Federico Caffè, in difesa del sindacato

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Tstimonianza resa in occasione del Convegno organizzato dalla Facoltà di Economia dell' Università "La Sapienza" (Roma) in ricordo del 25° anniversario della scomparsa di Federico Caffé.

I miei rapporti con Federico Caffè risalgono agli anni Settanta. Non avevo avuto il privilegio di essere un suo allievo, provenendo dall’Università di Napoli. Lavoravo al sindacato . Dopo i successi dell’autunno caldo, gli anni ‘70 si erano fatti sempre più difficili. Il petrolio e le questioni monetarie erano diventati fonte di inflazione che in parte prosciugava il salario reale, in parte spingeva la Banca d’Italia diretta da Guido Carli a misure deflazionistiche.

Mi occupavo della contrattazione dei metalmeccanici, allora riuniti nella FLM, ma non si poteva fare a meno di inquadrare la contrattazione nello scenario della politica economica. Leggevo gli scritti di Caffè. Un giorno decidemmo con Valentino Parlato, direttore del Manifesto, di andarlo a trovare per parlarne con lui e chiedere cosa ne pensasse. Scoprii che era molto più interessato alle vicende sindacali di quanto non supponessi. Mi pose, infatti, molte questioni. Dissi che sarei tornato a trovarlo. Ebbe così Inizio una consuetudine di incontri sempre più frequenti. Io avevo preso l’abitudine di memorizzare una serie di domande: sugli andamenti dei cambi, l’inflazione, la deflazione. Scoprii che era non solo era interessato all’attività del sindacato, ma ne seguiva da vicino il dibattito, le piattaforme, i modelli conflittuali.

Il discorso cadeva spesso sul welfare. C’era un libro che era molto discusso non solo a livello accademico, ma anche nella sinistra. Era “La crisi fiscale dello Stato” di James O’Connor, tradotto e pubblicato in Italia con la sua introduzione dalla “Einaudi” nel 1997. La crisi fiscale significava la necessità di comprimere lo stato sociale? Gli attacchi al welfare provenivano da destra, ma anche da sinistra. Il libro di O’Connor sollevava  forti dubbi sulla possibilità di continuare a finanziare lo stato del benessere.

La posizione di Caffè, negli anni successivi ampiamente elaborata nel saggio intitolato “In difesa del welfare”, richiamava i classici della teoria del benessere, da Pigou a Beveridge, per concludersi, come Caffè era solito fare, con una sintesi che si incideva nella mente e diventava una linea-guida della riflessione politica: “In Italia il problema non è quello della riduzione dello stato sociale, ma del suo completamento”.

La discussione tornava come un leit motiv sulla disoccupazione. Quella giovanile, in particolare, l’avvertiva come un problema non solo economico ma morale. Credo di non esagerare dicendo che se ne affliggeva. Conosceva bene i giovani che faticavano a trovare un’occupazione. Ma non accettava che la questione fosse posta nei termini una scarsa formazione, come sostenevano quelli che potremmo definire i teorici dell’offerta.

Non si poteva fare affidamento solo sul mercato del lavoro. Sosteneva che in una fase di grande disagio lo Stato doveva diventare “l’occupatore di ultima istanza”. Una tesi difficile da far entrare nella politica italiana. Secondo l’opinione dominante,  compresa la sinistra ortodossa, non c’erano soldi per creare occupazione, facendo scavare keynesianamente buche. Caffè, come molti che l’hanno frequentato ricordano, rispondeva con le sue espressioni folgoranti, che non c’era affatto bisogno di scavare buche giacché ce n’erano tante che aspettavano di essere colmate. Si trattava dei lavori infrastrutturali e di pubblica utilità che risalivano al New Deal di Franklin Roosevelt, che altri paesi praticavano in Europa, e che la FLM rilanciò in Italia, con un certo successo iniziale, ma che le amministrazioni locali non riuscirono a far funzionare, e la politica convenzionale contribuì a squalificare.

I nostri rapporti erano diventati sempre più frequenti. Quando potevo, lo andavo a trovare nella sua stanza al quinto piano di Castro Laurenziano. Ma mi accorsi che spesso arrivavo in ore inopportune, quando aveva finito la lezione e dietro la porta del suo piccolo studio si formava una fila di studenti. Lui aveva dato disposizione di farmi passare, ma io affrettavo la visita per non intralciare i colloqui con gli studenti. Poiché sapevo che era all’Istituto anche il sabato, stabilimmo che ci saremmo visti il sabato pomeriggio. Non c’era nessuno o quasi, ed ero completamente a mio agio. Ma successe una cosa curiosa. Gli ascensori sabato pomeriggio non funzionavano, o più precisamente qualcuno funzionava, ma per utilizzarlo bisognava avere la chiave. Io salivo piedi - allora senza problemi. Ma Caffè non voleva. M’impose di telefonare quando arrivavo nell’atrio e lui scendeva a prelevarmi. Trascorrevamo qualche ora tranquilla; poi a metà del pomeriggio proponevo di accompagnarlo in macchina verso casa. Quando era solo, utilizzava i mezzi pubblici in un tragitto piuttosto lungo verso Monte Mario.

Qualche volta ci fermavamo a casa mia a prendere un tè. Mio figlio era piccolo e talvolta gli portava un libro che riteneva adatto alla sua età o per quando sarebbe cresciuto. Altre volte lo accompagnavo direttamente in via Cadlolo, ma fermandoci prima a prendere il tè a piazza Medaglie d’oro. In questi tragitti e pause del tè i discorsi economici e sindacali erano banditi e lasciavano il posto alle letture, ai romanzi, alla musica. Ricordo che mi raccomandò vivamente di leggere “I Viceré” di De Ruggero, oltre ai consigli di musica classica.

Il rapporto con le vicende del sindacato ebbe un momento particolare alla fine degli anni 70. Stavamo negoziando il rinnovo del contratto dei metalmeccanici. Era la primavera del 1979 e il negoziato dopo tre mesi era totalmente bloccato. Alla FLM, decidemmo di indire 18 ore di sciopero articolato che i Consigli di fabbrica avrebbero gestito autonomamente fabbrica per fabbrica. Erano passate poche ore dalla proclamazione dello sciopero, quando la Federmeccanica ci fece pervenire una citazione in giudizio diretta ai segretari generali che intimava il ritiro dello sciopero nelle sue modalità “articolate” - che era ormai da un decennio, dopo l’autunno caldo del 1969, il modo ordinario di scioperare. La Federmeccanica minacciava, in caso contrario, di portare in giudizio, chiedendo i danni, Fiom, FIM e UILM, le tre organizzazioni che componevano la FLM.

La prima reazione fu di indire un’iniziativa pubblica, chiamando in difesa della nostra posizione una serie di giuristi. Ero convinto che la mossa della Federmeccanica andasse inquadrata in un’offensiva più generale contro il sindacato, che coinvolgeva il quadro economico, culturale e politico maturato in quegli anni. Per cui valeva ala pena di coinvolgere un gruppo di economisti oltre ai giuristi. Era ovvio che tra i nomi proposti ci fosse Caffè. Quando glielo chiesi, superando un primo momento di riserbo, accettò. Il convegno fu organizzato in pochi giorni. Dopo una prima relazione introduttiva che tenni a nome della segreteria FLM, la relazione generale fu svolta da Caffè, e divenne il filo conduttore del convegno, al quale parteciparono una schiera di economisti (mi piace ricordare, fra gli altri, Nando Vianello) e molti autorevoli giuristi, come Pietro Rescigno e Giorgio Gherzzi.

Mi piace ricordare l’incipit del discorso di Caffè: “L’intento di ciò che cercherò di dire, forse con concisione eccessiva è che alcune posizioni neo-liberiste, neo-austriache, neo-quantitavistiche e così via non costituiscono posizioni culturalmente avanzate o comunque valide, ma sono espressione di battaglie di retroguardia”. Era un segno di controffensiva culturale e politica che affrancava il convegno dal rischio di una posizione puramente difensiva e subalterna.

Non ho potuto non tornare a questo incipit leggendo un recente saggio di Garton Ash molto critico nei confronti dell’attuale politica del governo tedesco e delle autorità di Bruxelles. Scriveva Garton Ash che, mentre l’euro rischia di crollare “a Berlino Wolfgang Schäuble predica tuttora la buona novella dell’ordoliberalismo come se si trattasse della verità rivelata”. Credo che Caffè si sarebbe compiaciuto della posizione di Garton Hash che, senza essere un economista, è un intellettuale inglese ben informato e dotato di spirito critico.

Nella sua relazione Caffè affermò che l’iniziativa non voleva essere una difesa d’ufficio del sindacato.“Occorrerà ancora molto tempo – disse – perché al di là delle polemiche contingenti si comprenda in pieno il ruolo fondamentale che le masse operaie organizzate svolgono attualmente a potente sostegno delle istituzioni democratiche in tempi difficili”. Era il tempo del terrorismo. Le lotte operaie per Caffè erano un segno di vitalità della democrazia, e non potevano essere portate in tribunale in quella che definì “una squallida vicenda giudiziaria”.

Il contratto dei metalmeccanici si concluse con un buon successo, e la denuncia della Federmeccanica fu ritirata. Caffè continuò a essere per il movimento sindacale una presenza costante in quegli anni difficili, e fu un testimone preoccupato e, al tempo stesso, attivo nella triste vicenda della rottura sindacale, dopo l’intervento sulla scala mobile varato con un decreto legge dal governo Craxi nella primavera del 1984. Le tre confederazioni riconoscevano in Caffè un’autorevolezza non solo accademica ma morale di fronte alla quale si mostrarono, non ostante l’asprezza dello scontro, disponibili a riprendere il dialogo, come accadde in un importante convegno unitario della fine di quell’anno.

Non credo che sia capitato a molti altri economisti o intellettuali di svolgere un ruolo altrettanto significativo, appassionato, sincero nei confronti del sindacato.

E’ passato un quarto di secolo, ma il maestro continua a mancare a molti di noi. Nel mezzo della più grave crisi, come si afferma, dopo gli anni Trenta, i governi sembrano non aver imparato molto. Si parla e si pratica l’austerità: una politica, come dicono gli economisti, pro-ciclica nel mezzo della recessione, il cui unico risultato non può che essere l’aggravamento della disoccupazione nella quale è coinvolta un’intera generazione. Al tempo stesso, le c.d. riforme strutturali corrodono in profondità i diritti dei lavoratori e il welfare state che Caffè volle sempre difendere, sia sul piano della dottrina economica che sulla base di un’etica sociale inscindibile dalla democrazia.

Concludendo la sua relazione del 1979, Caffè aveva citato John Galbraith, che lamentava il tentativo in corso in America di cercare di curare la crisi degli anni '70 con la dissoluzione del sindacato. In America l’opera è stata sostanzialmente compiuta, se consideriamo che nel settore privato la copertura dei sindacati e della contrattazione collettiva è ridotta intorno al sette per cento degli occupati. Ora, nel mezzo della crisi, assistiamo a un assalto al sindacato da parte delle autorià europee attraverso la disastrosa combinazione di "austrità e riforme strutturali" che mentre aggravano la crisi, lacerano il tessuto sociale e mettono a repentaglio la democrazia.

Possiamo immaginare che Federico Caffè avrebbe guardato con tristezza e insieme con una posizione chiara e illuminante a questa deriva. Il suo giudizio e i suoi suggerimenti ci sarebbero stati ancora una volta di aiuto. E non può stupire che la sua scomparsa continui ad apparirci innaturale e, pure a tanti anni di distanza, fonte di grande rammarico.