Diritto del lavoro - viaggio all’indietro
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Una riflessione ricordando Massimo D’Antona. Ciò che manca è prima di tutto il lavoro ed è per questo che si afferma una linea per cui lo scandalo del non-lavoro rende attraente anche il lavoro più scandalosamente sfruttato. L’opera omnia di Massimo D’Antona si compone di una monografia (1979) ed una vastissima saggistica. Compresi quelli cosiddetti minori, gli scritti sono alcune centinaia: il primo è pubblicato nel 1972, l’ultimo pochi mesi dopo la scomparsa dell’autore. Nel 1999. Nel 2000, l’intelligente riordino sistematico che ne hanno effettuato Bruno Caruso e Silvana Sciarra ha consigliato di riprodurli in sette volumi, ciascuno dei quali consta mediamente di circa 400 pagine. Nell’ora delle celebrazioni del ventennale della morte di questo giurista-scrittore, mi ha assalito un dubbio angoscioso:non si scrive così tanto in così poco tempo se non si ha il presentimento che il desino impedirà di produrre tutto quello che è consentito ad una maturità di pensiero raggiunta più in fretta del solito. Naturalmente, si può non condividere un dubbio del genere. In ogni caso, è sicuro che, scomparso prestissimo, Massimo ci ha dato moltissimo. Un giurista sensibile, colto e raffinato come lui non poteva non percepire l’obbligo di misurarsi con la questione del metodo che, con la consueta eleganza espressiva, a suo avviso consisterebbe in un’anomalia post-positivista. Una questione che si profila nel momento stesso in cui l’incontro del lavoro col diritto cambia segno nella misura in cui la dimensione produttivistica e di mercato annulla la concezione secondo la quale – come scrive Karl Polanyi – “il lavoro era soltanto un altro nome per designare un’attività umana che si accompagna alla vita stessa, che non è prodotta per essere venduta”. Nell’età pre-industriale, il lavoro non s’incontrava col diritto se non confondendosi con la povertà laboriosa, essendone gratificato da un’attenzione caritatevole. Con l’avvento del capitalismo industriale il lavoro entra in contatto col diritto in ragione della sua attitudine ad essere mercificato. Infatti, finché la fonte regolativa del rapporto di lavoro è stata l’autonomia negoziale privato-individuale, si era ancora nella preistoria. Per uscirne del tutto non bastò nemmeno il dispiegarsi dell’autonomia negoziale privato-collettiva. Come dire: con l’industrializzazione le cose si sono messe in modo che il diritto che dal lavoro prende il nome non possa più restare la provincia minore dell’impero del diritto privato codificato e difatti, ribellandosi ai paradigmi disciplinari che ne facevano una pertinenza del diritto civile, si staccherà dal territorio originario per situarsi in un luogo senza identità. Un’identità che non era predefinita né forse si smetterà mai di definire, perché il diritto del lavoro è un non-luogo cui non è bastato un secolo di storia per trovare la collocazione più appropriata nello statuto epistemico delle scienze sociali. Per ottenerla, bisogna smuovere i sedimenti di acque profonde. Il che può far male. Provoca infatti un certo disagio che la dislocazione scientifico-culturale del diritto del lavoro dipenda fondamentalmente dalla vischiosità di un’organizzazione accademica del sapere che, innalzando steccati dove si dovrebbero scavare canali di collegamento, attribuisce primati a monoculture autoreferenziali. Del pari, crea un certo disagio la circostanza che soltanto il fascismo giuridico abbia tentato di modificare gli scenari. Senza riuscirci, e anzi peggiorando la situazione. Adesso, il lavoro non è di fronte al ritrarsi del diritto. La deregolazione di cui è attualmente oggetto non significa una minore quantità di regole giuridiche: “significa”, ha scritto Stefano Rodotà, “meno regole di provenienza pubblica”. Significa più libertà di auto-determinazione a livello individuale e meno controllo della legalità da parte dei poteri dello Stato, incluso quello giurisdizionale. Pertanto, il lavoro ritorna alle origini. Come se il suo codice genetico rifiutasse l’innesto del diritto. Se uno dei nostri antenati potesse tornare qui, scapperebbe via subito. Vedrebbe che in giro c’è ancora tanta povertà, di cui noterebbe che è più sfiduciata che laboriosa, soprattutto nelle fasce d‘età giovanile, perché ciò che manca è prima di tutto il lavoro ed è per questo che si afferma una linea di politica del diritto per cui lo scandalo del non-lavoro rende attraente anche il lavoro più scandalosamente sfruttato. In effetti, proprio nell’area geo-politica d’elezione, cioè in Europa, il diritto del lavoro è diventato lo specchio di società in cui il lavoro non si presta più a sostenere i progetti esistenziali dei comuni mortali e dunque è uno dei segni meno controvertibili della crisi delle democrazie di massa del Vecchio Continente. Come è naturale, un’alternativa così secca e brutale è priva di testuali riscontri nei documenti giuridici elaborati negli organismi comunitari. Ciononostante, sta influenzando gli orientamenti della giurisprudenza della Corte di giustizia e fa sentire la sua presenza nella revisione dei diritti nazionali del lavoro nei paesi europei. Essa è riconducibile ad una specie di darwinismo normativo che premia il sistema giuridico più competitivo. Infatti, come all’interno dei singoli Stati membri dell’UE gli imprenditori hanno la libertà di scegliere nel mazzo dei tipi contrattuali in cui è deducibile una prestazione lavorativa quello più redditizio, così a livello globale le imprese globalizzate possono scegliere le regole nazionali più permissive. Certo, la revisione dei diritti nazionali del lavoro procede adagio, a strappi, in maniera intermittente. Ovvero, con la cautela necessaria per soddisfare non solo l’esigenza del “politicamente corretto”, ma anche la richiesta del tempo dell’adattamento che i comuni mortali non smettono di rivolgere ai detentori del potere di decidere la loro sorte. E’ anche il tempo delle bugie. Eccone un esempio probante e recente. Per superare le resistenze al massacro dell’art. 18 che aveva in agenda, il governo Monti firmò una cambiale che sapeva di non poter onorare. La sua riforma esordisce qualificando espressamente come “dominante” il contratto istitutivo di rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Dunque, la legge si apre con un fraseggio che enfatizza in netta contro-tendenza il ruolo di un contratto che, viceversa, ha perduto l’originaria centralità. Bisognerebbe domandarsi perché, dal momento che il modello prevalente dell’organizzazione produttiva nel post-fordismo finirà per imporre il “numero chiuso” dei contratti di lavoro a tempo indeterminato. Umberto Romagnoli
Umberto Romagnoli, già professore di Diritto del Lavoro presso l'Università di Bologna. Membro dell'Editorial Board di Insight. Insight - Free thinking for global social progress
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