Giorgia e l'illusione lavoro

. GIORGIA E L’ILLUSIONE LAVORO

di Mario Rusciano

 

Quelli che vivono del proprio lavoro – specie se dipendenti – non hanno molto da festeggiare oggi 1° maggio. Anzi sono avvolti da un alone di tristezza celebrando la “Festa del lavoro”. Infatti sul lavoro non sono stati fatti passi avanti negli ultimi anni (anche precedenti all’attuale Governo). Però la Presidente Meloni dice d’aver fatto un mezzo miracolo, in meno di due anni di Governo. Parla infatti dell’aumento: sia dell’occupazione, sia di contratti stabili. Ma non dice il tipo di aumenti e non ne precisa natura e struttura. Il 1° maggio dell’anno scorso – sua prima Festa del lavoro – ebbe una gran trovata propagandistica: festeggiarla convocando un Consiglio dei Ministri tutto sul lavoro (dopo averne informato i sindacati la sera prima). Poi a conti fatti il decreto conteneva tra le misure più significative: abolizione del “reddito di cittadinanza”; sostituzione di esso col “reddito d’inclusione”, più circoscritto e meno congruo; la riduzione temporanea del cuneo fiscale. Più sobria la festa di quest’anno: la Meloni ha riunito ieri i suoi Ministri per approvare il decreto “Coesione” (dopo averne informato i sindacati l’altro ieri). Sempre identica la sua politica del lavoro: proroga d’un anno della riduzione del cuneo fiscale; bonus una tantum di 100 € (gennaio 2025) a lavoratori (mono)reddito (meno di 28.000 €) e carico familiare; incentivo fiscale biennale alle imprese che assumono giovani, donne, lavoratori fuoriusciti da aziende in difficoltà; incentivi per l’autoimpiego ecc.   

La politica del lavoro del Governo Meloni è fondata sui bonus ai lavoratori e su qualche incentivo (fiscale), specie a imprenditori e a chi vuole “mettersi in proprio”. Ma in un Paese avanzato dell’occidente capitalistico – com’è l’Italia – dovrebbe imboccarsi tutta un’altra strada. Prima d’ogni altra cosa tutelare il lavoro non con mance elettorali bensì valorizzandone “qualità” e “dignità”. Inoltre distribuire equamente nei territori le occasioni di lavoro, guardando al Sud. Questa è coesione nazionale. Insomma considerare il lavoro strumento essenziale della crescita. Ciò naturalmente presuppone una visione di futuro e una prospettiva di sviluppo del Governo, con partecipazione attiva all’Unione Europea e alla competizione globale. Questo purtroppo in Italia manca. L’alibi è che il lavoro s’è ridotto ed è radicalmente cambiato per la rivoluzione tecnologica. Sicché, nel conflitto tra uomo e macchina, l’uomo è perdente. Verissimo. Ma è anche vero che grandi imprese manifatturiere – che nei decenni precedenti avevano fatto crescere il Paese – hanno poi fatto ristrutturazioni selvagge, coll’unico obiettivo del massimo profitto. Senza preoccuparsi delle conseguenze sociali delle loro operazioni. Talvolta hanno sì innovato, ma poi o sono scappate dall’Italia o hanno venduto agli stranieri. Nessuno discute la libertà d’impresa: è sancita dalla Costituzione, ma insieme all’utilità sociale. Il declino italiano deriva anzitutto dall’assenza d’una vera politica industriale. Che a sua volta presuppone l’assiduo dialogo tra Governo e parti sociali. Oltre naturalmente all’intenzione degli imprenditori d’investire nell’industria produttiva piuttosto che impegnarsi nel capitalismo finanziario. Magari dopo aver goduto di contributi pubblici e senza un briciolo di responsabilità sociale. In realtà è il solito cane che si morde la coda: senza politica industriale non c’è dialogo sociale e gli imprenditori non investono. Ma senza investimenti e senza dialogo sociale non si può allestisce una politica industriale. Logicamente tocca al Governo prendere l’iniziativa per realizzare l’obiettivo ambizioso: “coesione per la crescita”; “crescita per la coesione”. Per impostare tale politica è necessario costruire un mosaico nel quale ciascuno degli attori – protagonisti della politica, del lavoro, dell’economia e della finanza – mette al posto giusto una tessera, cioè l’apporto di idee per raggiungere l’obiettivo comune nell’interesse generale. Dopo saranno Governo e Parlamento a fare sintesi e scelte appropriate. Ma mortificare le rappresentanze sociali – per pura supponenza politica – senza neppure ascoltarne esigenze e suggerimenti ma comunicando, qualche ora prima della decisione, provvedimenti già pronti e indiscutibili, non può che risolversi nell’adozione di misure di corto respiro. Che serviranno più a far scrivere “Giorgia” sulla scheda dell’elezione europea di giugno che a coesione e crescita del Paese. Che continuerà ad avere salari bassi (dopo il rifiuto, chissà perché, del “salario minimo legale”); lavoro nero e lavoro povero; caporalato, appalti e subappalti per sfruttare la manodopera. Continuerà a piangere i mille morti sul lavoro; a far scappare all’estero giovani talenti non valorizzati nel loro Paese, mentre le imprese non trovano profili adatti all’esigenza produttiva. E questa sarebbe una Festa del lavoro?                                                                                                                                                                                     

 

Mario Rusciano

Professore Emerito di Diritto del lavoro, Università di Napoli Federico II.