Francia - I suicidi sul posto di lavoro
Sottotitolo:
La sequenza di suicidi sul luogo di lavoro sono un fenomeno nuovo nei paesi occidentali che si manifesta a partire dagli anni 90 del secolo scorso.
Abstract:
I suicidi che, nell'estate del 1999 si sono succeduti a France Télecom hanno coinvolto impiegati, tecnici e funzionari di medio-alto livello oppure operai altamente specializzati. Il carattere nuovo è rappresentato dal fatto che la maggioranza di essi si consuma in modo drammatico sullo stesso luogo di lavoro. E coloro che si uccidono fuori dal luogo di lavoro lasciano comunque lettere di denunzia delle insopportabili condizioni di lavoro come ragione del loro gesto. Il quotidiano parigino Le Monde del 26 settembre 2009 esce con una vistoso titolo in prima pagina: “Corsa alla produttività, concorrenza spietata: perché i dipendenti si suicidano sul posto di lavoro”. Dalla prima pagina si rinvia ad un’ ampia inchiesta condotta dal giornale che pone al centro i 23 suicidi che, nei mesi estivi, si sono succeduti a France Télecom. L’articolo di fondo che apre l’inchiesta è firmato da Cristophe Dejours, noto docente universitario di psicoanalisi della salute sul lavoro( 1). Questo il titolo: “Contro l’isolamento,l’urgenza di una dimensione collettiva”. In quelle settimane esce il libro scritto dallo stesso Dejours in collaborazione con la psicologa del lavoro Florence Bègue “Suicidi sul lavoro: che fare?” (2). La questione dei suicidi sul lavoro in Francia si pone da almeno un decennio. Nella centrale nucleare di Chinon i quattro suicidi, nel 2007, di tecnici di alto livello avevano creato qualche allarme . Gli otto suicidi di lavoratori delle imprese che gestivano la manutenzione della stessa centrale denunciati nel 1995 dalla CGT erano stati confinati nella cronaca locale (4). Il carattere nuovo e sconvolgente è rappresentato dal fatto che la maggioranza di essi si consumano in modo drammatico sullo stesso luogo di lavoro. Coloro che si uccidono fuori dal luogo di lavoro lasciano comunque lettere di lucida denunzia delle insopportabili condizioni di lavoro come ragione del loro gesto. Si aggiungono poi numerosi tentativi di suicidio. Nel corso del 2007 e del 2008 la stampa nazionale inizia a dare un qualche spazio informativo a questi eventi. Le imprese avviano silenziosamente indagini interne. Fanno impressione il silenzio politico e la prudenza sindacale. Queste tragedie del lavoro si perdono nella cronaca senza suscitare pubblico dibattito. Nel marzo del 2009 Paul Moreira realizza per la rete televisiva France2 il documentario “Lavorare sino a morirne “. Il documentarista prende avvio dai suicidi al Tecnocentro della Renault per raccontare vicende simili in altri luoghi di lavoro. Ottiene un ascolto sorprendentemente alto. Moreira, con il giornalista e scrittore Hubert Prolongeau, approfondisce l’inchiesta in una banca, al Tecnocentro della Renault e nell’impianto siderurgico Arcelor-Mittal. Nel settembre 2009, quando esplode il caso France Télécom, esce, pubblicato da Flammarion, il risultato della ricerca con il titolo: “Lavorare sino a morirne. Quando il mondo dell’impresa conduce al suicidio”(5). Nell’aprile del 2009 sarà un tribunale del lavoro a vincere resistenze e rimozioni. Per la prima volta una sentenza dichiara il nesso diretto tra suicidio e condizione di lavoro. Il suicidio di un tecnico di alto livello della centrale nucleare di Chinon, consumato nel 2004, viene giudicato come esito di una “malattia professionale” della quale è fatta responsabile l’impresa. Nel gennaio 2010 un’altra sentenza farà scalpore. La morte di un ingegnere che nel 2006 si era gettato dal quinto piano del Tecnocentro di Guyancourt è giudicata “incidente sul lavoro”. La Renault è imputata di “grave colpa” avendo commesso “una negligenza ingiustificabile.” C’è chi scrive che solo i Tribunali hanno finalmente saputo rendere giustizia a questi lavoratori. La tragica successione di suicidi in una grande e prestigiosa impresa come France Télécom nell’estate del 2009 imporrà finalmente l’apertura di un acceso dibattito pubblico. Il numero di Le Monde del 26 settembre dal quale ha preso avvio il nostro discorso rappresenta un punto alto delle analisi, delle discussioni e dell’informazione che hanno fatto irruzione sui grandi media in Francia a partire dal primo autunno 2009. La pagine dell’inchiesta del quotidiano si aprono con l’articolo di fondo di Cristophe Dejours. Questi suicidi sul lavoro - afferma lo psicanalista – sono i segnali di una svolta storica nel degrado della condizione di lavoro. Sono suicidi di persone di successo, normali, impegnate senza risparmio nel loro lavoro. Il loro gesto disperato non può essere imputato a vulnerabilità psicologiche individuali. E’ l’organizzazione del lavoro che deve essere messa sotto accusa. Il manager assegna individualmente degli obbiettivi impossibili. Arrangiati, il risultato deve essere raggiunto. Questo è ciò che chiamano “autonomia del lavoro”. Dejour si chiede: perché i dipendenti accettano quegli obbiettivi? Perché si piegano ad ogni richiesta aziendale? Perché – risponde - l’organizzazione del lavoro ha distrutto il collettivo, la cooperazione e la solidarietà nel luogo di lavoro. Solo se c’è un collettivo si può discutere di ciò che è giusto o non è giusto e poi , uniti, si può negoziare con la controparte I lavoratori non hanno bisogno di una buona gestione dello stress o di cure psicologiche, hanno bisogno di un’ organizzazione del lavoro che poggi sul mestiere e che rilanci la cooperazione solidale.Nella pagina successiva due analisti sociali descrivono la “gestione mediante stress” portata avanti da France Télécom. Il titolo su tutta pagina recita: “France Télécom: la valutazione individuale all’origine del malessere.” Due noti sociologi, Baudelot ed Establet, titolano il loro contributo “Disoccupati e precari sono i più colpiti”. Gli autori affermano risolutamente che i suicidi attuati sul luogo di lavoro da questi tecnici e funzionari “rappresentano qualche cosa di eccezionale poiché si realizzano nello spazio pubblico”. Essi aggiungono che la maggioranza dei quattrocento suicidi all’anno legati al lavoro che avvengono in Francia sono gesti tragici che restano anonimi e invisibili e sovente sono compiuti da lavoratori licenziati e da lavoratori precari. Una pagina intiera del quotidiano è dedicata infine ad interviste a lavoratori di France Télécom. Sovrasta un grande titolo: “Il mio capo mi ha detto…”. Segue una raffica di testimonianze che tracciano il quadro devastante di pressioni e di tensioni, di violenze e di intimidazioni in una condizione di lavoro degradata e intollerabile. E’ il “caso France Télécom” che fa da detonatore al dibattito pubblico sulla questione del lavoro in Francia, rischiara di nuova luce i precedenti drammatici eventi di Mermot,. di Chinon, di Peugeot e di Renault e , in un momento in cui prevalgono i temi della disoccupazione, mette al centro i problemi dell’organizzazione del lavoro, quella che i media chiamano la “sofferenza sul lavoro”. Azienda di Stato ad alta tecnologia con una strategia di tipo industriale e votata al servizio pubblico. Impresa modello dell’integrazione sociale: dipendenti altamente qualificati, posto fisso, salari più elevati della media nazionale. Nel giro di poco più di un decennio la situazione si ribalta completamente: France Télécom diventa un’ impresa privata transnazionale con una gestione orientata prevalentemente verso una strategia finanziaria e commerciale. La condizione di lavoro si degrada in modo impressionante al punto da comparire sui media nazionali e internazionali come “l’azienda che uccide”, nella quale è esplosa la “moda” ( è questa la cinica definizione del Presidente della società) dei suicidi sul posto di lavoro. Personal computer, internet, telefonia mobile, competizione internazionale sconvolgono i mercati e le tecnologie della comunicazione. Nel 2004 la maggioranza del capitale sociale diventa privato (lo Stato conserva il 27% delle azioni). In quello stesso anno diventa presidente e amministratore delegato Didier Lombard il quale lancia una aggressiva politica di mercato all’interno e all’estero. L’azienda si diversifica verso la telefonia mobile (Orange) e verso i servizi internet mentre si avventura in una politica finanziaria e di acquisizioni all’estero non sempre prudente. La grande maggioranza dei dipendenti di France Télécom conserva lo statuto di “funzionario” e quindi un rapporto di lavoro stabile. Questa situazione genera effetti perversi in una impresa che vuole ad ogni costo ridurre il personale. Utilizzando i poteri discrezionali nella gestione della condizione di lavoro la direzione riduce il numero dei dipendenti attraverso una sistematica azione di mobbing dall’alto. Nei due anni 2007-08 l’azienda ha ottenuto circa 20mila “licenziamenti volontari”, Questo biennio è stato anche quello della massima mobilità interna: 14mila spostamenti.forzati. Nel 2007 France Télécom tocca la punta massima dell’utile netto realizzato nella sua storia aziendale (6,3 miliardi di euro), nel 2008 tocca il vertice del suo giro d’affari (53 miliardi) anche se l’utile netto flette. Contemporaneamente esplode la “moda” dei suicidi sul posto di lavoro. Il divario lacerante tra gli utili di impresa e il costo di sofferenza umana è scioccante. Crolla nell’opinione pubblica dei francesi l’ immagine della “loro” Télécom, modello di servizio pubblico e di coesione sociale. Nell’autunno del 2009 le disdette dei contratti da parte di privati con France Télécom sono raddoppiate. Il bilancio del 2009 rispetto a quello dell’anno precedente registra una nuova flessione dell’utile netto (- 6,4), ma, per la prima volta, anche un calo del giro d’ affari (- 1,8%). C’è una risposta dell’utente ai 32 suicidi sul lavoro. Non c’è una risposta dei dipendenti: non si proclamano scioperi. Nell’immaginario cinematografico troviamo un antico e celebre richiamo al suicidio sul lavoro, quello dell’operaio Stronghin, ingiustamente accusato di furto, che si impicca in una fabbrica di San Pietroburgo scatenando Sciopero, titolo del primo film di Ejzenstejn del 1925. Alla sequenza di questi suicidi realizzati in modi sconvolgenti sui luoghi lavoro non c’è stata risposta collettiva,. E questo non dipende soltanto dalla disorientata prudenza e dalla grande debolezza del sindacalismo francese. A generare paralisi e rimozione concorrono ragioni profonde che coinvolgono i lavoratori “sopravvissuti”: divisioni, sensi di colpa, fuga da un messaggio ansiogeno che ti chiama in causa. Il ministro del Lavoro interviene e, ricordando che lo Stato resta il maggiore azionista dell’impresa, chiede di accelerare i negoziati sulla prevenzione dei rischi psico-sociali. Il presidente Didier sospende sino a dicembre l’applicazione del principio della mobilità ogni tre anni e la definizione di obbiettivi individuali. La società Technologia, patrocinata dal Ministero del lavoro, è incaricata di fare un’ inchiesta tra i dipendenti dell’azienda. Viene distribuito un dettagliato questionario. Risponde l’80% del personale. I risultati dell’inchiesta sono comunicati il 14 dicembre 2009 e sono un atto d’accusa contro la dirigenza. “L’ambiente di lavoro – si afferma – è teso e persino violento e rivela una generale insoddisfazione per quel che riguarda le condizioni di lavoro, la salute, lo stress”. Ciò viene imputato a “gravi carenze del management”. Si conclude dicendo che “il personale di France Télécom appare assolutamente orfano di senso e di leaders”. Iniziano trattative sindacali su condizioni di lavoro, mobilità, rapporto tra vita privata e vita professionale, rappresentanza dei lavoratori. Il 1 febbraio 2010 si annuncia il ricambio del vertice aziendale. Didier Lombard è sostituito nella direzione effettiva di France Télécom da Stéphane Richard, alto funzionario pubblico e ricco finanziere che Sarkosy aveva introdotto nel gruppo dirigente dell’impresa nel maggio 2009. Il ricambio fisiologico del gruppo dirigente che sarebbe dovuto avvenire nel maggio 2011. Da decenni si pensa di poter affrontare i problemi del lavoro con interventi legislativi dall’alto come la legge sulla riduzione dell’orario di lavoro, la legge quinquennale per la gestione dell’occupazione e della competenze. Si mettono in moto burocrazie ministeriali e sindacati, esperti dei Comitati d’igiene e sicurezza di impresa, si attivano giuristi e avvocati e società di consulenza in psicologia del lavoro, mai si coinvolgono i lavoratori, mai si fa emergere la loro sofferenza concreta e la loro concreta esperienza e competenza. Il cuore della sofferenza del lavoro è oggi l’impotenza dei lavoratori. La posta in gioco è una questione di potere. La crisi attuale deve essere affrontata nell’ottica di una redistribuzione del “potere organizzativo” sulle attività e sul destino professionali in alternativa all’ottica compassionevole della cura e del risarcimento. Occorre fare una scelta. Così conclude Ginsbourger. Ma le aziende una scelta sembra l’abbiano fatta. Il quotidiano torinese La Stampa intitola una corrispondenza da Parigi “Stress da lavoro, aziende francesi ingaggiano psicologi”(9). Quello che ormai viene chiamato l’ “effetto France Télécom” – scrive il giornalista - ha avuto due conseguenze. L’assunzione della responsabilità della gestione dei rischi psico-sociali da parte dei massimi vertici aziendali ( Presidenti e amministratori delegati) e un massiccio ricorso a psicologi esperti di stress da lavoro. Il giro di affari delle grandi società specializzate nella gestione dello stress ( Psya, Preventis, Ifas, Stimulus) è andato alle stelle. Dalle rapide indagini mediante questionari che sono state fatte a Chinon, alla Peugeot , alla Renault e a France Télécome la parola chiave che emerge e domina è “stress”, stress lavorativo. L’approccio alle difficoltà psico-somatiche in ambito lavorativo basato sullo stress non appartiene soltanto alla cultura terapeutica e adattiva delle aziende. Nel 1999 la sezione “Occupazione & Affari sociali” della Commissione europea elaborò una “Guida sullo stress legato all’attività lavorativa” dal titolo “ Sale della vita o veleno letale?” (10). Questo testo inizia definendo il “contesto” che ha spinto la commissione a intervenire: oltre metà dei 147 milioni di lavoratori dei 15 stati membri dell’Unione riferisce di “lavorare a ritmi molto serrati e di dover rispettare scadenze tassative”, il 45% riferisce di “svolgere lavori monotoni”, il 50% è “addetto a compiti ripetitivi”. Questi “fattori stressanti” contribuiscono a determinare il quadro dei sintomi patologici accusati dai lavoratori. Il 28% dei lavoratori denunzia il sintomo patologico definito “stress”. Il documento ha elementi di forte ambiguità, però contiene anche suggestioni importanti. Si rivolge ai datori di lavoro richiamando la direttiva quadro dell’UE che impone loro il “dovere di assicurare la sicurezza e la salute dei lavoratori in tutti gli aspetti legati al lavoro” e che prevede “l’adeguamento del lavoro all’individuo”. E’su quest’ultimo punto che la linea del discorso del documento si rivela contraddittoria. Alla fine si conclude ribaltando i presupposti iniziali. Lo stress è definito come un insieme di reazioni emotive, cognitive, comportamentali e fisiologiche derivanti dalla percezione di aspetti avversi e nocivi del contenuto, dell’organizzazione e dell’ambiente di lavoro. Lo stress perturbante può mettere in atto azioni finalizzate a modificare l’ambiente in funzione della necessità del soggetto ( adeguamento del lavoro all’individuo) oppure azioni orientate ad una modificazione della caratteristiche soggettive allo scopo di un suo adattamento all’ambiente dato. Gli estensori del documento utilizzano in proposito una metafora efficace. Quando il piede duole (stress) si possono apportare modifiche alla scarpa affinché si adatti al piede. Ma un’azione di questo tipo richiede tempi lunghi e interventi complessi. Allora potrebbe risultare necessario modificare il piede perché si adatti alla scarpa, utilizzando assistenza medica, tecniche psicologiche di gestione dello stress, esercizi fisici , rilassamento, ecc. Dopo aver indicato i fattori ambientali oggettivi di stress la guida ripiega in modo fatalistico su una visione soggettiva dello stress come capacità o incapacità degli individui di adattarsi all’ambiente lavorativo dato. Questo spostamento del fuoco dell’analisi dalla organizzazione del lavoro versola fragilità del soggetto a gestire lo stress, dalla redistribuzione del potere sociale verso la cura e il risarcimento individuale è fortemente presente anche nell’accordo dell’8/10/2004 sullo stress lavorativo siglato tra Confindustria e Sindacati europei.(11) Il distacco, denunziato da Ginsbourger, tra retoriche compassionevoli , tecniche terapeutiche degli apparati di potere ed esigenze che nascono dalla realtà vissuta dei lavoratori si manifesta in Francia in forme eclatanti. Nel 2008, mentre sta esplodendo la “crisi dei suicidi sul lavoro”, il Ministro del Lavoro francese riceve il rapporto Nasse-Légeron sulla “prevenzione dei rischi psico-sociali nel lavoro”. Questo ponderoso elaborato alla cui redazione ha contribuito una schiera di accademici, di burocrati sindacali e di consulenti politici ottiene titoli sui giornali e resta nel cassetto. L’ottobre del 2009, in una Francia sotto choc per il lavoro che genera morte, avrebbe dovuto essere il mese dedicato alla “campagna europea per un lavoro senza stress”. Il sociologo del lavoro Philippe Zarifian in un suo intervento dal titolo eloquente, “ Far scomparire il lavoro e le conseguenze patologiche e sociali” (12), denunzia il prevalere, di fronte alla crisi dei suicidi sul lavoro, di quella che egli chiama l’ “ideologia della sofferenza sul lavoro”. La sofferenza delle singole persone chiama la “cura” degli individui. “Non sono gli individui che hanno bisogno di cura, ma il rapporto di lavoro”. “La generalizzazione – continua il sociologo - del controllo aziendale basato su obbiettivi/risultati finisce con il celare l’essenziale: la qualità, il reale svolgimento del lavoro. Ci si concentra a monte (gli obbiettivi) e a valle (i risultati) e non si vede più ciò che conta: la concretezza del lavoro.” Questo avviene - aggiunge Zarifian – proprio quando si chiede coinvolgimento attivo e intelligente al lavoratore, iniziativa e impegno personale”. In questo modo si genera contemporaneamente cecità manageriale e deriva sociale. Conclude: “Occorre farla finita con l’ideologia della commiserazione e della colpevolizzazione dell’individuo e riscoprire in modo esplicito che cosa è il lavoro oggi, la sua qualità, le sue difficoltà, ma anche le sue vie di sviluppo e le sue potenzialità. La successione sconvolgente di tragedie di singoli lavoratori sembra che non riesca a portare sulla scena pubblica i nodi veri che stringono il rapporto sociale del lavoro dipendente". Le riflessioni sul “caso Mermot” Mermot è una piccola città-fabbrica dell’Aquitania. Nel 1919 la “Compagnia di meccanica aeronautica dell’Ovest” vi ha costruito i suoi stabilimenti con quartieri-giardino per i dipendenti e scuole tecniche di avanguardia. Generazioni di operai professionali e di tecnici della comunità di Mermot si sono succedute nella fabbrica specializzata in revisioni generali e riparazioni particolari di aerei. Nel 1924 Mermot diventa una città socialista. Una forte solidarietà di mestiere, un senso di appartenenza comunitaria territoriale e un’ orgogliosa identità aziendale ha caratterizzato una lunga vicenda di coesione sociale. Nel 1997 i dipendenti erano 655. Quarantatrè le donne. Lo sviluppo importante dell’avionica ( sistemi elettronici e informatici di controllo del volo e di navigazione), con l’introduzione del controllo numerico computerizzato nella produzione meccanica di precisione in piccoli lotti, hanno fatto evolvere e in parte hanno eroso le professionalità tradizionali. Nel 1995 prende avvio una riorganizzazione del lavoro orientata al prodotto, cioè alle esigenze dei committenti che esprimono una domanda sempre più differenziata e sempre più esigente ( qualità e tempi di esecuzione). Si disperdono i vecchi raggruppamenti professionali, si richiede una forte mobilità interna, una polivalenza delle mansioni inserite in una logica di funzionamento a flusso teso. Tutto ciò viene realizzato in tempi rapidi, mediante pressioni sul lavoro e improvvise decisioni dall’alto. Nell’autunno del 1995 un forte sciopero cerca di opporsi alla ristrutturazione. La resistenza dei lavoratori viene sconfitta. I processi di nuova organizzazione del lavoro vanno avanti in modo pesante. Il vecchio direttore autoritario ma radicato nell’azienda viene sostituito da una squadra di giovanissimi manager (31 anni l’età media) che vengono dall’esterno e da scuole anglosassoni di management. La fabbrica va fuori controllo: aggressioni fisiche e psicologiche tra i lavoratori, incremento elevatissimo degli infortuni sul lavoro e dei congedi per malattia (depressioni, stress..), forte percentuale di assenteismo, demotivazione del lavoro e disgregazione sociale. La manifestazione più clamorosa di questa situazione sono cinque suicidi sul lavoro ( e alcuni tentati suicidi) tra il maggio 1997 e il maggio 1998. Il giovane management ha la sensazione di perdere il controllo della situazione. Vi sono pesanti ripercussioni di carattere produttivo: problema dei tempi di consegna e della qualità. Il responsabile delle risorse umane, subito dopo i suicidi, chiede l’intervento della psicologa del lavoro Florence Bégue. Essa condurrà un’ inchiesta-intervento che durerà 18 mesi. Ottiene la cooperazione del medico del lavoro, la collaborazione del Comitato di igiene, di sicurezza e della condizione di lavoro (CHSCT) e l’appoggio dei sindacati. Il referente scientifico all’esterno è il prof. Cristophe Dejours. Il primo colloquio con la direzione aziendale affronta con difficoltà l’argomento dei suicidi che vengono attribuiti a problemi personali di individui già fragili. “I dirigenti dimostrano un sorprendente distacco emotivo la cui conseguenza è una sorta di raggelamento del pensiero che impedisce di riflettere sui fatti”. Concentrati sui obbiettivi di pianificazione e di gestione il loro problema è quello di riprendere in mano la situazione nel più breve periodo, di far sparire i sintomi del disordine senza affrontarne le cause. Bègue riesce ad attivare rapporti quasi terapeutici fuori dall’azienda con singole persone con difficoltà psicologiche. Tutti i soggetti evocano la loro angoscia, il clima quotidiano di sospetto e di violenza. Attraverso questi colloqui si scopre l’ampiezza della crisi che colpisce l’impresa. “E’ la follia, è una giungla”. Un lavoratore torna in fabbrica dopo un periodo di grave crisi depressiva e trova un cappio nel suo posto di lavoro. Dopo due mesi la psicologa cerca di indagare nei reparti. “E’ straordinario il contrasto tra ciò che è emerso dai colloqui personali e ciò che si incontra andando nei luoghi di lavoro. Il silenzio domina. Non c’è alcuna traccia visibile di sofferenza, della violenza.. come se tutto fosse pietrificato. Il sentimento di insicurezza, la paura, l’angoscia onnipresenti generano un ripiegamento su se stessi, l’isolamento, il sospetto e la rimozione”. Non c’è il minimo indizio di una mobilitazione collettiva. Ci vorranno sei mesi di lavoro per attivare una discussione pubblica dei problemi del lavoro in un piccolo gruppo di dodici operai. Da questo confronto emerge come la ristrutturazione dei gruppi stabili di mestiere abbia avuto conseguenze di lacerazione del tessuto umano. La ristrutturazione ha travolto abitudini professionali consolidate, la cultura “materiale” del lavoro, l’aiuto reciproco e la trasmissione del saper fare alle nuove generazioni con le quali ora c’è incomunicabilità e ostilità. Si accusa il management di aver imposto dall’alto, in fretta e mediante pressioni e costrizioni, ricette organizzative che funzionano solo sulla carta, formule operative astratte che non tengono conto degli uomini e della realtà. C’è la morte della professionalità: un giorno si lavora qui, un giorno si lavora là, , fai un pezzo di mansione poi devi passare ad un’altra. Senza la solidarietà del gruppo professionale il rapporto con l’organizzazione diventa individuale e quindi assolutamente dipendente. Ma l’organizzazione tecnica senza la cooperazione sociale va a pezzi e fa acqua da tutte le parti. Si decide di scrivere in un documento il risultato delle discussioni. I dodici operai diventano un gruppo d’inchiesta. Distribuiscono il documento nei reparti e vanno a discutere con i lavoratori. Un gruppo di inchiesta separato si realizza anche tra i capi intermedi. Dopo un anno di inchiesta-intervento si consegna quanto è emerso alla direzione aziendale, ai sindacati, al Comitato per l’ igiene e la sicurezza. La psicologa passa la mano a questi attori. Nel settembre del 2009, nel pieno dello choc France Télécom, viene pubblicato, come abbiamo accennato, il rapporto della ricerca sul campo di Florence Bègue a Mermot accompagnato da una riflessione generale di Cristophe Dejour su condizione di lavoro e suicidio. Il titolo del libro è “Suicidio e lavoro: che fare? Rompere la legge del silenzio.”(13) Lo studioso di psicanalisi del lavoro vede la sequenza di suicidi di operai professionali, di tecnici, funzionari, insegnanti, realizzati sul luogo di lavoro o accompagnati da dichiarazioni che non lasciano dubbi circa il legame tra il tragico gesto e la condizione di lavoro, come un fenomeno nuovo nei paesi occidentali che si manifesta a partire dagli anni 90 del secolo scorso. Negli anni 60 vi furono ondate di suicidi di lavoratori agricoli legati alla crisi e trasformazione del lavoro agricolo e all’esodo rurale. Vi sono stati suicidi di operai licenziati e disoccupati. Nel passato operavano strategie di difesa collettive contro le difficoltà personali sul lavoro. Esse si realizzavano attraverso ostentate forme di coraggio e di resistenza alla sofferenza, al rischio e alla fatica. Inoltre si manifestavano attraverso forme intense e costanti di solidarietà tra i colleghi di lavoro. Comunque anche nei casi di crollo psicologico la tendenza è sempre stata quella di evitare la manifestazione della fragilità psichica sul luogo di lavoro. Se accadeva talvolta il suicidio del lavoratore il soggetto tentava in ogni modo di occultare la relazione tra quel gesto e il lavoro. Al contrario oggi il suicida intende inviare intenzionalmente un messaggio inequivocabile alla sua comunità di lavoro. Dejour demolisce gli inconsistenti quanto ostinati tentativi di rimuovere questi messaggi attribuendo il suicidio a conflitti nella sfera privata oppure imputandolo ad individuale fragilità nella gestione del proprio stress lavorativo o ricorrendo alla “formula magica” della causalità multifattoriale dei suicidi che azzera ogni gerarchia nell’incidenza dei vari fattori. Questa svolta gestionaria non si manifesta solo con l’introduzione di nuovi metodi di gestione della produzione e del lavoro ma si concretizza soprattutto in un’ affermazione radicale del primato del momento gestionale come fulcro della produzione di valore sostituendo ed escludendo il sistema di valori tradizionalmente collegati al lavoro. Lo slogan della “fine del lavoro” rappresenta il termine estremo del trionfo del momento gestionale e della svalutazione del lavoro. L’analisi dello psicanalista del lavoro si concentra sulla “psicodinamica del riconoscimento destabilizzata dalla gestione”. Il riconoscimento della qualità del proprio lavoro è uno dei fattori della salute mentale del lavoratore. La riconferma nel tempo di questo riconoscimento della qualità del “fare” diventa un giudizio sull’ “essere” del lavoratore. Il rifiuto o il ritiro di questo riconoscimento destabilizza l’identità del lavoratore. Questo vale soprattutto per quei lavoratori fortemente impegnati nel dare un contributo di qualità all’impresa.Passa quindi a valutare gli effetti devastanti che hanno i metodi di gestione basati sulla valutazione individualizzata dei risultati del lavoro. Dejours contesta che la valutazione dei “risultati” possa corrispondere ad una misurazione dell’effettivo contributo lavorativo della persona. Non c’è alcun rapporto proporzionale tra lavoro e risultati del lavoro perché oggi è sempre più difficile valutare il tempo psicologico e mentale che il dipendente consacra al suo lavoro sia per acquisire che per esercitare competenze. Inoltre la valutazione individualizzata, soprattutto quando è legata ad un sistema di gratificazioni e di stigmatizzazioni, induce una concorrenza diffusa, un clima di rivalità, di comportamenti sleali, di rapporti di diffidenza che colpiscono al cuore ogni sistema di cooperazione e di solidarietà sul lavoro. La solitudine, l’indifferenza degli altri nell’ambito lavorativo rappresentano un’esperienza atroce che può spiegare l’aumento dei suicidi. “L’assenza di reazioni collettive immediatamente dopo il suicidio – scrive Dejours – può avere conseguenze disastrose. Si può dunque riprendere il lavoro normalmente dopo lo spettacolo di un suicidio? Che cosa significa il silenzio? Quando il suicidio è un atto di accusa in quanto indica che il lavoro è la causa della tragedia, l’assenza di reazione significa, di fatto, che non verrà fatto niente per interpretare il messaggio, che niente sarà fatto per cambiare l’organizzazione del lavoro che ha generato l’evento.”Questa assenza rappresenta non solo uno scacco culturale, ma soprattutto un errore pratico. --------------------------------------------------- 1) Christophe Dejours è uno studioso di problemi del lavoro noto anche a livello internazionale. In Italia è stato tradotto il suo libro “L’ingranaggio siamo noi”, Il Saggiatore, Milano 2000.
Pino Ferraris
Docente di Sociologia presso l’Università di Camerino.Si occupa di storia del movimento operaio. |