi sta facendo compiere passi in avanti all’insieme dei governatori dei paesi euro, con l’annunziata opposizione della Bundesbank, potrebbe benissimo prevedere un acquisto di alcune centinaia di miliardi di titoli dell’EFSI. Infine una parte, solo una parte, dell’oro in mano alle banche centrali dell’eurozona potrebbe essere posto in garanzia dei prestiti dell’EFSI, per un ammontare di un centinaio di miliardi. Ma ovviamente non si farà nulla di ciò. Il punto non è la mancanza di fiducia nella opinione pubblica tedesca (e in quella di altri paesi del nord-Europa). Certamente non c’è fiducia, ma quella serve a rendere popolare presso l’opinione pubblica una linea economica che ha un obiettivo preciso. La Germania non vuole gli investimenti, o qualunque rilancio della domanda interna. La destra europea ha approfittato del caso greco esploso nel 2010 per produrre un attacco alle spese di welfare e alla legislazione a favore del lavoro. La riduzione della spesa pubblica e la piena flessibilità del mercato del lavoro deve essere perseguita in modo l’aggiustamento della competitività avvenga con la riduzione del salario per unità di prodotto. Più si riduce il salario, minore la necessità di espellere mano d’opera. Oppure a parità di salario i lavoratori devono lavorare un maggior numero di ore; ma questo è possibile solo nel settore dell’export, l’unico che ha una dinamica sostenuta (negli ultimi quattro anni la crescita dell’export dei paesi dell’eurozona è stata mediamente del 34,8%). Questo obiettivo è coerente con il sistema economico export-led che la Germania propone come modello a tutti i paesi europei. Il sistema export–led necessita di un surplus consistente della bilancia commerciale, il che implica anche che la domanda interna debba essere contenuta, perché maggiore domanda interna, a parità di esportazioni, implica maggiori importazioni e quindi minor surplus. Anzi, poiché i consumi hanno una percentuale di importazioni più alto degli investimenti, il contenimento deve riguardare proprio i consumi, e quindi il reddito disponibile delle famiglie; in ultima istanza quindi il livello delle retribuzioni. Il modello da perseguire è quello spagnolo; Mariano Rajoy è il miglior allievo della Commissione europea; avendo totalmente liberalizzato il mercato del lavoro, fatto cadere il salario unitario, e fatto diminuire di quattro punti la quota salariale sul PIL, la Commissione è stata benevola verso il mancato rispetto degli spagnoli per il deficit ed il debito. E’ vero che le esportazioni spagnole sono cresciute più della media europea (39,3% contro 34,8%). Ma la Spagna non è l’Irlanda, e non sarà il modello export-led a consentire un sentiero di crescita stabile. Ruggero Paladini
Economist - Professor of "Scienza delle Finanze" at University "La Sapienza" Roma; Member of the Economic Board of Insight - ruggero.paladini@uniroma1.it |