Cile - Laboratorio del neo-liberismo e della diseguaglianza
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Una transición lenta e incierta a la democracia, mientras que sobrevive el Plan Laboral.de la dictadura. Sono passati 42 anni dal golpe di Pinochet che rovesciò il governo di Salvador Allende. La Junta militar attuò un piano di sterminio della parte del popolo cileno che si era impegnato nel processo di trasformazione del paese per ottenere più eguaglianza, libertà e benessere. Quella di Pinochet era una delle tante dittature militari del continente latino-americano sostenute dagli USA (fu Henry Kissinger a ordire le trame sovversive dei militari cileni). Anche il Brasile, l’Argentina e l’Uruguay subirono feroci dittature che si allearono per liquidare fuori delle frontiere dei rispettivi paesi propri cittadini che si battevano per la democrazia. Era la c.d. Operazione Condor. E’ innegabile che in Cile, sia pure con difficoltà, si siano compiuti passi importanti per mantenere viva la memoria collettiva della sua storia più recente, restituire dignità alle vittime della dittatura e punire gli assassini. Così, a Santiago è stato istituito uno splendido museo dei diritti umani, dando vita ad un precedente che altri paesi (come la Spagna) dovrebbero imitare, perché è un segmento significativo della costruzione di una cultura democratica e una coscienza civica. Visitando il museo, riesce difficile a chiunque trattenere l’emozione. Non a caso, in alcune sale, come quella ove sono conservati gli strumenti che i militari usavano per torturare prigionieri, è sconsigliato l’accesso ai minori di 14 anni. La dittatura ha lasciato in eredità una concezione dei rapporti di lavoro e dei diritti sociali che i successivi governi democratici e le relative maggioranze parlamentari non hanno potuto o voluto modificare. A cominciare dalla stessa costituzione; la quale, varata nel corso dell’ultima stagione di Pinochet, è rimasta inalterata, sia pure oggetto di un serio dibattito. Per adesso, il movimento per una nuova assemblea costituente è bloccato. La libertà di stampa è tuttora scarsa e comunque non consente un’informazione veritiera. I mezzi di comunicazione sono concentrati in mano a pochi; il impedisce il formarsi di un’opinione pubblica pluralistica. Il Cile è stato uno dei primi paesi latino-americani a concedere il diritto di costituire associazioni sindacali, anche se a tale riconoscimento i conservatori furono costretti dalla crescita spontanea di sindacati fuori-legge capaci di suscitare mobilitazioni di massa. Fu una legge del 1924 a prevedere il diritto di fondare sindacati. Era una legge autoritaria: subordinava la legalizzazione del sindacato neo-nato al gradimento del Capo dello Stato, introduceva forme penetranti di controllo del potere pubblico sulle dinamiche interne all’organizzazione, ammetteva soltanto la contrattazione aziendale e vietava la contrattazione collettiva sia nell’agricoltura (verrà ammessa soltanto nel 1964) che nel pubblico impiego. Inoltre, prevedeva la conciliazione obbligatoria dei conflitti collettivi. Due sono le fasi delle politiche del lavoro della dittatura; per quanto siano differenti tra loro, la violenta repressione di ogni dissenso è il loro comune denominatore. Dapprima, si cercò d’imporre un modello sindacale di stile franchista che comportava la soppressione della libertà sindacale, demonizzava lo sciopero e la contrattazione collettiva era piegata all’interesse dell’impresa. Già nel 1975, però, si cambiò spartito; non i musicanti. Il Plan Laboral della dittatura riconosceva formalmente la libertà sindacale, soprattutto per evitare il boicottaggio delle esportazioni cilene minacciato dai sindacati americani dell’AFL-CIO. I sindacati riconosciuti dal governo erano una caricatura di se stessi. In ossequio all’idea che la contrattazione collettiva non deve proporsi di redistribuire la ricchezza prodotta dal sistema-paese, questi sindacati possono agire solo a livello aziendale ed hanno interiorizzato una concezione (come dire?) oltranzista del pluralismo sindacale. La transizione alla democrazia continua ad essere estremamente lenta Dopo la plebiscitaria bocciatura del 1988 della richiesta di mantenere intatto il sistema istituzionale da lui instaurato, Pinochet accettò di negoziarne una riforma con alcuni partiti (tra i quali non figurava il partito comunista, peraltro fuori-legge). Il negoziato si concluse nel 1989, con l’entrata in vigore dell’attuale costituzione (che inter alia riservava a Pinochet la carica di senatore a vita). Naturalmente, durante tutto questo periodo non è cambiata una virgola del Plan Laboral della dittatura né si è ripristinato il sistema pubblico di previdenza sociale. Le proteste studentesche contro la mercificazione dell’istruzione cui accennavo poc’anzi contribuirono a ridurre il potere della destra e difatti i partiti dell’opposizione riuniti nella coalizione “Maggioranza Nuova” (nuova anche perché ne fa parte il partito comunista) si sono impegnati a riformare il malconcio settore dell’istruzione. In effetti, il cantiere delle riforme è aperto; ma la sua attività è intralciata dalla pressione rivolta ad ottenere il finanziamento pubblico delle università private. Grande è l’ambiguità di “Maggioranza Nuova” sulla riforma del Plan Laboral. Ad ogni modo, un progetto di legge c’è già ed è ora in discussione al Senato. Va detto subito però che gli elementi essenziali dell’originario Plan restano immutati. Il livello contrattuale privilegiato è ancora (come sempre) quello aziendale e lo sciopero, che può avere finalità esclusivamente contrattuali, resta esposto all’insidia del crumiraggio: che ci si guarda bene dal proibire con la necessaria durezza e chiarezza. Infine, con l’accordo del sindacato stipulante, il contratto collettivo d’impresa avrà efficacia per tutti gli occupati e dunque anche a quanti non hanno in tasca la tessera sindacale: ma questa innovazione è aspramente criticata dagli imprenditori che ci vedono una specie di sindacalizzazione obbligatoria. Gli argomenti per cambiare il meno possibile il Plan Laboral della dittatura sono privi di originalità. Anzi, sono sempre gli stessi. Come dire: prevedere la contrattazione collettiva di settore; riconoscere la libertà sindacale, incluso lo sciopero; condizionare il potere aziendale nelle sue varie accezioni, tutto ciò sarebbe una sciagura per l’economia. Il che appare perlomeno grottesco se si osserva che quasi il 50% dei lavoratori regolari a tempo pieno guadagna 337 euro al mese , e il 17% meno di 218, in un paese nel quale i prezzi non sono molto lontani da quelli correnti in Italia o Spagna e i servizi pubblici non sono affatto gratuiti. Un completo trionfo del neo-liberismo. Joaquín Aparicio Tovar
Catedrático de Derecho del Trabajo y de la Seguridad Social |