Sottotitolo:
L'Unione europea fu all'origine concepita come un grande processo di riconciliazione tra la Francia e la Germania, e divenne un fecondo terreno di unificazione del continente. Le politiche fallimentari del dopo-crisi hanno interrotto il percorso e aperto nuove fratture
L’Europa di Le Goff
All’inizio di aprile se n’è andato Jacques Le Goff. Il grande storico francese che ha contribuito a cambiare la prospettiva del Medio evo. “Le Goff ha esplorato il Medioevo nei suoi aspetti più trascurati – ha scritto Umberto Eco – la vita degli intellettuali e dei mercanti, o il meraviglioso e il quotidiano”. Eco aggiunge che Le Goff “partecipava attivamente alla vita politica del suo tempo, anche se non appariva schierato con gruppi riconoscibili”.
Sotto questo profilo vale la pena di ricordare come il grande studioso delle radici culturali dell’Europa giudicava la politica europea dei giorni nostri. “La globalizzazione - scriveva Le Goff - ha creato due grandi centri di potere che si confrontano: gli Stati Uniti e la Cina. Occorre salvaguardare l’esistenza di un terzo spazio forte per i suoi valori, la sua energia, la sua ricchezza: l’Europa”. E scriveva anche: “Dal punto di vista politico occorre perseguire l’Europa possibile che – dal punto di vista storico – è l’Europa delle nazioni (ciò che consente di difendere la nostra cultura, la nostra politica, la nostra economia), mentre sarei prudente sull’idea di un’Europa federale. Io credo che si possa conservare la sovranità degli stati, attribuendo al Parlamento europeo un ruolo importante, che passi attraverso il voto dei cittadini europei”.
Una visione che oggi può apparire eterodossa, in contraddizione con la retorica federalista che vorrebbe gli Stati Uniti d’Europa. In effetti, una visione profondamente radicata nella tradizione politica francese, basata su un’idea di cooperazione fortemente istituzionalizzata, ma non per questo diretta a cancellare l’esistenza degli stati nazionali.
La riconciliazione
Erano ancora fumanti le macerie della seconda guerra mondiale, quando l’élite politica francese maturò il progetto di un futuro dell’Europa fondato sulla cooperazione e la pace, alla cui base vi doveva essere un indissolubile patto di amicizia e collaborazione con la Germania. Affermava Robert Schuman, ministro degli esteri e capo del governo francese a cavallo degli anni 50: “L'unione delle nazioni esige l'eliminazione del contrasto secolare tra la Francia e la Germania”. Era il rovesciamento della sciagurata posizione assunta dalla Francia dopo la prima guerra mondiale, quando aveva insistito, non ostante le riserve britanniche, sulla linea punitiva delle “riparazioni” imposte alla Germania. E, non a caso, era stato Winston Churchill ad affermare sul finire della seconda guerra mondiale: “Il primo passo nella riconciliazione della famiglia europea deve essere la partnership tra Francia e Germania”.
Alla Francia spettava e veniva riconosciuto un ruolo-guida nella costruzione della nuova Europa. Il primo passo fu la costituzione della Comunità del carbone e dell’acciaio con la partecipazione dell’Italia e del Benelux. La presidenza dell’Alta Autorità della CECA fu assunta da Jean Monnet, uno dei padri fondatori insieme con Schuman, dell’Unione europea. Seguì negli anni successivi il passo decisivo con la fondazione della Comunità economica europea.
Per la Francia la Comunità aveva anche un significato più generale, come strumento di resistenza alla straripante egemonia americana del dopo-guerra. Mentre dal punto di vista della Germania divisa, l’ancoraggio comunitario rafforzava la Repubblica federale guidata da Konrad Adenauer; così come più tardi rappresentò un retroterra importante per lo sviluppo dell’Ostpolitik di Willy Brandt. Nel corso degli anni 70 l’indiscutibile centralità dell’asse franco-tedesco, rafforzato dall’intesa fra Helmut Schmidt e Giscard d’Estaing, sembrò dar luogo a un “condominio” nel quale, come scrisse Toni Judt, Bonn si occupava dell’economia mentre Parigi dettava la politica.
Il trittico di Delors
Un “condominio” nel quale l’iniziativa del definitivo balzo in avanti spettò ancora una volta alla Francia con l’avvento alla presidenza della Commissione europea di Jacques Delors. Nel decennio di Delors (1984-95) fu varato il passaggio all’Unione europea con il completamento del mercato interno e il trattato di Maastricht che precostituiva le basi dell’euro. Delors era una complessa figura di tecnocrate e di politico di cultura socialista e cattolica. Aveva servito nella Banca di Francia, poi nel Commissariato per la pianificazione, era stato consigliere economico della Confederazione sindacale cattolica e ministro delle Finanze di Mitterand.
Forte di questa straordinaria esperienza nei più delicati settori della vita pubblica, e dotato di un indubbio carisma si propose di coniugare in un trittico originale tre figure essenziali della filosofia economica dell’Unione: la politica liberoscambista britannica, la tradizione interventista francese, e i fondamenti dell’economia sociale di mercato della tradizione tedesca. Il modello sociale europeo era a sua volta la sintesi nella quale si mescolavano le diverse tendenze dello stato sociale, da quello universalistico di tradizione beveridgiana a quello tedesco d’impronta bismarckiana; mentre un ruolo di primo piano era attribuito ai sindacati che, insieme con le associazioni imprenditoriali, assumevano potenzialmente un ruolo para-legislativo nelle materie di competenza comunitaria. Furono questi i pilastri sui quali fu edificata l’originale composizione di culture e tradizioni diverse ma potenzialmente convergenti che, secondo Delors, avrebbe aperto la strada a una Federazione di Stati sovrani.
Ottimismo di fine secolo
Cinquanta’anni dopo la fine del tragico conflitto fratricida, il compito di ridefinizione dei rapporti interni all’Europa, ormai riunificata dopo il collasso dell’impero sovietico sembrò essenzialmente compiuto. E da lì la nuova Unione poteva ripartire per confrontarsi con i grandi mutamenti in corso nel mondo, ponendosi come quella terza area, che abbiamo visto evocare da Le Goff, in grado di confrontarsi con i due principali sfidanti nel processo di globalizzazione: gli Stati Uniti e la Cina.
Gli anni che seguirono apparvero come una chiara affermazione degli ambiziosi obiettivi dell’Unione europea. Superate le crisi monetarie del 92-93 che avevano coinvolto, fra gli altri, la Gran Bretagna, l’Italia, la Spagna e la Svezia, la crescita economica fece registrare una straordinaria accelerazione, mentre fra il 1995 e il 2000 sono creati dodici milioni di nuovi posti di lavoro. L’Unione non aveva nulla da invidiare sotto questo profilo ai successi della New economy clintoniana che caratterizzò la seconda parte degli anni 90 negli Stati Uniti.
Possiamo ragionevolmente affermare che, alla vigilia del nuovo secolo, l’euro nacque sotto auspici che non potevano essere più favorevoli. Questa era anche il convincimento generale. Non a caso, a febbraio del 2000, la conferenza di Lisbona dei capi di stato e di governo si finì con una solenne Dichiarazione secondo la quale l’Unione s’impegnava a realizzare a una crescita dell’ordine del tre per cento medio annuo con l’obiettivo di raggiungere la piena occupazione entro la fin del decennio. Era questa l’Unione europea che carica di ottimismo si affacciava al nuovo millennio.
Dalla partnership allo Stato-guida
Mai previsioni e propositi furono più clamorosamente e malauguratamente smentiti. Dopo quasi tre lustri, gli scenari disegnati in quel passaggio di secolo sembrano appartenere a una leggendaria preistoria del continente. Come e perché è accaduto. Purtroppo le analisi della caduta sono viziate da alcuni luoghi comuni come la globalizzazione o la rivoluzione informatica che erano processi in corso già da un ventennio. E, in ogni caso, il passaggio all’Unione, con il definitivo completamento del mercato interno e la realizzazione della moneta unica, era stato concepito come uno strumento destinato a fronteggiare le sfide del nuovo secolo. Sarà compito degli storici chiarire le origini del fallimento dei propositi e dei progetti europei sin dai primi anni del nuovo decennio.
Ma la vera e propria débacle dell’eurozona più che alla storia appartiene alle cronache della crisi apertasi negli stati Uniti nel 2008 simboleggiata dal collasso della Lehman Brothers. In effetti, L’Unione era arrivata al passaggio della crisi tra evidenti ritardi e contraddizioni. Già all’inizio del decennio, la Germania, che aveva completato il processo di unificazione, cominciò a utilizzare l’euro come alter ego del marco. L’obiettivo primario della politica monetaria divenne la lotta all’inflazione, anche quando la sua minaccia era inesistente.
La Germania, di gran lunga la maggiore potenza industriale dell’Unione, era interessata a incrementare le esportazioni, sacrificando la domanda interna, puntando sul contenimento dei salari e a ridurre con le riforme Hartz il welfare: due pilastri dell’economia sociale di mercato. L’idea che l’euro potesse trascinare lo sviluppo di tutti si mostrò illusoria.
Quanto alla Francia, indubbia protagonista delle politiche d’integrazione europea del dopo-guerra, avrebbe potuto farsi promotrice, anche d’intesa con i paesi mediterranei, dall’Italia alla Spagna, per difendere e portare avanti il progetto di una crescita sostenuta e duratura che aveva accompagnato il passaggio all’euro Rimase invece ancorata all’illusione di una partnership solitaria con la Germania, quando l’equilibrio economico e politico era definitivamente rotto.
L’austerità e il suo fallimento
La crisi del 2008 e il modo perverso con la quale è stata affrontata è parte della cronaca dei nostri giorni. L’obiettivo dell’austerità imposta dall’asse Berlino- Francoforte- Bruxelles era il risanamento della finanza pubblica, e invece il risultato è stato l’aumento stratosferico del debito.
Il caso della Grecia è drammaticamente esemplare dell’insensatezza di quella politica. Il debito pubblico greco, che era alto all’inizio della crisi, comunque al di sotto del 120 per cento del PIL, dopo la letale cura della Troika è al 170 per cento mentre il reddito nazionale si è ridotto di un quarto e la disoccupazione ha raggiunto il 26 per cento della forza lavoro. Eppure, nel mese di aprile Samaras, capo del governo greco e Angela Merkel hanno incredibilmente celebrato ad Atene l’avvio dell’uscita dalla crisi. “Il fatto che si celebri l’emissione di un bond sui mercati, ha commentato Joseph Stiglitz, senza discutere della devastazione che resta nella vita delle persone è semplicemente criminale”. (La Repubblica, 11 aprile 2014).
La Grecia è la punta dell’iceberg, ma non bisogna dimenticare la Spagna che ha chiuso il 2013 con un’economia in deflazione, il debito pubblico, che col 40 per cento del PIL era il più basso tra i grandi paesi dell’eurozona, raddoppiato, e la disoccupazione al 26 per cento, come in Grecia.
Che fine ha fatto la partnership franco-tedesca che era stato con accenti diversi uno strumento di equilibrio nel primo mezzo secolo della costruzione comunitaria? Con la presidenza di Nicolas Sarkozy la partnership era già palesemente appannata, se non del tutto svuotata, tanto da far coniare l’ironica definizione di Merkozy. Ma le cose non sono migliorate con l’avvento di François Hollande, non ostante le speranze inizialmente riposte nella sua presidenza di marca socialista.
Erede della tradizione europeista degli Schuman e Monnet, di Mitterand e Delors, in diversi modi artefici dell’Unione europea, Hollande si è ridotto a simulare una partnership finta che gli consente di incontrare periodicamente Angela Merkel senza alcun costrutto politico. Le elezioni locali con l’avanzata del Fronte nazionale di Marine Le Pen sono state una débacle per il Partito socialista. Ma la sconfitta non ha indotto Hollande, ridotto a un consenso popolare del 18 per cento, a riflettere sugli errori e la perdita di credibilità di una presidenza che era nata all’insegna di una svolta a sinistra. E del cambiamento dei rapporti con Bruxelles e Berlino. Ha invece nominato alla testa del governo, Manuel Valls, il più a destra degli esponenti del partito, ottenendo il plauso della destra francese insieme con l’approfondimento delle divisioni all’interno del Partito socialista.
La trappola di Bruxelles
Bruxelles sembra apprezzare la svolta, ma non si accontenta facilmente. Il presidente dell’eurogruppo, dall’ arduo nome olandese, Jèroen Dijsselbloem ha rimproverato il governo francese per aver sforato di due decimali il disavanzo di bilancio giunto nel 2013 al 4,3 contro la previsione concordata del 4,1per cento. Hollande e Valls hanno reagito confermando l’impegno di ridurre il disavanzo al 3 per cento del PIL, sia pure con un altro anno di tolleranza, promettendo un taglio della spesa pubblica e sociale (pensioni e sanità) di cinquanta miliardi di euro.
Si conclude così miseramente la parabola della partnership franco-tedesca. Quella che secondo Delors doveva essere una Federazione di stati sovrani, e che abbiamo visto rievocare da Le Goff, appare sempre di più come un aggregato di paesi sotto la non velata egemonia di un solo paese.
La Germania indica la linea di condotta e controlla l’esecuzione dei programmi attraverso il braccio secolare della Commissione europea. Olli Rehn, oscuro politico della destra finlandese, passato alla Commissione prima come funzionario e poi come capo della Direzione degli Affari economici, detta le pagelle agli Stati membri che devono inviare a Bruxelles per un vaglio, preventivo le leggi di bilancio e programmi di politica economica per ottenerne l’approvazione prima di inoltrarli ai parlamenti nazionali.
I governi si adeguano, rispettando le consegne. Abbiamo visto prima la soddisfazione del governo greco di Samaras promosso dalla signora Merkel in visita ad Atene, ma questo è ancor poco rispetto alla Spagna di Mariano Rajoy, accolto nella famiglia di Bruxelles, come un novello “figliol prodigo”. La Spagna, pur avendo chiuso il 2013 con un disavanzo di bilancio del 7,3 per cento del PIL, è considerata un modello da seguire, per l’esemplarità delle riforme del mercato del lavoro che consentono alle imprese di ridurre fino al 20 per cento i salari contrattuali insieme con una sostanziale libertà di licenziamento.
Quanto all’Italia, abbiamo visto il nuovo premier Matteo Renzi, dopo i primi sussulti di protesta nei confronti della politica di austerità, promettere solennemente, nei suoi pellegrinaggi a Berlino e Bruxelles, il rispetto delle condizioni già imposte a Berlusconi, costretto a ritirarsi, e poi accettati dai governi di Monti e Letta. L’Italia è reduce da una recessione di due anni con una riduzione complessiva di circa il 9 per cento del PIL, più grave che in Francia e in Spagna, e annuncia per il 2014 un’evanescente prospettiva di crescita oscillante intorno allo zero virgola qualche decimale. A chiunque guardi con disincanto, il quadro non potrebbe apparire più disastroso. Ma Renzi, scrive l’Economist, “ha convinto molti italiani così come quelli che lo applaudono a Bruxelles e Berlino, che egli è l’ultima chance per salvare l’Italia dal declino”. Parafrasando Eduardo De Filippo, si potrebbe concluderne che i paradossi non finiscono mai.
Le complicità
Avviandoci a concludere sono necessarie due considerazioni.
La prima è che non ci si può limitare ad attribuire lo sfacelo dei paesi stranamente definiti “periferici” alle politiche di austerità imposte dall’asse Berlino-Bruxelles. Che quelle politiche si siano rivelate insensate è ormai opinione largamente accettata. Ma il punto messo in ombra è un altro. In realtà, le politiche di austerità e di riforme strutturali non sarebbero state realizzabili senza il consenso e la complicità dei governi nazionali.
Per le élite finanziarie economiche e politiche nazionali l’austerità è stata, e continua a essere, la leva per tagliare spesa pubblica e Stato sociale e provare a privatizzare ciò che rimane di pubblico, dopo i tagli degli anni 90. Ma perfino più importante è, in relazione ai rapporti sociali, la madre di tutte le cosiddette riforme strutturali, la riforma del mercato del lavoro: in breve, la neutralizzazione dei sindacati, la progressiva liquidazione della contrattazione collettiva dei salari e del e condizioni di lavoro, con lo slittamento dalla contrattazione nazionale a quella aziendale e in prospettiva individuale, insieme con la libertà di assumere e licenziare, secondo il modello americano. In ultima analisi, una controrivoluzione neoliberista ingannevolmente definito riformismo.
L’intreccio tra quelli che si sarebbero definiti in altri tempi interessi di classe a livello nazionale e le politiche europee di chiara intonazione neoconservatrice non potrebbe essere più stringente. Per molti versi, la politica praticata nell’eurozona dalla tecnocrazia di Bruxelles sotto la protezione di Berlino è paragonabile al programma che il Partito repubblicano porta avanti negli Stati Uniti. La differenza è che in America i repubblicani sono all’opposizione, mentre in Europa sono al governo.
L’incognita di maggio
La seconda considerazione riguarda l’imminente scadenza delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Il contesto politico nel quale si svolgeranno le elezioni di fine maggio può riservare sorprese sgradevoli per le élite nazionali ed europee.
In effetti, l’unico governo stabile è quello tedesco. Angela Merkel è stata trionfalmente rieletta con un terzo mandato e può governare senza opposizione, essendo la SPD sua alleata. Per il resto il quadro si presenta per la prima volta nella storia delle elezioni europee straordinariamente incerto. In Francia, il successo del Fronte nazionale di Marine Le Pen, la mediocre tenuta del centrodestra e la sconfitta di Hollande potrebbero ripetersi, mostrando inequivocabilmente che la politica “europeista” del governo socialista è in netta minoranza.
In Italia il Partito democratico di Renzi può aspirare a conservare il primo posto, ma per la prima volta un movimento apertamente ostile alle politiche europee, come il Movimento di Grillo, potrebbe arrivare secondo, superando il centrodestra di Berlusconi, che ha a sua volta ha l’esigenza elettorale di prendere le distanze dalle politiche europee, per non cedere eccessivamente terreno alla Lega, dichiaratamente anti-euro.
E' vero che le politiche dell’eurozona sfuggono al vaglio di una tradizionale dialettica democratica. Ma, se una sorte analoga subiranno i governi di Grecia, Spagna e Portogallo, per non citare che la sponda dei maggiori paesi mediterranei, il nuovo parlamento europeo, al quale spetta l’elezione del presidente della Commissione, dovrà interrogarsi sulla sua effettiva rappresentatività democratica. Se le previsioni correnti dovessero essere, sia pure parzialmente confermate, apparirà alla luce del sole l’incompatibilità fra la politica praticata sotto lo scettro politico di Berlino e dell’opaca tecnocrazia di Bruxelles e il normale funzionamento democratico in un numero crescente di paesi dell’Eurozona.