Economia e cambiamenti strutturali nel tessuto produttivo
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La tendenza di lungo periodo è lo spostamento dell’occupazione dall’industria ai servizi, sia tradizionali che di nuova generazione. Ma la crescita della produttività dipende, in larga misura, dal settore manifatturiero nel quale l'Italia conserva punte di eccellenza. Nel dibattito corrente su come rilanciare la crescita dell’economia italiana le ricette che circolano si basano prevalentemente sull’uso della leva monetaria e della leva fiscale, che sono entrambi classici strumenti di breve termine. E’ un po’ poco per pensare che un’economia in semi-stagnazione dall’ultimo decennio del secolo scorso automaticamente si metta in moto. La lunga crisi che stiamo vivendo è solo in parte congiunturale, essendo soprattutto figlia dei profondi cambiamenti strutturali avvenuti nel nostro sistema produttivo nel corso del tempo. Una vera strategia della crescita o, per meglio dire, dello sviluppo sostenibile deve allora avere un maggior respiro, puntando su politiche di medio-lungo periodo, che tengano conto dei mutamenti intervenuti nel tessuto economico e sociale del Paese. Un recente paper di Confindustria ci aiuta a capire l’evoluzione avvenuta a livello territoriale nel sistema industriale italiano dal 1971 al 2015 (Cristina Pensa, Fabrizio Traù L’articolazione territoriale della manifattura italiana. Sviluppo, diffusione, crisi, resilienza, CSC Working Paper). L’analisi si basa sulla dinamica dell’occupazione manifatturiera per macro-aree, regioni e province, desumibile dai Censimenti dell’industria 1971, 1981, 1991, 2001 e dalla banca dati Asia per il 2015. In quest’arco temporale è avvenuta una crescente articolazione territoriale nel sistema industriale italiano, passato dalla cesura Nord-Sud, che esauriva fino agli anni ’60 il dibattito sui divari territoriali, all’emergere di nuove traiettorie geografiche dello sviluppo. Fino ai primi anni ‘80 la crescita dell’occupazione appare generalizzata in tutta Italia. A partire dall’inizio degli anni ‘90 le cinque macro-aree cominciano invece a seguire percorsi differenti. L’occupazione manifatturiera inizia infatti a diminuire nel Nord Ovest, nel Centro e nel Sud Ovest, mentre continua a crescere, con intensità diverse, fino al 2001 lungo la direttrice adriatica (Nord Est e Sud Est). Nel 2015 il calo è generale e coinvolge, oltre alle aree occidentali, che continuano a flettere, anche quelle orientali. In valore assoluto, alla fine del periodo di osservazione, il Nord Ovest rimane l’area in cui maggiormente si concentra l’occupazione, seguito nell’ordine da Nord Est, Centro, Sud Ovest e Sud Est (quest’ultimi con una differenza trascurabile). Tuttavia il Nord Ovest è anche quello che sperimenta la caduta maggiore in termini relativi rispetto al 1981, fino a convergere in valore assoluto sul numero di addetti del Nord Est. Il nuovo secolo sancisce la fine del modello di sviluppo imperniato sull’industria manifatturiera, che fa da punto di aggregazione e da collante economico-sociale per i territori e che detta la direzione geografica della crescita, avvenuta lungo la direttrice Ovest-Est. Si entra ufficialmente nell’età della resilienza, nella quale le imprese si devono “adattare” per sopravvivere e non c’è più un asse territoriale dello sviluppo. Su queste tendenze di lungo periodo influiscono almeno tre fattori strutturali. Il primo è lo spostamento dell’occupazione dall’industria ai servizi, dovuto sia all’esternalizzazione di alcune funzioni prima interne all’industria (che in certi casi portano all’aumento del lavoro nero) sia allo sviluppo di nuove attività. I servizi alle imprese nel periodo compreso tra il 1991 e il 2001 riescono ad assorbire tutta l’occupazione in uscita dall’industria, creando a loro volta nuovi posti di lavoro. Ma nel periodo 2001-2015, dopo la grande crisi del 2008, il saldo occupazionale fra manifattura e servizi alle imprese diventa negativo quasi ovunque (vedi tabella). Il secondo fattore strutturale è la globalizzazione, responsabile di aver spiazzato una grossa fetta di produzione italiana di beni tradizionali, come quelle dell’abbigliamento e del sistema-casa, a favore dei Paesi emergenti. Con il conseguente fenomeno della delocalizzazione: sono molte le imprese industriali italiane di successo che trasferiscono all’estero una parte importante dell’occupazione per poter continuare a competere sui mercati internazionali. Il fenomeno presenta forti disparità territoriali, essendo rilevante nelle regioni più industrializzate e nel Lazio e quasi assente nel Meridione. Il terzo fattore infine è la grande recessione del 2008, che per l’Italia non si è ancora conclusa.
La realtà produttiva italiana appare oggi sempre più frammentata e meno legata rispetto al passato all’industria manifatturiera, che comunque rimane, come dimostrano gli avanzi commerciali con l’estero, il principale punto di forza del nostro sistema economico. Ne derivano importanti conseguenze. La prima è che la crescita non va cercata solo nella manifattura, ma anche in altri settori, come la ricerca di base e applicata, l’ambiente, il turismo, la valorizzazione dei beni culturali, la manutenzione delle città, i servizi alla persona. Con evidenti ricadute sulla produttività, che sarà più bassa rispetto a un modello di sviluppo trainato dalla manifattura, come dimostra il fatto che nel periodo 1995-2017 l’industria ha contribuito per circa tre quarti alla crescita della produttività del lavoro in Italia. Il che ovviamente pone dei problemi, in parte risolvibili aumentando l’efficienza anche al di fuori dell’industria, come raramente è stato fatto sinora. La seconda conseguenza è che muta l’identità sociale dei territori, con sistemi locali del lavoro che dipendono sempre meno dall’industria e, anzi, in molti casi risentono dell’impatto negativo costituito dalle tante crisi aziendali, che indistintamente – anche questo è un segnale del venir meno di una direttrice dello sviluppo – esplodono da Nord a Sud. Anche qui occorre porre la massima attenzione alle ricadute, evitando il degrado umano e ambientale e l’esclusione sociale attraverso iniziative pubbliche e private che salvaguardino la vivibilità dei territori disastrati da profonde crisi occupazionali. In questo contesto la politica economica è chiamata a rifocalizzarsi. Le misure di policy finora sono state disegnate quasi esclusivamente sull’industria. In molti casi – vedi Industria 4.0 - andranno proseguite, perché il manifatturiero continua ad avere settori di grande eccellenza - come la meccanica, il sistema-moda, l’agroalimentare - che non vanno certo abbandonati. Occorrerà però assegnare maggior spazio, all’interno delle risorse disponibili, a interventi dedicati al capitale umano, alla ricerca, all’ambiente, al turismo, ai beni culturali, alle città, ai servizi alla persona. Se i privati non investiranno abbastanza, lo dovrà fare il pubblico in maniera efficiente ed efficace. Obiettivi che intendono inaugurare una nuova stagione della crescita sono inseriti nel programma dell’attuale governo, come annunciato da Conte nel suo discorso di insediamento alla Camera. Un programma molto vasto e ambizioso, che però ha il difetto di non indicare le priorità effettive che l’azione di governo si prefigge. Occorrerà quindi vedere, a partire dalla prossima legge di bilancio, quali misure concrete, e con quante risorse, si vorranno adottare. Una profonda riflessione occorrerà fare anche sulla politica territoriale e sul rapporto tra Stato e regioni, essendo ormai venuti a mancare quegli assi dello sviluppo territoriale che avevano tenuto fino alla crisi del 2008. L’abbandono, almeno per ora, del regionalismo differenziato caro alla Lega non significa che possa essere ignorato il problema di come incidere, e di chi lo debba fare, su realtà territoriali sempre meno omogenee e sempre più composite. Attilio Pasetto
Economics analist Insight - Free thinking for global social progress
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