Come cambiare le regole europee
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Alcune proposte per far tesoro delle lezioni del passato. L’Unione europea ha aperto una consultazione pubblica sulla riforma delle regole che si è data da Maastricht in poi. Con la pandemia sono state sospese e così resteranno anche nel 2022, ma nel 2023 si prevede di riattivarle. Non esattamente le stesse: anche se c’è ancora chi vorrebbe rispristinarle tali e quali – e questo la dice lunga sulla capacità di comprensione delle dinamiche economiche di una parte della cosiddetta “classe dirigente” – la maggioranza ha finalmente capito che quelle regole hanno funzionato male, per usare un gentile eufemismo. Se poi vogliamo dirla più chiaramente, alcune di esse sono demenziali e gli economisti che le hanno inventate – e magari ancora le sostengono – dovrebbero quantomeno ammettere pubblicamente l’errore, come qualcuno ha fatto. Chiunque può partecipare alla consultazione, fino a fine anno, collegandosi a questo link. Una grande iniziativa di democrazia teorica. Per considerarla effettiva, bisognerebbe sapere chi leggerà quelle proposte (sempre che qualcuno le legga) e se sarà data la stessa attenzione a chi, tra le qualifiche tra cui scegliere, si definisce “cittadino europeo” o invece “banca centrale”. Si deve rispondere a 11 punti, ognuno dei quali si conclude con una domanda. Ma la maggior parte potrebbe essere semplicemente accorpata al primo punto, la cui domanda finale esprime lo spirito con cui si affronta questa riforma e definisce l’orizzonte entro cui si muove chi ha preparato il questionario, che evidentemente nemmeno concepisce che si possa pensare a qualcosa di diverso. La domanda è: “Come si può migliorare il quadro di riferimento per garantire finanze pubbliche sostenibili in tutti gli Stati membri e per aiutare a eliminare gli squilibri macroeconomici esistenti ed evitare che ne insorgano di nuovi”? Non è un caso che come prima cosa si parli di “finanze pubbliche sostenibili”. Questa è fin dall’inizio l’ossessione di chi ha costruito il sistema barocco e disfunzionale dell’Unione, e che ha sempre scambiato i fini con i mezzi, o meglio: ha assunto un mezzo (il buon funzionamento dell’economia) come fine, al posto di quello che invece dovrebbe essere perseguito, ossia una situazione che assicuri a tutti una condizione di vita decente e in base a quell’obiettivo studiare come si possa far funzionare al meglio l’economia. Quello che serve è un cambiamento di logica, un cambiamento di priorità e un cambiamento di metodi. Un cambiamento di logica e di priorità Le regole devono essere al servizio del benessere comune, e non viceversa. Nei trattati europei l’occupazione viene nominata quasi malvolentieri e non è un obiettivo prioritario. Invece dovrebbe diventarlo, e dovrebbe essere fissato un obiettivo che abbia altrettanta rilevanza di quella data fino ad oggi al controllo delle variabili di finanza pubblica. L’obiettivo dovrebbe essere un tasso di disoccupazione che non superiore al 3% e un tasso di partecipazione non inferiore all’80%, livelli capaci di far esprimere al meglio il potenziale delle economie. Per “migliorare il quadro”, è anche necessario mobilitare le risorse inutilizzate. Il perseguimento della concorrenza è giusto, ma non dovrebbe essere perseguito a scapito delle condizioni di lavoro e di retribuzione. Deve essere stabilito uno standard minimo per le condizioni di lavoro: se non tutti i paesi membri sono in grado di applicarlo subito, deve essere individuato un percorso di progressivo e continuo avvicinamento a questo standard, individuato per ogni paese a seconda delle sue condizioni di partenza. La sostenibilità delle finanze pubbliche e la riduzione del debito in rapporto al Pil sono state finora perseguite puntando essenzialmente al controllo della spesa e del livello del deficit. Un criterio che non solo non ha dato buoni risultati nella riduzione del debito, ma quel che è peggio ha frenato la crescita. Il criterio deve essere sostituito: il debito si riduce quando la crescita nominale del Pil è superiore al costo del servizio del debito stesso, ed è dunque questa la variabile che va osservata per le decisioni di politica economica. L’emergenza dovuta alla pandemia ha fatto superare d’un colpo la contrarietà a utilizzare la politica di bilancio per fronteggiare situazioni di congiuntura avversa: e, al contrario delle regole precedenti, ha avuto successo. È il momento di prenderne atto e utilizzare quel parametro per delineare le politiche economiche. Un cambiamento di metodi I parametri non osservabili, come il Pil potenziale e il conseguente output gap, hanno fornito indicazioni pro-cicliche e non di rado paradossali. La soluzione che si pensa di adottare, cioè il calcolo del Pil potenziale come media dei cinque anni precedenti all’osservazione e delle stime per i cinque anni successivi, non darebbe risultati migliori. Nei casi di recessioni drammatiche, come quella del 2008 e quella provocata dal Covid, la media dei cinque anni precedenti sicuramente sottostima il potenziale effettivo; ed esercizi che si propongano di stimare l’andamento dei cinque anni futuri sono più da astrologo che da economista. Negli ultimi 10 anni le stime che si proiettavano su un solo trimestre sono state regolarmente sbagliate, e non di poco. Il concetto di Pil potenziale può essere certo usato per esercizi di econometria, ma è inutile e dannoso se si pretende di utilizzarlo come guida per le politiche economiche. Se possibile è ancora peggiore l’uso del Nairu (Non-Accelerating Inflation Rate of Unemployment), secondo cui è necessario che permanga un certo livello di disoccupazione per non perdere il controllo sull’inflazione: vergognoso dal punto di vista etico, insensato dal punto di vista del metodo di calcolo, totalmente inaffidabile dal punto di vista dei risultati. La sua inattendibilità scientifica è stata dichiarata da un gran numero di economisti di livello internazionale, e anche il presidente della Federal Reserve Jerome Powell ha convenuto che aveva fallito troppe volte per essere ancora considerato utile. Alcune proposte Occupazione. L’Unione si dà l’obiettivo di ridurre il tasso di disoccupazione al 3% e innalzare il tasso di partecipazione all’80%. È anche opportuno introdurre l’obiettivo dell’occupazione nello statuto della Bce con pari dignità rispetto a quello del controllo dell’inflazione. Come detto riguardo alle condizioni di lavoro, anche in questo caso andrebbero individuati percorsi tarati sulla situazione di ogni paese. Finanza pubblica. Gli Stati sono ordinariamente tenuti al pareggio di bilancio per la parte corrente. L’imputazione a investimenti delle altre spese sarà controllata dagli Uffici parlamentari di bilancio dei vari paesi e validata da un’apposita struttura costituita presso la Commissione europea. Il benchmark a cui fare riferimento per controllare la sostenibilità diventa il tasso di crescita nominale del Pil rispetto al costo del servizio del debito. Quando il primo risulta inferiore al secondo la spesa pubblica può aumentare di una percentuale corrispondente al gap rilevato. Perché la manovra anticongiunturale sia efficace è opportuno che le verifiche avvengano ogni sei mesi. Si parla qui di misure anticongiunturali, che possono essere un mix di spesa corrente e di investimenti a effetto rapido, dai bonus fiscali per sostenere settori economici in difficoltà a opere di manutenzione e a spese come la sostituzione del parco autobus. Cosa diversa dagli investimenti sulle grandi opere o sulle trasformazioni strategiche (come le transizioni energetica e tecnologica) che dovrebbero essere guidate da una programmazione a lungo termine. Lavoro. L’Unione definisce gli standard minimi per le condizioni di lavoro. Se non tutti i paesi membri sono in grado di applicarli subito, deve essere elaborato un percorso di progressivo e continuo avvicinamento a questi standard, individuato per ogni paese a seconda delle sue condizioni di partenza. Le Authority europea e nazionali per la concorrenza vigilano per impedire che la competizione avvenga a svantaggio delle condizioni di lavoro, sia all’interno di ogni paese e sia tra paesi diversi, o violando le disposizioni in materia di tutela ambientale. Sorveglianza macroeconomica. Tra le variabili sotto osservazione nella Macroeconomic Imbalance Procedure (Mip), quella che assume una particolare rilevanza per la stabilità dell’area è la bilancia dei pagamenti. Le attuali norme prevedono limiti asimmetrici per il deficit (4%) e per il surplus (6%), una differenza che non ha alcun motivo di sussistere. Inoltre il rispetto di questi limiti dovrebbe essere reso più cogente, con l’obbligo per i paesi in deficit eccessivo ad assumere rapidamente misure adeguate a ridurlo; ma i surplus eccessivi sono altrettanto dannosi per la stabilità dell’area, perché ne frenano la crescita e hanno effetti deflazionistici, e, ove persistenti, dovrebbero subire una sanzione pari almeno al 10% del valore dello sforamento. Inoltre andrebbe posto sotto più attenta sorveglianza il livello dell’indebitamento del settore privato che, come insegna l’esperienza, lo Stato è costretto a soccorrere nei casi di crisi severe. Fisco. Viene stabilita un’aliquota minima sia per le imprese che per le persone fisiche. Agli Stati membri è fatto divieto di derogare a tale aliquota, anche tramite accordi specifici. In caso di inosservanza si applica una sanzione pari alla differenza tra l’aliquota minima e quanto effettivamente riscosso. L’aliquota base per le imprese non dovrebbe essere inferiore al 25%, ed è indispensabile anche l’unificazione dei criteri di definizione della base imponibile. Investimenti. Qualora esistano le condizioni per una raccolta di denaro sui mercati a un costo pari o interiore all’1% reale sulla scadenza decennale, l’Unione è tenuta a emettere debito comune, in misura non inferiore all’1% del Pil europeo, da redistribuire agli Stati membri secondo la rispettiva quota di partecipazione al bilancio comunitario. Queste somme dovranno essere destinati per lo 0,8% a investimenti in manutenzione straordinaria, tecnologia, salute, istruzione, edilizia sociale e per lo 0,2% alla cooperazione allo sviluppo. Il diavolo è nei dettagli Le definizioni. Qualsiasi proclamazione di principio può essere di fatto elusa se non c’è una reale volontà politica di perseguirla: basta manipolare opportunamente qualche definizione. L’esempio più classico sono le definizioni di occupazione e disoccupazione. Viene considerato occupato chi ha svolto almeno un’ora di lavoro retribuito nella settimana precedente la rilevazione, mentre per essere considerato disoccupato bisogna aver svolto un certo numero di attività nella ricerca di un lavoro. Si tratta di definizioni stabilite a livello internazionale, quindi non si può modificarle a piacimento: ma nulla impedisce di raccogliere anche dati che inquadrino il problema in modo più sostanziale. Per esempio, introducendo la definizione di “sotto-occupato” per chiunque non riesca a mantenere un’attività di lavoro continuativa, o lavori a part-time involontario, o comunque non riesca ad avere una retribuzione individuata come minimo vitale. Quanto alla disoccupazione, l’Ocse per esempio la classifica con sei diverse definizioni, che includono progressivamente più situazioni. Si tratta solo di un esempio, e il problema può essere esteso a tutti i punti di cui si è parlato. Nella classificazione degli investimenti, oppure in infinite questioni fiscali, come quello cruciale della definizione della base imponibile. Insomma, non basta dichiarare un obiettivo. Ogni parola usata per definirlo può fare la differenza nell’indebolirlo o renderlo solo formale. Conclusioni Le proposte qui elencate, se accettate, darebbero una direzione diversa alla politica economica europea, cosa di cui c’è un gran bisogno visto che negli ultimi vent’anni l’Eurozona è stata l’area economica – tra quelle più di rilievo – con il tasso di crescita più basso. Tutte sono importanti, ma alcune ancora di più: - fissare un obiettivo di occupazione abbandonando concetti squalificati come Nairu e Nawru La necessità di cambiamenti è diventata evidente persino a chi fino a prima della crisi pandemica sosteneva pervicacemente le vecchie politiche. Se saranno solo modesti ritocchi si sarà persa una importante occasione di porre riparo agli errori del passato. Carlo Clericetti
Giornalista - Collaboratore di "La Repubblica.it." Membro dell'Editorial Board di Insight. Blog: http://www.carloclericetti.it |