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A cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta, profondi cambiamenti segnano l’economia capitalistica, mentre si afferma una nuova ideologia cnservsatrice che ha tra i bersagli il ruolo del sindacato. Federico Caffè ne intuisce la portata storica e le minacce che ne derivano per il movimento sindacale.
Gli scritti di Federico Caffè sul ruolo del sindacalismo italiano in un ‘epoca cruciale della sua storia, a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta, raccolti in un recente volume curato da Giuseppe Amari “La digniità del lavoro, riflettono una fase peculiare della sua biografia intellettuale e politica, e della storia del sindacato italiano.
E’ a partire dalla metà degli anni Settanta che l’interesse di Caffè per le politiche del movimento sindacale si configura progressivamente come un terreno non solo di attenzione ma anche di impegno diretto, e insieme di sostegno e di critica.
Dal punto di vista economico, si veniva configurando una fase di transizione che non sempre le forze politiche e sindacali percepirono nella loro radicalità. Tramontata l’epoca della grande crescita, l’economia, dagli stati Uniti all’Europa, subisce i contraccolpi dell’inflazione, che segue la crisi petrolifera e lo sganciamento del dollaro dall’oro, mentre rallenta, quando non si arresta, la crescita. Le politiche keynesiane che hanno caratterizzato le amministrazioni americane sia democratiche che repubblicane, da Kennedy, a Johnson, a Nixon sono sotto attacco. E, non a caso, Milton Friedman, rimasto a lungo in ombra, è insignito nel 1977 del premio Nobel. Inizia la lunga marcia delle teorie neoliberiste che avvieranno lo smantellamento dell’intervento dello stato, la deregolazione dei mercati e della finanza, l’attacco al sindacato e alla contrattazione collettiva.
Margaret Thatcher, che vince nel 1979 le elezioni in Gran Bretagna, annuncia il nuovo vangelo dell’individualismo (“La società non esiste”). Un anno dopo è eletto negli Stati Uniti Ronald Reagan, che sintetizza la svolta nella famosa affermazione: “lo Stato non è la soluzione, ma il problema”. I sindacati sono al centro della svolta strategica che cambierà i rapporti sociali nelle vecchie democrazie occidentali. Nel 1981, appena insediato alla Casa Bianca, Reagan apre una nuova fase del sindacalismo americano, liquidando il sindacato dei controllori di volo, che avevano osato sfidare il governo, licenziandone in tronco 12.000. Era un modo concreto di mostrare che il sindacato poteva essere un problema, e che la soluzione era a portata di mano. Negli anni successivi, Margaret Thatcher combatte e vince la sua battaglia contro il sindacato dei minatori con la stessa determinazione con la quale aveva condotto la guerra delle Falkland.
La sinistra democratica americana e quella laburista in Gran Bretagna rimasero escluse dal governo per tutto il decennio e oltre. Poi, quando, negli anni Novanta torneranno a vincere le elezioni, prima con Bill Clinton e poi con Tony Blair, i paradigmi della sinistra saranno profondamente cambiati alla ricerca di improbabili “Terze vie”.
In questa fase di ambigua transizione economica e politica, Caffè intuisce che la crisi teorica e politica della fine degli anni ‘70 prelude a una svolta profonda e radicale della teoria economica e della filosofia politica che hanno governato le democrazie occidentali nell’ultimo mezzo secolo. Era l’autunno del 1979, quando Caffè, intervenendo in un convegno organizzato dalla FLM, la Federazione unitaria dei lavoratori metalmeccanici, che la Confindustria aveva denunciato alla magistratura per gli scioperi che stavano segnando il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, aprendo la sua relazione, afferma: “L’intento di ciò che cercherò di dire, forse con concisione eccessiva, è che alcune posizioni neo-liberiste, neo-austriache, neo-quantitavistiche e così via non costituiscono posizioni culturalmente avanzate o comunque valide, ma sono espressione di battaglie di retroguardia”. Posizioni non valide e di retroguardia – affermava Caffè - ma che nei trent’anni successivi si si sarebbero potentemente affermate, entrando a far parte dell’apparato ideologico dominante. “Occorrerà ancora molto tempo – aggiunse Caffè – perché al di là delle polemiche contingenti si comprenda in pieno il ruolo fondamentale che le masse operaie organizzate svolgono attualmente a potente sostegno delle istituzioni democratiche in tempi difficili”. E, terminando, citò John Galbraith che, parlando del conflitto sociale in America, paventava il rischio di “dissoluzione del sindacato”.
Oggi possiamo dire che sia Galbraith che Caffè antivedevano una minaccia che, sotto l’urto de neo-conservatorismo liberista, il tempo si è incaricato di rendere concreta. In America, il sindacato non è lontano dalla dissoluzione o, in ogni caso dall’irrilevanza - ridotto com’è a rappresentare nel settore privato, meno del sette per cento della forza lavoro - mentre in Europa la crisi è correntemente utilizzata, più o meno esplicitamente, per andare nella stessa direzione.
Chi oggi rilegge gli scritti di Caffè, spesso commenti molto brevi e apparentemente occasionali comparsi in quegli anni, su pubblicazioni animate da gruppi minoritari di CGIL, CISL e UIL, si troverà di fronte a elementi essenziali di analisi e di interpretazione di quella confusa fase di transizione.**
Partecipando attivamente a convegni e seminari di carattere sindacale, Caffè che, pure aveva rinunciato a un diretto impegno politico, come quando era stato insistentemente invitato ad accettare una candidatura al Parlamento come indipendente nelle liste del Partito comunista, stabilì un rapporto intenso con i quadri dirigenti e i militanti sindacali che era insieme di deferenza e di affetto nei suoi confronti. Dietro la lezione dell’economista, i delegati e i quadri sindacali percepivano, sia pure velata dal ritegno dell’antiretorica, la filosofia sociale e l’accento morale che traspariva dal suo discorso. E questo rendeva più facile l’accettazione degli accenti critici che Caffè non risparmiava al sindacato, discutendo la fondatezza delle sue analisi e le conseguenze che ne traeva sul piano programmatico e rivendicativo. In uno degli ultimi articoli consegnati a “Lettere di Sinistra 80”, Caffè si schermiva:” Non intendo di certo insegnare ai sindacati come fare il loro mestiere…”. Ma, in effetti, gli argomenti che portava a sostegno del suo discorso accendevano una riflessione che influiva sul modo di esaminare i problemi e impostare le soluzioni.
Bisogna ricordare che la teoria economica che si veniva affermando a cavallo degli anni Ottanta poneva al centro della politica economica la “politica dell’offerta”, che tendeva a far ricadere sulle “rigidità” del sindacato e sulla contrattazione collettiva la responsabilità della disoccupazione. Per Caffè si trattava di un inaccettabile ritorno alle teorie del passato, a quelle che avevano portato alla crisi degli anni Trenta, e che si voleva rilanciare, dimenticando i suoi fallimenti economici e le penose conseguenze sociali che ne erano derivate. “L’ortodossia, scriveva, significa che si è contenti di un certo stato di cose, lo si accetta”. Caffè non ne era contento e non lo accettava. E questo non solo perché non rispondeva a un’esigenza di coerenza teorica, ma perché ne condannava le conseguenze sociali su uomini e donne in carne e ossa.
La lacerazione personale e sociale della disoccupazione costituiva per lui non solo un fallimento politico, ma un motivo personale di afflizione. Quando si riferisce al mercato del lavoro, Caffè non indulge all’astrazione teorica della domanda e dell’offerta. O, per meglio dire, la prende in considerazione, ma ne segnala non senza ironia i limiti in una lezione dedicata ai quadri sindacali della CGIL: ” Quando c’è disoccupazione che significa? Che vi è un’eccedenza di operai che non trovano lavoro. Quando c’è un’eccedenza di patate che non trovano smercio sul mercato qual è il rimedio di fronte a una malattia di questo genere? Si diminuisce il prezzo delle patate. Ora questo stesso ragionamento veniva applicato anche al lavoro….Questo ragionamento - che era il ragionamento vincente all’epoca della crisi (degli anni Trenta) era che, se le Unioni sindacali, in base alla loro funzione tradizionale, volevano difendere i salari monetari e le buste paga, se i sindacati non fossero così ostinati e avessero accettato riduzioni salariali, queste riduzioni salariali avrebbero portato il solito effetto di far accrescere la domanda di lavoro da parte degli imprenditori perché il lavoratore costava meno”.
A quell’epoca Caffè temeva che si potesse applicare uno schema valido per le patate al mercato del lavoro. Trent’anni dopo, nella crisi attuale, è la tesi ordinaria delle istituzioni internazionali: la difesa dei salari – si legga “rigidità” – è all’origine della disoccupazione; rendete flessibili i salari, lasciate andare la contrattazione collettiva e vedrete crescere la domanda di lavoro. E’ un falso rimedio. Ma è la nuova ortodossia, dall’OCSE al FMI, alla Commissione europea. Non che manchino gli economisti che hanno riscoperto Keynes, negli Stati Uniti come in Europa, da Stiglitz a Krugman, da De Grauwe a Fitoussi, ma l’ortodossia che trent’anni or sono Caffè denunciava, oggi appare dominante. Da Berlino a Bruxelles, passando per Francoforte, dove pure un orgoglioso discepolo di Caffè siede al vertice della Banca centrale europea, un coro unanime invoca la flessibilità del mercato del lavoro, intesa come flessione verso il basso dei salari e libertà di licenziamento.
Nel contesto della crisi del 2007- 08, che nell’euro-area tende ad aggravarsi più che a finire, il sindacato è l’agnello sacrificale. Il paradigma neoliberista che invoca il ritiro dello stato pretende con altrettanta, se non maggiore, forza il sostanziale ritiro del sindacato dalla contrattazione collettiva, a meno che non si adatti alla pratica americana del give back, la restituzione alle imprese dei diritti e dei benefici acquisiti.
In più di una circostanza, Caffè non mancò di manifestare le sue critiche nei confronti dei sindacati. In uno scritto che sarebbe apparso in una raccolta in onore di Giuseppe de Meo che Caffè inviò a “Sinistra 78”, pubblicato col titolo” Le ipocrisie del “patto sociale”, Caffè sosteneva che ciascuna delle parti coinvolte – dunque, anche i sindacati – avrebbe dovuto svolgere “una consapevole autocritica...del proprio operato, anziché di quello delle controparti”. Autocritica che non poteva non investire le organizzazioni sindacali per “la frattura che anch’esse hanno contributo a determinare nel mondo del lavoro, tra gli occupati protetti e i lavoratori allo sbando nelle zone sommerse della disoccupazione e delle attività precarie”. Ma, al tempo stesso, denunciava come “vacuo ed ipocrita l’appello al patto sociale” e “ l’intendimento sottaciuto di mera resa a discrezione delle forze sindacali”.
La sua critica si estendeva alle componenti più direttamente responsabili delle scelte economiche: “Le autorità monetarie – scriveva - avrebbero pienezza di motivi per riflettere sul reale fondamento dell’arroganza intellettuale con la quale si atteggiano, sempre e ovunque, a depositari della saggezza economica; mentre in realtà non vi è settore, come quello creditizio - finanziario, il cui comportamento asociale e antisociale abbia raggiunto vette più elevate di pubblico scandalo”. Un giudizio impietoso che il tempo si è incaricato di convalidare, se solo consideriamo che, nell’autunno del 2013, le autorità di controllo americane hanno posto sotto processo per truffa, in relazione ai famigerati mutui subprime, la JP Morgan, la più grande banca d’investimento americana, costringendola a concordare col Dipartimento della Giustizia una multa stratosferica di 13 miliardi di dollari.
E, ancora, riferendosi alla crisi degli anni Trenta, affermava Caffè nel seminario tenuto alla scuola sindacale CGIL di Ariccia: “ La conseguenza della diminuzione dei salari da parte dei sindacati non fu un miglioramento della situazione occupazionale, ma il suo peggioramento.. Allora venne fuori questo concetto che in realtà era di un economista classico, Malthus, e che Keynes recuperò: per avere l’occupazione ci vuole la domanda. Uscì fuori questo concetto cardine di domanda effettiva che coincide poi con la domanda servibile di Marx, la domanda, vale a dire, che abbia il denaro necessario per poterla esprimere”.
Trent’anni dopo, la cultura democratica è alle prese con gli stessi dilemmi. Da una parte, i repubblicani negli Stati Uniti che si sforzano di bloccare la politica monetaria e fiscale dell’Amministrazione Obama; dall’altra, le autorità dell’Unione europea, guidate dal governo tedesco e dalla tecnocrazia di Bruxelles, che impongono all’eurozona la politica dei repubblicani americani, contraffatta come “politica di austerità”, portatrice di recessione, aumento della disoccupazione nei paesi mediterranei e, paradossalmente,’aumento del debito pubblico che la politica di austerità avrebbe la pretesa di abbattere.
Di fronte alla crisi, alla caduta della domanda effettiva, di cui sono parte integrante gli investimenti oltre ai consumi, il pieno impiego non può essere perseguito – insisteva Caffè, senza un’esplicita determinazione dei poteri pubblici, ai quali assegnava il compito di agire come “occupatori di ultima istanza” *** E a chi gli rimproverava di rimanere ligio alla famosa e controversa affermazione di Keynes, che aveva provocatoriamente raccomandato di offrire un lavoro ai disoccupati anche a costo di “scavare buche”, rispondeva che il punto non era quello delle buche da scavare, ma piuttosto delle ”buche da riempire”. Non si trattava di concetti consoni con la cultura economica corrente, nemmeno a sinistra. E, infatti, Caffè lamenta che le forze di sinistra”continuano a subire la suggestione dell’appello al mercato, oggi come nel lontano 1947”.
Ci viene così offerto un insegnamento insieme teorico e pratico che rimane tanto valido, quanto purtroppo inascoltato anche in una buona parte delle forze progressiste, in occasione della crisi corrente che pure è stata sin dall’inizio paragonata a quella del 1929. Con l’aggravamento, purtroppo, che, allora, dopo Herbert Hoover e Andrew Mellon, il banchiere nominato alla testa del Tesoro, venne Franklin D. Roosevelt, promotore del New Deal, mentre oggi, a cinque anni di distanza dal collasso della Lehman Brothers, gli Stati Uniti faticano a uscire dalla crisi, mentre le autorità dell’eurozona e i governi che ne seguono il dettato, operano, più o meno consapevolmente in una direzione che tende ad aggravarla. E, da questo punto di vista, vale ancora la pena di ricordare il giudizio di Caffè sul percorso, allora ancora iniziale, che avrebbe portato negli anni successivi all’euro, quando evocava, diremmo oggi profeticamente, “la possibilità non remota di “germanizzazione” economica del nostro paese (non so quanto preferibile al vassallaggio verso l’imperialismo statunitense”.
Caffè non era un radicale. Non condivideva – come spiegava nella sua lezione sindacale- il pessimismo di una certa critica di sinistra, come nel caso americano di Baran e Sweezy – economisti di vocazione marxista – essendo convinto che si potesse operare all’interno del regime capitalistico per correggerne le tendenze economicamente e socialmente contrastanti con gli obiettivi della piena occupazione e della giustizia sociale. Al pessimismo bisognava reagire rifacendosi a ciò che c’è di valido nel pensiero di Keynes e di Beveridge - al quale si riferisce nel suo saggio “In difesa del welfare state”. In fondo, afferma, il pensiero di Keynes è ispirato all’ipotesi di “un capitalismo intelligente”. Anche se, commentava, a noi è capitato quello meno intelligente.
In effetti, la politica concreta di quegli anni era per lui un motivo di profonda delusione. Terminando la sua lezione ai quadri sindacali della CGIL concludeva con amarezza: “Tutto questo dire che il mercato risolve i problemi, ci riporta esattamente alla situazione degli anni Trenta. Questa è la conclusione piuttosto sconfortante con la quale io concludo”.
E’ passato un quarto di secolo dalla scomparsa di Caffè, ma il suo pensiero critico può esserci ancora di ammonimento e di aiuto nell’interpretare le idee e le forze che si muovono nella crisi dei nostri giorni. Idee fondate, da un lato, sull’austerità, una politica, come dicono gli economisti, pro-ciclica nel mezzo della recessione, il cui unico risultato non può che essere l’aggravamento della disoccupazione nella quale è coinvolta un’intera generazione. Dall’altro lato, le cosiddette “riforme strutturali” che corrodono in profondità i diritti dei lavoratori e quel Welfare state, che Caffè difendeva, sia sul piano della dottrina economica che sulla base di un’etica sociale inscindibile dalla democrazia.
Non credo che sia capitato a molti altri economisti o intellettuali di svolgere un ruolo altrettanto significativo, appassionato e sincero nella difesa della dignità del lavoro e del ruolo del sindacato.
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* Testo tratto dal volume “La dignità del lavoro”, curato da Giuseppe Amari (Castelnuovo, gennaio 2014) , in occasione del venticinquesimo dalla scomparsa di Federico Caffè, con introduzioni del sottoscritto e di Claudio Gnesutta.
* Il gruppo di riferimento al quale fecero capo le pubblicazioni ora ripubblicate si caratterizzò per una composizione sindacale unitaria. Da un lato, militanti della CGIL, provenienti dall'esperienza socialista che prima nel PSI poi nel PSIUP aveva fatto capo a Lelio Basso e Vittorio Foa, e che dettero luogo alla fine degli anni ’70 alla “Terza componente” della CGIL, autonomia rispetto alle due correnti storiche, comunista e socialista, della CGIL. Dall’altra, gruppi di dirigenti e militanti della CISL e UIL, politicamente legati alle esperienze della “nuova sinistra” e ispirata a una linea di autonomia e unità sindacale.
*** Intervento alla Tavola rotonda su “Contratti e occupazione” con la partecipazione di N. Cacace,M. D’Antonio,L. Frey, P. Leon, a. Lettieri, F. Vianello, in Sinistra 78, ottobre 1978).