"Concorsone " per soli "Talenfi"

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A spingere all’emigrazione, ieri come oggi, sono sempre le carenze del nostro contesto economico-sociale.Sbaglia chi sottovaluta questo dato antropologico-culturale, che si ripercuote sull’educazione e formazione dei cittadini.

 Buona notizia per la città: il Comune di Napoli ha bandito un “concorsone” per 222 posti, cui aspirano quindicimila candidati (Paolo Cuozzo, Corriere del Mezzogiorno, martedì scorso). C’è un’enorme sproporzione tra posti e aspiranti. Non sorprende: a Napoli e nel Sud c’è un’alta disoccupazione, specie giovanile. Ma l’impiego comunale non può più essere un “ripiego” per chi cerca lavoro, com’era in passato: quando l’impiego pubblico era “spugna” della disoccupazione e strumento di clientela politica, soprattutto sotto elezioni. In passato compensava la scarsità d’insediamenti industriali, che si moltiplicavano al Nord. Più che un ripiego era una necessità.

Ora però all’impiego pubblico occorrono risorse umane giovani, competenti e ben pagate. Ancor più al Comune di Napoli. Chi sta spaccando l’Italia coll’autonomia regionale differenziata dovrebbe ricordare il penoso fenomeno italiano del secolo scorso: la massiccia emigrazione dal Sud al Nord di quanti, bisognosi di lavorare, soddisfacevano l’alta domanda di forza-lavoro dell’industria del Nord. Molti vi trovavano facilmente il posto e non solo giovani poco alfabetizzati e professionalizzati.

Parallelamente, financo brillanti laureati meridionali vincevano un concorso pubblico (magistrati; prefetti; notai; impiegati statali; insegnanti; militari; poliziotti ecc.) ed erano tenuti a trasferirsi al Nord. Molti vi si sono trapiantati definitivamente, altri son tornati a casa.

D’allora inizia l’impoverimento del Sud. Che oggi perdura, anzi s’aggrava pur nella situazione mutata, ma nemmeno tanto. A spingere all’emigrazione, ieri come oggi, sono sempre le carenze del nostro contesto economico-sociale, figlie dell’assenza di grandi imprese, quindi di “cultura industriale”. E’ questa a richiamare investimenti, pubblici e privati, generando “cultura dell’organizzazione”, “del lavoro” e “sindacale”. Sbaglia chi sottovaluta questo dato antropologico-culturale, che si ripercuote sull’educazione e formazione dei cittadini.

L’industria infatti non fa sconti: se rispetta le leggi, legittimamente pretende dai dipendenti prestazioni a regola d’arte e comportamenti aziendali coerenti coi modelli organizzativi, inventati per produttività e profitto. Altrettanto legittimamente, lavoratori seri e responsabili s’organizzano e rivendicano diritti retributivi e normativi. Dal libero confronto tra imprenditori e lavoratori nasce il “sistema di relazioni industriali”, che contribuisce alla civilizzazione dell’intera società. “Contagiata” appunto dalla cultura industriale.

Tutt’altra logica caratterizza l’impiego pubblico, legato a leggi e regolamenti perché al servizio dello Stato o d’altri enti pubblici. Logica complessa, di cui parlare a parte. Qui basta dire che nell’impiego pubblico manca un “padrone in carne e ossa” e la dirigenza è debole perché si muove nell’ambiguità causata dalla vicinanza a un governo, dunque alla politica. Ecco il nodo della questione. In passato, specie al Sud, l’opaco rapporto politica/burocrazia finisce col gonfiare funzioni e servizi pubblici: per assumere o per promuovere in carriera, persone anche incompetenti. Quasi sempre per clientelismo politico, talora persino sindacale.

Perciò, ad esempio, tuttora vediamo in giro anziani dipendenti comunali, anche d’alto grado, poco autorevoli e magari analfabeti, sciatti, sgarbati e svogliati (fortunatamente pensionandi). Adesso però – tra pensionamenti e mancate assunzioni – a Napoli il Comune è sotto-organico di alcune migliaia di dipendenti.

Né basterà qualche centinaio d’assunti col concorsone a garantire l’efficienza necessaria alla terza città d’Italia: capitale del Mezzogiorno coll’aspirazione a diventarlo del Mediterraneo. Ma i napoletani, dopo aver sopportano tante carenze – addirittura di servizi essenziali: igiene e decoro urbano; trasporto pubblico e tanto altro – auspicano un’inversione di rotta su quantità e qualità dei dipendenti comunali. Candidati da selezionare rigorosamente, accertandone le competenze con imparzialità e senza l’invadenza detestabile di politici e sindacalisti.

Certo Manfredi non può fare miracoli e occorrerà tempo per adeguare l’apparato comunale alle esigenze di Napoli. Ma il Sindaco, proprio perché ha tante cose da fare, deve stare attento a circondarsi di collaboratori all’altezza, cominciando dagli Assessori. Sono pochi, ognuno con troppe deleghe – magari estranee alle sue competenze – e senza dirigenti capaci di supplire all’eventuale incompetenza. Più che fiduciari o fedeli allora, i dirigenti comunali devono essere preparati. Possedere cultura generale e specifiche abilità (anche linguistiche) nel servizio loro affidato. In quest’epoca, rispetto al passato, servono risorse umane possibilmente autorevoli, comunque con molti più talenti.

Soprattutto consapevoli d’essere “napoletani al servizio della collettività”, forniti d’un’unica bussola dell’azione amministrativa: la “vivibilità dei concittadini”, comparata all’Italia e all’Europa. Conoscendone e condividendone i bisogni, devono anteporre la coesione sociale al burocratismo. E ovviamente saper destreggiarsi nelle problematiche attuali: nuove tecnologie, crisi energetica, cambiamento climatico e quant’altro serve al benessere della nostra (e loro) comunità.       

( Editoriale del Corriere del Mezzogiorno, 7 luglio 2024)        

                                

Mario Rusciano

Professore Emerito di Diritto del lavoro, Università di Napoli Federico II.