Elezioni-un’occasione per “normalizzare” il sistema
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In una quadro internazionale connotato da pericolosi squilibri, la periferica Italia si aggrappa acriticamente a un’Europa schiacciata, nelle sue istanze di governo brussellesi, sulle posizioni nordamericane. Il Partito Democratico, a meno di vent'anni dalla sua fondazione, mostra oggi tutte le sue rughe e le sue magagne. Nato sulla spinta di una cultura ”globalista”, in cui il progresso si identificava innanzi tutto con la perentoria rivendicazione e la difesa delle libertà e dei diritti individuali, rifiutando cioè i “vecchi” concetti identitari sia nazionali che ideologici, il partito che voleva unire i progressismi (quello cristiano e quello socialista sopra gli altri) in un prospettiva di “fine della storia” , nel corso degli anni ha dovuto fare i conti con la povertà di questa teoria di sviluppo unidirezionale, fatalmente egemonizzata da un’unica potenza (gli USA) e da un’unica cultura. Le contraddizioni, apparentemente esorcizzate da un veltroniano ottimismo di maniera, col tempo si sono rivelate in tutta la loro evidenza, trasformando in buona sostanza il PD in un mero aggregato di forze applicate al governo dell’esistente, accettato come ineluttabile e definitivo e appena celato da una coperta valoriale sempre più sbiadita. L’ “Astuzia della Ragione” tuttavia non perdona: sul piano globale, la caduta di Eltsin, che tanto aveva ben operato in Russia a vantaggio del sistema capitalistico occidentale guidato dagli USA, ha aperto la strada al “populismo zarista” di Putin, che ha il suo punto di forza nella riscoperta identità nazionale del popolo russo. Nel resto del mondo, il processo di istituzionalizzazione/integrazione dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) che rappresentano il 42% del popolazione mondiale e il 25% circa della ricchezza, ha condotto a nuovi equilibri nei rapporti tra le potenze mondiali. Gli USA, padroni assoluti del campo negli anni ’90 e nel primo decennio del XXI secolo, risentono oggi di un evidente declino di egemonia all'esterno e di una profonda crisi interna, con squilibri sempre più marcati sia tra le classi sociali che sul territorio, come testimonia l’imprevista (!) ascesa del “populista” Trump, erede delle tradizionali politiche isolazioniste del Great Old Party. Gli Stati Uniti si trovano quindi nella necessità di combattere con l’unica terribile primazia che ancora indiscutibilmente esercitano, ovvero quella che deriva dall'apparato militare-industriale, di cui, da sempre, i democratici “progressisti” sono stati tra i paladini politici. In una quadro internazionale tanto mutato e ricco di pericolosi squilibri, la periferica Italia si aggrappa acriticamente a un’Europa imbelle e schiacciata, nelle sue istanze di governo brussellesi, sulle posizioni nordamericane. Il PD, partito ipereuropeista, incapace tuttavia di uscire dagli slogan e di prefigurare un realistico processo di integrazione europeo secondo un preciso modello (federazione? confederazione?) è diventato sempre di più la faccia “politica” delle classi e dei gruppi che gestiscono il potere, sia a livello nazionale che locale, sulla base di un generale-generico “progressismo”, fatto di politically correct, di luoghi comuni sulla modernità, di bon ton, ma senza radici nel corpo autentico dei bisogni sociali. Di qui le ondate di insoddisfazione profonda, sfociate nel sempre più accentuato assenteismo dalle urne (soprattutto tra le nuove generazioni) oppure nella impetuosa ascesa di movimenti “populisti”, trattati con grande disprezzo dalle cosiddette elites senza però che ad essi si sia mai risposto in termini concreti di programmi di contrasto, ad esempio, alle crescenti diseguaglianze. Il declino del PD e delle coalizioni di cui è stato magna pars, è evidente. Debole nelle elezioni nazionali, più solido in quelle locali (et pour cause! D’Alema, una generazione fa, ne parlò come di “un accampamento di cacicchi”) è riuscito a mantenersi al potere con successive “chiamate alle armi” per il bene della Nazione. Ci riuscirà anche stavolta? Non credo. Il tono apodittico e apocalittico scelto per la campagna elettorale da Enrico Letta (nero-rosso, o noi o loro), assunto senza avere alle spalle una situazione che lo potesse sostenere (altra cosa sarebbe stata se si fosse lavorato seriamente a un’alleanza strategica tra M5S e PD), la richiesta di votare “almeno” per contenere la vittoria dell’avversario, demonizzato come “sicuro autore di una torsione autoritaria”), la ripetizione trita di formule e di temi eterogenei (scuola, sanità, lavoro, diritti civili) a cui non si è data mai una soluzione concreta (e qui il M5S ha ragione di dire che, per quanto opinabili siano, è stato l’unica forza che ha condotto in porto alcune riforme importanti che si era prefisso, la diminuzione del numero dei parlamentari, il reddito di cittadinanza, il superbonus edilizio), potrebbero condurre a una cocente sconfitta. Se così sarà, i nodi di cui si diceva all’inizio non potranno non giungere al pettine. E allora potrebbe aprirsi uno scenario di “normalizzazione”, con l’implosione del PD così come è oggi (già dieci anni fa Giorgio Gori, allora spin doctor di Matteo Renzi, riteneva il PD “irriformabile”) e il ripristino, senza più illusioni irenistiche, del necessario conflitto democratico tra idee culturali e politiche diverse e opposte; in tal modo la situazione italiana si assimilerebbe a quella di altri paesi europei e occidentali e potrebbe far emergere: Si introdurrebbero elementi di chiarezza, che forse porterebbero a far rinascere il Grande Assente di questi ultimi anni, ovvero il Partito Politico, senza il quale si è visto che il sistema democratico tende a polarizzarsi attorno a figure leaderistiche, non sempre all'altezza del compito e dei tempi. Claudio Salone
Professor of ancient literatures, Rome - https://claudiosalone39.wordpress.com/ |