Essere realisti, lottare per la pace

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Nel mondo occidentale un’ampia area chiedeche si cambi strada e si lavori per la pace. Ma come?

 prezzo che Gran Bretagna e Francia, alla fine della Prima Guerra Mondiale, hanno imposto con il trattato di Versailles agli sconfitti, soprattutto alla Germania, è stato ritenuto in sede di ricostruzione storica un errore, che ha avuto il suo peso nel determinare la crisi sociale e politica della Repubblica di Weimar. Crisi su cui si è innestata la presa del potere da parte dei nazionalsocialisti.

Di questa valutazione nessuno si è mai sognato di pensare che potesse essere un modo per attenuare, o addirittura giustificare, gli orrori del nazismo. È stata piuttosto di insegnamento, alla caduta del nazifascismo, nel momento in cui si chiudevano i conti con le nazioni che si erano rese responsabili degli orrori che sappiamo. La storia precedente era stata maestra.

La Germania è stata divisa e ha subito una limitazione di sovranità, un prezzo che in altra forma e con diversi sviluppi è stato pagato anche dall’Italia e dal Giappone: tuttavia non possono esservi dubbi sul fatto che il trattamento non è paragonabile a quello riservato alla stessa Germania, all’Austria e all’Ungheria nel 1918. La nascita dell’ONU e il varo della Dichiarazione Universale stavano a segnare un’idea di assetto mondiale ben diversa rispetto al precedente dopoguerra.

Oggi molti studiosi, della storia contemporanea e delle dinamiche geopolitiche, convergono su un giudizio critico attorno al modo in cui, alla conclusione della guerra fredda, è stato impostato il rapporto con gli stati dell’ex Unione Sovietica e in particolare con la Russia. Al centro delle analisi critiche vi sono le scelte delle amministrazioni che si sono susseguite alla guida degli USA quanto all’aspirazione a svolgere un ruolo egemonico, come potenza economica e militare, in un mondo che ritenevano tendesse a un assetto unipolare. Il rapporto con la Russia ha occupato in questa visione un posto centrale, non tanto per la sua dimensione economica quanto per il fatto di essere l’unica potenza che disponeva di un arsenale nucleare paragonabile a quello USA.

A differenza del precedente che ho richiamato all’inizio, queste valutazioni non sono state accolte come un monito, non hanno inciso sulle scelte. E ora che ci si trova difronte alla tragedia ucraina e agli orrori che stanno costellando l’invasione da parte della Russia di uno Stato sovrano confinante, chi osa richiamarle è accusato di condiscendenza, se non di complicità, verso quegli atti criminali. Il fatto che la guerra sia stata decisa e mossa da Putin significa che era sua intenzione farla. Il fatto che la guerra sia in corso significa che l’unica prospettiva perché non si concluda con una resa di chi subisce l’invasione è che l’invasore sia sconfitto. Se le cose stanno in questo spazio angusto, in cui la libertà di scelta tra alternative è esclusa, a che pro riandare alla storia di trenta e più anni fa? Si fa solo il gioco del macellaio criminale.

Un’ampia parte del mondo, pur non appoggiando l’invasione, non accetta questo assunto. Che, nel cosiddetto mondo occidentale, è condiviso da tutti i governi, uniti nell’agire in base ad automatismi derivati dal postulato privo di alternative che ho sintetizzato: più sanzioni per fiaccare l’aggressore, più armi per aumentare la capacità di reazione dell’aggredito, pronti a una escalation se l’aggressore alza il livello dell’offensiva. Come andrà a finire? Non si sa, ma non si può fare altro.

Anche nel mondo occidentale però i popoli, gli uomini e le donne che assistono a questi eventi – e ne subiscono le conseguenze – non sono molto convinti del postulato: un’ampia area reagisce chiedendo che si cambi strada e si lavori per la pace. Ma come?

Se la persona che in questo momento occupa il vertice della maggiore potenza mondiale (o quanto meno di quella che ambisce o presume di esserlo), Joe Biden, l’”anziano del villaggio” globale, avvertisse la responsabilità di rappresentare non solo i suoi (potenziali) elettori ma il futuro dei suoi simili, dovrebbe passare il suo tempo ad arrovellarsi sulla risposta a questa domanda.

Forse è troppo pretendere che abbia le qualità, oggi rare a vedersi, di visione lungimirante di un altro “anziano del villaggio” come Bergoglio, che stigmatizza la guerra in corso come una pazzia, non avendo né divisioni corazzate da convertire al peacekeeping né testate nucleari da smantellare. Ci si dovrebbe però aspettare da lui e dalla sua schiera di consiglieri almeno l’ambizione di dimostrarsi davvero leader a livello globale e non guardiani e tutori, passivi, di interessi distruttivi.

Tra l’altro, se drizzasse le orecchie per cogliere le voci, forse troppo poco stentoree, del coro, forse ancora troppo sguarnito, di chi persegue la pace come obiettivo che davvero non ha alternative, troverebbe qualche idea di soluzione di una certa corposità. Dovrebbe però alzare lo sguardo verso un orizzonte più lontano e più alto. O, magari, ripercorrere l’elenco delle motivazioni in base a cui è stato assegnato qualche recente premio Nobel per la pace.

Provate a immaginare un Presidente USA che una mattina parlasse alla sua nazione e al mondo dicendosi disposto ad aprire una trattativa, nel momento in cui Putin arrestasse le sue armate, non solo per assicurare uno status internazionalmente garantito alla neutralità e all’integrità territoriale dell’Ucraina e all’autodeterminazione del suo popolo, ma per lavorare a una revisione profonda dello statuto dell’ONU in direzione di un suo potere di interdizione e di sanzione effettivo e – udite, udite – allo smantellamento contestuale, sotto il controllo dell’ONU, di tutti gli arsenali nucleari. Una prospettiva che – va da sé – renderebbe qualunque alleanza militare superflua, anzi alternativa e incompatibile con il ruolo dell’ONU. Che lo facesse spontaneamente, per primo, senza aspettare mosse altrui, sfidando tutti gli attori globali, a partire da Putin, a dare una risposta impegnativa.

Non so se sbaglio, ma ho l’impressione che un coro di commenti, di gente che conta, di seguaci del postulato senza alternative, bollerebbe questa idea come pura utopia, illusione infantile. Eppure, a ben vedere, poiché si tratta di immaginare un gesto autonomo, non soggetto ad alcuna condizione esterna, che porrebbe ogni altro interlocutore nella condizione di dover accettare la sfida o, altrimenti, andare contro il sentire delle grandi masse, considerarla pura utopia ha un significato che il bimbo della favola del re nudo coglierebbe con chiarezza. Siamo nelle mani di re, a partire da quello della nazione più potente, che non hanno uno straccio di idea su come garantire un futuro accettabile per l’umanità di cui si ergono a guida. Per questo non sono portatori neanche di una qualche idea per porre fine all’attuale massacro di un popolo fermando chi ne è responsabile, se non una sua continuazione, e probabile estensione, fino alla vittoria di uno dei contendenti senza alcuna possibilità di prevederne la durata e le conseguenze.

Eppure, ai ciechi si dà la patente di realisti e a chi vede lontano di visionari.

Giovanni Principe

Past senior researcher at ISAE (Istituto di Studi e Analisi Economiche) and Director General at ISFOL (Istituto Studi Formazione Orientamento Lavoratori) - From 1984 to 2002 member of the National Board of Direction in CGIL.