Colitti e l'eredità di Mattei
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Il fondatore dell'Eni era stato per lui come un secondo padre ed egli lavorò sempre perché se ne proseguisse la strategia, alla cui base era la collaborazione con i paesi arabi basata su conoscenza e stima reciproca. Un personaggio come Marcello Colitti, con una visione per nulla provinciale delle problematiche non solo energetiche, interessato alle novità, capace di sentirsi a casa dovunque, insofferente della routine, a chi ne aveva una conoscenza superficiale poteva sembrare il tipico professionista incline a cambiare di frequente azienda e paese, per arricchire le proprie competenze e - perché no? – il proprio portafoglio. Viceversa Colitti ha passato l’intera vita lavorativa nell’Eni. Una scelta che non ha mai stupito chi lo conosceva bene. Entrato nella società con una borsa di studio nel 1956, Colitti si identificò subito con la visione che dell’Eni aveva Mattei: un ente pubblico, con il compito di concorrere alla trasformazione dell’Italia in un moderno paese industriale, garantendone la sicurezza energetica. Questa sintonia fu rafforzata dalla prematura scomparsa di Mattei: lui, per Colitti, più che il capo-azienda era diventato un secondo padre, in sostituzione di quello biologico, perso drammaticamente a tredici anni. L’identificazione era tale che si rifiutò sempre di accettare che la morte di Mattei fosse stata provocata da un sabotaggio all’aereo su cui volava, anche quando la stessa indagine della magistratura arrivò a questa conclusione. L’idea di avere perso prematuramente entrambi i padri, era per lui insopportabile. Così, quando, secondo Colitti, le decisioni prese dal top management dell’Eni divergevano rispetto al progetto originario di Mattei, egli era solito reagire come una persona delusa da un parente stretto. Le sue critiche, spesso feroci, non l’hanno però mai portato a prendere in considerazione l’ipotesi di lasciare l’azienda, malgrado non mancassero le opportunità per farlo: sarebbe stata una slealtà per lui inconcepibile. Nel periodo centrale della sua attività all’Eni le sue critiche riguardavano spesso l’atteggiamento, prevalente all’interno del gruppo dirigente della società, nei confronti degli interlocutori arabi: “Li guardano dall’alto al basso, nutrono una sfiducia aprioristica nei loro confronti. I loro pregiudizi sono così radicati che non si preoccupano nemmeno di conoscerli meglio”. Memore dell’approccio seguìto da Mattei, Colitti era invece convinto che una collaborazione alla pari con i partner arabi fosse la scelta più conveniente per entrambe le parti, ma la precondizione per realizzare questo obiettivo era una maggiore conoscenza (e stima) reciproca. Questo convincimento lo portò a sobbarcarsi frequenti viaggi in Medio Oriente e in Africa, e a ricercare ogni opportunità di contatto che potesse essere utile. In tal modo acquisì una conoscenza approfondita di diversi paesi produttori di petrolio, che lo mise in grado di comprendere la loro storia, i loro costumi, la loro cultura. Grazie a questo background, dagli articoli e dai saggi che, soprattutto nella seconda parte della sua vita, dedicò all’analisi delle questioni energetiche, oltre alla competenza e alla perspicacia, emerge il tono sicuro di chi un certo mondo l’ha vissuto in presa diretta. Questi erano però gli effetti collaterali del successo ottenuto nel perseguimento dell’obiettivo principale: Colitti riuscì infatti a stabilire relazioni stabili con importanti oil men, che stimava e dai quali era stimato. Ne ho avuto conferma una quindicina di anni fa, quando avevo bisogno di informazioni credibili sulla disponibilità di GNL in Qatar. Colitti era già in pensione, eppure in pochi giorni riuscì a organizzarmi un incontro a Doha con i due ministri del governo del Qatar che si occupavano del settore. Nella seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso, con l’Occidente messo sotto shock dalla prima crisi petrolifera, Colitti, da poco nominato direttore della pianificazione Eni, si trovò nella condizione di realizzare “a piena scala” la sua idea di fondo: una politica di cooperazione a lungo termine fra acquirenti e produttori di idrocarburi, basata sulla reciproca fiducia, può massimizzare le convenienze di entrambe le parti e rappresenta quindi la risposta vincente alla crisi. Nacque così il “Progetto Interdipendenza”. Un team di economisti arabi ed europei mise a confronto strategie cooperative e non cooperative sia dei produttori che dei consumatori di petrolio. Lo studio, molto approfondito, evidenziò che la scelta della cooperazione era sempre vincente, in quanto consentiva di realizzare condizioni ottimali a livello sia politico (miglioramento delle relazioni reciproche), sia economico: maggiori investimenti nei paesi produttori a fronte di un prezzo equo del greggio, massimo sviluppo per tutte le nazioni coinvolte. Le conclusioni dello studio furono presentate nel 1981 a Roma, in un apposito incontro internazionale, alla presenza, grazie a Colitti, di importanti esponenti dei paesi produttori di petrolio. Situazione che rese ancora più clamorosa la completa assenza di uomini di governo e di politici italiani di rilievo, secondo alcuni per via di pressioni degli Stati Uniti, all’epoca contrari a qualsiasi cooperazione con i paesi OPEC. Un evento immaginato come punto di avvio di una nuova politica italiana verso i paesi produttori si trasformò in un interessante seminario di economia internazionale. Colitti ne fu talmente deluso da ritornare più volte, a voce e per iscritto, sul fallimento dell’iniziativa ed essendo uno che le cose non le mandava a dire, espresse chiaramente la sua disapprovazione per il comportamento del governo italiano a diversi top manager dell’Eni. Costoro, per lo più messi a quel posto grazie ai buoni rapporti con i partiti di maggioranza, alla prima occasione trasferirono Colitti a un incarico con minore visibilità esterna. Al suo posto, altri avrebbero tirato a campare. Lui, invece, non smise di mettere la propria creatività al servizio dell’Eni, come quando mise in piedi una nuova società del gruppo, Ecofuel, per la produzione di metanolo e di componenti clean per le benzine. Questa esperienza lo portò a confrontarsi per la prima volta concretamente con i temi dell’impatto ambientale provocato dall’uso di combustibili fossili ed è probabile che sia all’origine del suo successivo, maggiore interesse per le interazioni energia/ambiente. L’allargamento del campo delle indagini a problematiche prima trascurate, è una riprova della sua apertura mentale. Su un solo argomento – il ruolo dell’Eni - non cambiò mai posizione, nemmeno dopo un pensionamento avvenuto senza che nessuno del vertice aziendale mostrasse interesse a utilizzare in forme diverse la sua vasta conoscenza del mondo degli idrocarburi. Non gli piacque né la privatizzazione dell’Eni (“il suo ruolo in quanto ente pubblico non ha sostituti”), né lo scorporo della società (oggi “Snam Rete Gas”) che gestiva la rete di trasporto del gas. Nei confronti di una scelta inevitabile – in un mercato liberalizzato la proprietà di un monopolio naturale in mano all’incumbent crea un palese conflitto d’interessi – la sua consueta lucidità di giudizio venne meno, sia prima che dopo la separazione. Giusto un anno fa ero insieme a Marcello Colitti durante quella che credo sia stata la sua ultima apparizione pubblica, in un teatro di Trieste, entrambi intervistati da una giornalista sui principali accadimenti energetici del dopoguerra, in cui eravamo stati coinvolti. Nella circostanza Colitti ritrovò la verve dei suoi giorni migliori. Le sue risposte, brillanti e allo stesso tempo comprensibili al pubblico di non addetti che affollava il teatro, furono così affascinanti da strappare più volte gli applausi. Il pubblico triestino non sapeva che stava tributando il giusto riconoscimento a un uomo, il cui contributo sia pratico che culturale al mondo dell’energia era stato troppo spesso misconosciuto. Giovanni Battista Zorzoli è un ingegnere, è stato docente e manager ed è esperto di energia nucleare ed energie rinnovabili. È presidente di Ises Italia, sezione italiana dell'International solar energy society. --
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