Da un occidente all’altro: capiitalismo regolato e capitalismo neoliberista*

Sottotitolo: 
La spinta è per un allineamento verso il basso:da un capitalismo più o meno regolato verso un capitalismo liberista, sregolato.

Dal punto di vista delle istituzioni economiche, l’Occidente presenta varianti nazionali significative, pur se sulla base comune di economia di mercato con importante presenza dello stato. Il dibattito sulle “varietà di capitalismo” (avviato da Hall e Soskice nel 2001) riguarda soprattutto le differenze nel welfare state e nel mercato del lavoro.

Questo dibattito si concentra, con buone ragioni pur se queste restano in genere implicite, sui paesi del cosiddetto Occidente. Di fatto, il capitalismo è nato e si è originariamente sviluppato in alcune regioni dell’Europa e poi negli Stati Uniti. La Federazione Russa ha abbracciato il capitalismo (un capitalismo totalmente sregolato, sotto l’impulso del pensiero neoliberista occidentale) solo nel periodo successivo alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, mentre la Cina ha aperto gradualmente la propria economia alle istituzioni di mercato negli ultimi quattro decenni. Entrambi i paesi sono caratterizzati da un forte controllo del potere politico su capitalisti e grandi imprese: nella Federazione Russa con un’alleanza di fatto tra i vertici politici (Putin) e gli oligarchi, che hanno potuto conservare una qualche autonomia esportando massicciamente in occidente i propri capitali pur rimanendo sotto la costante minaccia dei servizi segreti; in Cina, dove il controllo sulle esportazioni di capitali è rimasto rigoroso, i nuovi ricchi rimangono sotto il controllo della nomenklatura politica, quando non ne fanno parte direttamente. Alcuni paesi del sud-est asiatico (le cosiddette Tigri) sono entrati a far parte del capitalismo globalizzato anch’essi in una fase relativamente recente; la crisi finanziaria asiatica del 1997-98 e il rapido sviluppo cinese ne hanno alquanto oscurato il ruolo nel panorama mondiale.

Sulla scia del dibattito sulle varietà del capitalismo, ma allargando il discorso a vari altri aspetti, in queste pagine concentreremo dunque l’attenzione sui paesi del cosiddetto Occidente. Iniziamo quindi con il considerare i diversi tipi di capitalismo individuati nell’ambito di questo dibattito.

Così, ad esempio, il modello scandinavo è caratterizzato da robusto welfare e forti misure di sostegno a disoccupati e poveri, assieme a una discreta flessibilità del mercato del lavoro. La Danimarca in particolare è spesso citata per la sua flexsecurity: facilità di assumere e di licenziare accompagnate da efficaci misure di sostegno a chi perde il lavoro. Il modello statunitense è invece caratterizzato da welfare limitato, con una forte presenza del settore privato sia per la sanità sia per le pensioni, da alta flessibilità del mercato del lavoro, da scarso sostegno ai poveri; in quest’ultimo campo il sostegno dei privati è più robusto che in Europa, ma disorganizzato. La conseguenza è un’aspettativa media di vita alla nascita ben inferiore a quella che ci si potrebbe attendere da un paese con un livello medio di reddito elevato. Il modello dell’Europa meridionale riprende da quello scandinavo un livello elevato di spese per il welfare state, con assistenza sanitaria e sistema pensionistico in larga parte affidate al settore pubblico, ma presenta anche scarsa flessibilità del mercato del lavoro e scarso (e male organizzato) sostegno alle aree di povertà.

Una spinta all’appiattimento viene però, sempre più forte, dalla concorrenza tra sistemi nazionali sotto la spinta della globalizzazione, soprattutto della globalizzazione finanziaria. Questa concorrenza ha effetti importanti sui sistemi fiscali, sugli spazi delle politiche economiche nazionali, sui sistemi di regolamentazione. In tutti i casi, la spinta è per un allineamento verso il basso: verso un capitalismo liberista, sregolato, da un capitalismo più o meno regolato. Ed è curioso che i lavoratori dei paesi più sviluppati si preoccupino tanto della concorrenza dei lavoratori immigrati e così poco delle tendenze che minano alla base il sistema sociale costruito in secoli di lotte. (Un discorso a parte meriterebbe la crisi del welfare nei paesi nordici, almeno in parte collegato al peso degli immigrati con famiglie numerose, di modo che l’inasprimento dei vincoli sull’assistenza diretti a ridurre i costi del welfare state va di pari passo con le misure dirette a ostacolare l’immigrazione.)

Nel caso del fisco, non si tratta solo delle possibilità offerte dai paradisi fiscali ma anche della spinta all’elusione che viene da differenze nelle aliquote nazionali. Così i pensionati italiani possono decidere di trasferirsi in Portogallo o in Tunisia, limitando al 5-10% la quota del loro reddito che se ne va in tasse rispetto al 25% e oltre che si paga restando in Italia. E le imprese, come la Stellantis, trasferiscono la loro sede legale in Olanda (o in Lussemburgo, o in Irlanda) conservando la cittadinanza europea e i relativi vantaggi di accesso al mercato interno (e perfino, nel caso della Stellantis, l’assicurazione pubblica sui prestiti ottenuti dalle banche per un ammontare di svariati miliardi di euro) e riducendo a un modesto rivolo le tasse sui profitti – per giunta, pagate in Olanda e non in Italia. L’effetto non è necessariamente un calo del gettito fiscale complessivo, ma uno spostamento significativo del suo peso, dalle spalle dei grandi redditieri e delle imprese alle spalle dei lavoratori, soprattutto dei lavoratori dipendenti.

Un problema analogo lo abbiamo nel campo delle regolamentazioni. La cosa risulta sempre più evidente nel caso delle norme di difesa dell’ambiente: se le concerie cinesi possono scaricare i loro residui di lavorazione senza vincoli, si trovano ad avere un vantaggio competitivo enorme rispetto a quelle europee; idem se le acciaierie coreane non hanno controlli sulla temperatura delle acque che scaricano dopo averle utilizzate per raffreddare gli impianti, e così via. Il gioco del beggar thy neighbour, scaricare i problemi sul tuo vicino, porta al disastro globale se praticato da tutti; se praticato da molti, quelli che guardano al bene collettivo vedranno le proprie imprese trasferire gli impianti di produzione all’estero. Proprio per questo sono necessari accordi globali per la lotta al riscaldamento globale (e all’inquinamento delle acque, alla deforestazione, e così via).

Ma la stessa cosa vale per le norme sulla sicurezza del lavoro (si pensi al costo di vite umane che hanno avuto i lavori per l’ospitalità dei mondiali di calcio in Qatar, dove la regolamentazione è in pratica inesistente), o per quelle sulla qualità dei prodotti. Uno dei problemi affrontati nella trattativa con il Regno Unito, che voleva conservare accesso incondizionato ai mercati dell’Unione Europea dopo la Brexit, ha riguardato il contenuto di ormoni ammissibile nella carne dei polli, sottoposto a vincoli più stringenti nell’UE che non, ad esempio, negli Stati Uniti, con il rischio, quindi, che in assenza di controlli doganali il Regno Unito fungesse da ponte per l’importazione della meno salubre carne di pollo statunitense (o di tanti altri paesi). Quel che gli inglesi lamentavano, dell’Unione europea, era proprio l’eccesso di regolamentazioni sui prodotti: quest’ultima è il frutto della concezione ordoliberale dominante in Germania, secondo la quale il mercato è una costruzione giuridica che deve garantire un level playing field, un terreno di gioco livellato per favorire una concorrenza sana, tale da non generare una corsa ai “profitti da sottrazione” (Breglia 1965), quelli ottenuto a scapito di qualcun altro, che siano le altre imprese, i consumatori, i cittadini. In questo, come nella preferenza per una certa severità nelle regole e nelle politiche antitrust, la tradizione ordoliberale appare superiore alla tradizione neoliberista anglosassone; tuttavia, condivide con quest’ultima la fede malriposta nella miracolosa mano invisibile del mercato, che garantirebbe la tendenza automatica dei mercati concorrenziali verso posizioni ottimali di equilibrio, caratterizzate in particolare da pieno utilizzo delle risorse disponibili, quindi dalla piena occupazione (da cui l’impostazione restrittiva del Patto di stabilità e i limiti ai margini di manovra della BCE).

La tradizione neoliberista anglosassone è invece refrattaria a qualsiasi tipo di vincolo alle scelte degli agenti economici, siano i singoli consumatori siano imprese. Il laissez-faire anglosassone (del Regno Unito, dalla Thatcher in poi, come degli Stati Uniti, da Reagan in poi) ha finito con il dominare l’Occidente; è quello che punta a lasciare le briglie sciolte all’iniziativa privata, sulla base dell’idea che quel che è bene per le imprese è un bene per tutta la società: la teoria del trickle down, secondo la quale la maggiore ricchezza dei più ricchi si trasforma inevitabilmente in maggiore ricchezza per tutti. Una teoria, in realtà, che non ha base scientifica; si è anzi dimostrato che nelle economie più avanzate una distribuzione meno diseguale del reddito aiuta la crescita, in quanto la propensione al consumo dei meno ricchi è più elevata, il che – secondo una prospettiva keynesiana – stimola anche gli investimenti e favorisce la crescita.

I movimenti internazionali di capitale di breve periodo (cioè quelli non destinati a investimenti, importanti per favorire lo sviluppo dei paesi con un minore livello di reddito pro capite) sono prevalentemente orientati alla speculazione finanziaria. Keynes, nella conferenza di Bretton Woods del 1944 che aveva gettato le basi dell’ordine monetario internazionale postbellico, aveva cercato di impedirli, ma la pressione della finanza statunitense era stata troppo forte; la stessa cosa è avvenuta in seguito, anche in anni recenti, di fronte ai tentativi di frenare la speculazione con la cosiddetta Tobin tax, una imposta sulle transazioni finanziarie, che dopo vari tentativi è stata approvata solo di recente, solo in alcuni paesi e limitatamente ad alcune categorie di transazioni (come sempre, il diavolo è nei dettagli). Così il sistema monetario internazionale non ha retto alle crescenti pressioni sul dollaro favorite dalla spesa militare Usa per la guerra in Vietnam, e il sistema dei tassi di cambio fissi garantito dall’ancoraggio del dollaro all’oro a un prezzo fisso di 35 dollari per oncia è saltato per dichiarazione unilaterale del presidente statunitense Nixon il 15 agosto 1971.

Dopo le crisi petrolifere degli anni Settanta del secolo scorso, il ruolo internazionale dei grandi operatori finanziari è cresciuto in seguito alla scelta di affidare loro il gigantesco problema del riciclaggio dei petrodollari. Il forte aumento dei prezzi del greggio aveva causato un dirompente squilibrio nelle partite correnti di bilancia dei pagamenti tra paesi esportatori e paesi importatori: i primi in forte attivo, i secondi in forte passivo, con la necessità di reperire in qualche modo la valuta internazionale (i dollari, essenzialmente) con cui pagare il greggio importato. Varie proposte di soluzione pubblica –affidarsi a emissioni di diritti speciali di prelievo da parte del Fondo Monetario Internazionale, con prestiti ai paesi importatori di greggio; utilizzare il Fondo, o qualche altro organismo come la Banca Mondiale o la Banca dei regolamenti internazionali, per garantire un flusso diretto di liquidità dai governi dei paesi in avanzo a quelli in disavanzo – vennero prese in considerazione e discusse, ma nessuna di esse venne tradotta in pratica. Le discussioni su quale fosse la migliore rimasero a livello teorico, e d’altronde erano sostanzialmente inutili, dato che non erano alternative, ma almeno in potenza complementari. Tuttavia, com’era accaduto a Bretton Woods, le istituzioni finanziarie private, grandi e piccole, videro nel problema l’occasione per sviluppare un gigantesco giro d’affari. Così i dirigenti bancari dell’epoca erano frequentemente in viaggio, visitando specialmente i paesi in via di sviluppo alla ricerca di clienti che accettassero di prendere in prestito i fondi depositati dai paesi esportatori di greggio.  Ne seguì una crisi del debito internazionale per l’insolvenza di alcuni paesi in via di sviluppo all’inizio degli anni Ottanta; per evitare le disastrose conseguenze del fallimento di grosse istituzioni finanziarie i costi vennero fatti ricadere principalmente sul settore pubblico dei paesi più ricchi.

La crescita esponenziale del ruolo della finanza (la cosiddetta finanziarizzazione) nell’economia internazionale come nelle economie nazionali fu favorita da misure di liberalizzazione, adottate un po’ in tutti i paesi (sempre sotto la pressione concorrenziale: i paesi che fossero rimasti indietro nella corsa a deregolamentare i propri mercati finanziari avrebbero visto migrare all’estero pezzi importanti della propria economia) e, in alcuni paesi come l’Italia, dalle privatizzazioni di quelle parti del sistema finanziario che erano finite in mani pubbliche dopo i salvataggi seguiti alla Grande crisi del 1929 o alle guerre mondiali. Ancora una volta, alla base di questi sviluppi troviamo una teoria economica accettata come il Vangelo (e premiata con vari premi Nobel), ma radicalmente sbagliata: la teoria dei mercati finanziari efficienti, con tutti i corollari di analisi matematica delle tecniche operative di copertura dai rischi.

La teoria dei mercati finanziari efficienti (Fama 1970) afferma che i prezzi degli strumenti finanziari che emergono in mercati concorrenziali non possono che riflettere – al di là di errori casuali – la ‘vera’ situazione dell’economia reale sottostante. Questi prezzi, quindi, sarebbero un’ottima guida per le decisioni degli agenti economici. Di qui la spinta ad affidarsi a mercati di tipo borsistico dominati da transizioni di tipo finanziario per determinare prezzi di riferimento di beni essenziali (come il petrolio, con i mercati del Brent o del West Texas Intermediate; o il gas naturale, con il mercato di Amsterdam; o l’elettricità, fino ai ‘permessi di inquinare’).

Di fatto, questa teoria costituisce un’estensione del mito della mano invisibile del mercato. Che i mercati finanziari funzionino in modo diverso lo si è visto in occasione delle ripetute crisi finanziarie, in particolare quella del 2007-8, per la quale si è parlato di ‘cigno nero’: un evento così improbabile, a detta di alcuni soloni della finanza, da potersi verificare solo una volta ogni sette-otto vite dell’universo. Dietro queste affermazioni (che contrastano, tra l’altro, con le ripetute previsioni della crisi imminente da parte di eminenti economisti non-mainstream come Paolo Sylos Labini) vi sono errori statistici ed errori teorici.

L’errore statistico consiste nell’avere stimato la volatilità del mercato affidandosi a serie di prezzi rilevati su un arco di tempo troppo breve: dati giornalieri su circa un anno, seguendo la convenzione concordata tra istituti finanziari e autorità di supervisione per stimare i requisiti di capitale proprio (Roncaglia 2012). Le crisi non si verificano ogni anno, quindi prendendo i dati di un periodo tranquillo i rischi non vengono visti – e le istituzioni finanziarie possono evitare di immobilizzare capitale proprio per coprire rischi che sono stati fatti scomparire dal proprio orizzonte.

L’errore teorico, invece, dipende dall’avere dimenticato la lezione di Keynes sul modo di operare dei mercati finanziari. Questi sono autoriflessivi, per utilizzare un’espressione di Soros (che i mercati finanziari ha mostrato di conoscerli bene): gli operatori finanziari sono presenti in continuo sui mercati, comprando e vendendo sulla base delle aspettative di quanto accadrà nei giorni o nelle ore immediatamente successive in conseguenza delle decisioni di altri operatori che si comportano allo stesso modo. Con una metafora proposta da Keynes, i mercati si comportano come i partecipanti a un concorso di bellezza bandito da un tabloid inglese dell’epoca, in cui i premi vengono estratti tra i lettori che hanno votato per la vincitrice tra una cinquantina di fotografie: ciascun partecipante vota non per quella che ritiene la più bella, ma per quella che ritiene che gli altri ritengano che altri ritengano (e così via ad infinitum) la più bella. In sostanza gli operatori cercano di immaginare quale sia la convenzione dominante, anche quando non la condividono; quando per un qualsiasi motivo la convenzione dominante cambia, il mercato cambia bruscamente rotta.

Un economista keynesiano, Hyman Minsky, ha elaborato negli anni Ottanta del secolo scorso una teoria delle crisi finanziarie che è stata riscoperta dopo la crisi del 2007-8. Minsky distingue tra posizioni finanziarie coperte, speculative e ultra-speculative. Le prime sono quelle tipiche di una famiglia che prende un mutuo per coprire parte del costo dell’acquisto di una casa, disponendo di un reddito stabile che garantisce un flusso di risparmi più che sufficiente a coprire anno dopo anno le rate di ammortamento del mutuo. Le seconde sono quelle caratteristiche di un’impresa che copre con fondi a prestito parte delle spese d’investimento, avendo fiducia – ma non certezza – di poter vendere sul mercato il proprio prodotto a un prezzo sufficiente a coprire i costi di produzione incluso l’ammortamento del capitale fisso. La terza è, ad esempio, quella di chi acquista con fondi presi a prestito un bene (oro, quadri, francobolli) che non frutta reddito, puntando sull’aumento di prezzo del bene stesso (a un tasso di crescita superiore al tasso d’interesse da pagare sul prestito). Quanto più importanti sono le posizioni del terzo tipo, tanto più fragile (prono a crisi) è il sistema finanziario.

La crisi del 2007-8 ha per l’appunto un’origine di questo tipo. Le posizioni ultra-speculative che si erano sviluppate a macchia d’olio riguardavano il mercato immobiliare. Dopo anni di continua crescita dei prezzi delle case, acquistarle a mutuo diventa conveniente anche se il mutuo copre l’intero valore dell’immobile e non si hanno mezzi sufficienti per pagare le rate: dopo qualche anno in cui si continua a prendere a prestito fondi per pagare le rate del mutuo, si può rivendere la casa a un prezzo sufficiente a coprire tutto, mutuo e prestiti successivi, e ottenere un guadagno senza averci messo fondi propri. Le istituzioni finanziarie, che di mestiere fanno prestiti, riuscivano a persuadere a procedere in questo modo perfino disoccupati nullatenenti; poi impacchettavano i mutui nelle cosiddette collateralized debt obligations per cederle a società apposite (calcolando nel modo accennato sopra la rischiosità di questi titoli, che veniva così decisamente sottovalutata), per ottenere fondi con i quali fare ulteriori mutui. Quando però i prezzi delle case hanno cominciato a diminuire, questa costruzione è saltata in aria, con ripercussioni a valanga che hanno finito con il generare una crisi mondiale.

Come Minsky aveva previsto tanti anni prima, di fronte a una crisi finanziaria di grandi proporzioni le autorità di politica economica sono costrette a intervenire, con politiche fiscali e monetarie espansive. Dopo che nel periodo d’oro i profitti erano andati alle istituzioni finanziarie private, ora le perdite vengono in larga parte accollate al pubblico erario. Soprattutto, questo permette alla finanza privata di ripetere il ciclo: un periodo di acque relativamente tranquille porta man mano ad aumentare la propensione al rischio; aumenta la quota di posizioni speculative ed ultra-speculative, torna a crescere la fragilità del sistema finanziario. Le crisi si ripetono – prevede Minsky – sempre più frequenti e sempre più pesanti.

Grazie agli interventi di politica economica, la ripresa dopo la crisi permette di tornare ai livelli di reddito precedenti e nel tempo di superarli. Tuttavia ogni crisi sposta verso il basso il trend di fondo della crescita economica, che come si è già accennato risulta decisamente inferiore, nel periodo di dominio del neoliberismo, rispetto ai decenni del dopoguerra in cui sono prevalse le ricette keynesiane. Queste ultime, per giunta, non rispecchiavano appieno la visione teorica originaria di Keynes, bensì un compromesso tra essa e la teoria marginalista mainstream. Quest’ultima – la tesi della mano invisibile del mercato – è considerata valida per il lungo periodo, mentre è solo nel breve periodo che possono verificarsi problemi che richiedono interventi keynesiani – monetari e fiscali – di sostegno all’economia. Vengono così lasciati da parte aspetti importanti della teoria di Keynes: le sue tesi sull’instabilità del capitalismo, in particolare ma non solo della finanza, e la conseguente necessità di tenerla sotto controllo e combatterne gli effetti; la necessità di un sostegno all’occupazione sistematico, specie considerando la riduzione della domanda di lavoro generata dal progresso tecnico; nel complesso, la necessità della presenza sistematica dello stato.

Keynes era un liberale di vecchio stampo, di orientamento tendenzialmente conservatore. Non era comunque ostile al welfare state, vedendo in esso non tanto un rafforzamento del potere contrattuale dei lavoratori quanto piuttosto una riduzione generale dell’incertezza diffusa nelle società umane, che considerava un potente freno agli investimenti e al mantenimento di un livello elevato di produzione e di occupazione, e soprattutto un elemento di riduzione delle inevitabili tensioni distributive connaturate a una società capitalista. Keynes affermava che proprio in quanto sostenitore delle libertà individuali non poteva che essere favorevole al mercato, in opposizione agli esempi – stalinista e nazista – di pianificazione centralizzata; ma allo stesso tempo riteneva una politica economica attiva condizione essenziale perché il mercato potesse sopravvivere, e soprattutto perché potessero sopravvivere le libertà individuali, data la facilità con la quale regimi dittatoriali possono affermarsi in paesi caratterizzati da un cattivo andamento dell’economia e da problemi sociali diffusi.

Torniamo così alla dicotomia da cui eravamo partiti: capitalismo neoliberista o capitalismo regolato?

Non vi è dubbio che negli ultimi decenni abbia prevalso una tendenza sempre più forte verso l’affermazione del capitalismo neoliberista. Soprattutto la pressione della concorrenza tra sistemi nazionali di regolazione ha portato a una deregolamentazione generalizzata, rispetto alle economie dei decenni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. Lo stesso tipo di concorrenza ha portato, e sta portando con sempre maggior forza, a una crisi dello ‘stato fiscale’: la tendenza a una progressiva crescita della quota di prelievo tributario sul pil è stata negli anni più recenti invertita, con una pressione sempre più forte sulle dimensioni, l’efficacia e l’efficienza del welfare state.

Tuttavia, prima la crisi finanziaria mondiale del 2007-8, poi le drammatiche manifestazioni degli effetti delle politiche neoliberiste nel campo dell’ambiente con un riscaldamento globale sempre più fuori controllo, hanno avviato qualche timido cenno di inversione della tendenza, su almeno tre fronti. Il primo è la necessità di interventi pubblici, concordati a livello internazionale e accettati, se non da tutti, dalla grande maggioranza dei paesi, per la lotta al riscaldamento globale. (Un aspetto le cui ripercussioni sociali sono sottovalutate e saranno drammatiche, tra l’altro con probabili migrazioni di massa da aree costiere in vari casi densamente popolate, come il Bangladesh, verso i paesi più sviluppati.) Il secondo è costituito dai tentativi di contrastare l’insostenibilità di una situazione di elusione fiscale generalizzata, che dalle imprese maggiori si diffonde su quelle minori e sugli individui: lo spostamento del peso del gettito fiscale sul reddito da lavoro dipendente che ne deriva e i tagli al welfare state che di conseguenza divengono necessari possono passare sotto silenzio solo entro certi limiti e per un certo periodo di tempo. (Certo, limiti di flessibilità ci sono, come dimostra il caso delle scarse reazioni alla prima legge finanziaria del governo Meloni, che prevede tagli in valore assoluto agli stanziamento per la sanità, il che con un’inflazione attorno al 10% implica un forte taglio alle prestazioni che può essere oscurato solo per un periodo transitorio dall’accumulazione di debiti all’interno del sistema, ad esempio con l’allungamento dei tempi di pagamento delle forniture, che tra l’altro in una fase di tassi d’interesse crescenti e stretta alla liquidità può generare forti problemi alle imprese del settore.) Il terzo è la consapevolezza della crescente fragilità sistemica del sistema finanziario, che risulta sempre più evidente man mano che si tenta di invertire la rotta alle politiche monetarie estremamente permissive adottate nella fase della crisi finanziaria mondiale prima e poi delle ripetute crisi dell’euro. (Qualche preoccupazione iniziano a destare, ad esempio, sia le dimensioni del bilancio delle banche centrali, costrette ad assorbire masse di titoli pubblici e privati sia la multiforme massa di garanzie concessa dalle autorità pubbliche su una varietà crescente di attività.)

In tutti questi casi, il limite principale della presa di coscienza dei problemi che ci stanno di fronte è costituito dalla mancata comprensione degli errori teorici che viziano alla base la visione neoliberista: il mito della tendenza automatica dei mercati concorrenziali verso posizioni di equilibrio ottimali, inclusa la piena occupazione; il mito dei mercati finanziari efficienti, quindi della possibilità di costruire mercati di tipo borsistico per affrontare problemi di esternalità, come quelli ambientali; in generale, il mito di una capacità autoregolatrice spontanea delle istituzioni economiche, politiche e sociali (sostenuta da Hayek in particolare – Hayek 1973 – con la contrapposizione tra grown order, ordine spontaneo, e made order, ordine costruito). Così a qualche timido cenno di inversione di tendenza sul piano delle politiche concrete non si accompagna una revisione generale dell’impostazione delle politiche pubbliche, necessaria un po’ in tutti i campi. Le difficoltà vengono affrontate come se avessero ciascuna una origine specifica, e non fossero il frutto di un comune, generale errore d’impostazione della teoria economica dominante che fornisce la base concettuale per gli orientamenti di politica economica.

Vi è di più. Nella concorrenza tra le due maggiori potenze mondiali, gli Stati Uniti e la Cina, cioè tra i due modelli del ‘capitalismo liberale meritocratico’ e del ‘capitalismo politico’ (Milanovic 2019), man mano che la crescita delle tensioni sociali mette in crisi il primo modello, si può registrare – di fatto, si inizia a registrare – una tendenza delle posizioni neoliberiste a sacrificare le libertà individuali per difendere il laissez-faire di mercato: come d’altra parte è accaduto in passato, con Pinochet in Cile e i suoi consiglieri economici della scuola di Chicago e con l’ascesa del fascismo e del nazismo in Europa, facilitato se non sostenuto dai grandi industriali.

Come osservava Keynes, le idee degli economisti (del passato, diceva lui; ma anche del presente, aggiungiamo noi) guidano le vicende delle società umane. Il dibattito teorico tra gli economisti non riguarda solo loro, ma un po’ tutti.

 

Bibliografia

Breglia A., 1965, Reddito sociale (a cura di P. Sylos Labini), Edizioni dell’Ateneo, Roma.

Fama E., 1970, Efficient capital markets: a review of theory and empirical work, “Journal of Finance”, vol. 25 n. 2, pp. 383-417.

Hall P., Soskice D., a cura di, 2001, Varieties of capitalism, Oxford University Press, Oxford.

Hayek F. von, 1973, Law, legislation and liberty, vol. 1, Rules and order, Routledge and Kegan Paul, London.

Keynes J.M., 1933, Essays in biography, Macmillan, London; rist. in J. M. Keynes, Collected writings, vol. 10, Macmillan, London 1972. (Trad. it., Politici ed economisti, Einaudi, Torino, 1974.)

Milanovic B., 2019: Capitalism, alone, Harvard University Press – Belknap Press, Cambridge (Mass.).

Minsky H.P., 1982, Can ‘it’ happen again? Essays on instability and finance, Sharpe, Armonk (N.Y.); trad. it., Potrebbe ripetersi? Instabilità e finanza dopo la crisi del ’29, Einaudi, Torino, 1984.

Roncaglia A., 2005, Il mito della mano invisibile del mercato, Laterza, Roma-Bari.

Roncaglia A., 2023, Potere e diseguaglianze. Una prospettiva riformista, Laterza, Roma-Bari.

Roncaglia A., 2012, Keynesian uncertainty and the shaky foundations of statistical risk assessment models, “PSL Quarterly Review”, vol. 65 n. 263, pp. 437-54.

Roncaglia A., 2019, L’età della disgregazione. Storia del pensiero economico contemporaneo, Laterza, Roma-Bari.

Sen A., 1999: Development as freedom, Knopf, New York (trad. it., Lo sviluppo è libertà, Mondadori, Milano 2000).

Sen A., 2002: Globalizzazione e libertà, Mondadori, Milano.

Sylos Labini P., 2003, Le prospettive dell’economia mondiale, “Moneta e Credito”, vol. 56 n. 223, pp 267-94.
__________________

* Articolo pubblicato in ParadoXa : XVII, 1, 2023

Alessandro Roncaglia