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La crisi che non passa sta incidendo profondamente anche sul ruolo delle banche centrali e sulle loro strategie e i dogmi degli ultimi trent'anni vengono rimessi in discussione.
La crisi che non passa sta incidendo profondamente anche sul ruolo delle banche centrali e sulle loro strategie. Quelle che nell'ultima trentina d'anni sono state considerate verità quasi dogmatiche vengono rimesse in discussione, i governatori esplorano nuove strade che contrastano con teorie consolidate. Ma sono svolte che, al momento, restano del tutto esterne alla zona euro, dove continua a regnare un'ortodossia che altrove appare ormai essere considerata inadeguata a fronteggiare i problemi dell'economia.
Ad essere messo in discussione persino il grande tabù: la banca centrale deve essere indipendente? Il primo a chiederselo è stato il premio Nobel Jo Stglitz, che in una conferenza in India, ripresa dalla stampa americana, ha osservato che Cina, India e Brasile, dove questa indipendenza è minore, "hanno fatto molto, molto meglio" degli altri paesi. Ma sul Financial Times del 10 gennaio solleva il problema (anche se con toni piuttosto preoccupati) Stephen King, capo economista del più grande gruppo bancario del mondo, l'Hsbc.
King si riferisce in particolare a quanto sta accadendo in Giappone. Il nuovo governo di Shinzo Abe è intervenuto pesantemente sulla Boj, chiedendo alla banca centrale un obiettivo di inflazione più alto (2% invece dell'1: ma il Giappone da anni combatte con la deflazione) in modo da indebolire lo yen. Ma qui siamo ancora vicini alla tradizione, quella in cui la politica monetaria si propone obiettivi di controllo della dinamica dei prezzi. Di eccezionale c'è l'ntervento così diretto del governo in materie di stretta competenza della banca centrale: intervento a cui è seguita, il 21 dicembre, la decisione della Boj di aumentare del 10% il programma di acquisti di titoli, fino a 101mila miliardi di yen (circa 900 miliardi di euro) e l'annuncio che nella prossima riunione di gennaio saranno rivisti gli obiettivi di inflazione. La novità, dunque, è la messa in discussione - in una delle più importanti economie del mondo - dell'assoluta indipendenza della banca centrale, per giunta da parte di un governo conservatore.
Più innovativo è stato invece un recente discorso del governatore della Bank of Canada, Mark Carney, che a breve andrà a svolgere lo stesso ruolo alla Banca d'Inghilterra (già designato, entrerà in carica a luglio 2013). Quando una banca centrale dichiara che manterrà una politica monetaria accomodante fin quando non ci sarà una ripresa consolidata dell'economia, ha detto Carney, se questo genera un'inflazione superiore a quella dichiarata come obiettivo, gli operatori del mercato possono temere che tale fatto possa indurre la banca a recedere dal proposito: bastano questi dubbi a ritardare la ripresa. E ha suggerito, di conseguenza, di assumere come obiettivo un determinato tasso di crescita del Pil nominale, anche se ciò può comportare un'inflazione superiore al target.
Sull’adeguatezza di questo obiettivo alcuni economisti hanno avanzato dubbi non infondati, ma ciò che qui interessa è che anche questo è un proposito che segna una discontinuità rispetto al central banking come è stato praticato da molti anni.
Ancora più radicale è stato Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve americana. Nella sua conferenza stampa del 12 dicembre ha detto, pur senza grandi approfondimenti, che la politica monetaria della Fed si manterrà espansiva fin quando il tasso di disoccupazione Usa non sarà sceso al 6,5%.
Ebbene, questa è davvero una svolta rivoluzionaria. Da lungo tempo la teoria prevalente è che le banche centrali debbano occuparsi di regolare la quantità di moneta in circolazione (e a questo, fino a una ventina di anni fa, si riferivano i target annunciati dai governatori) e di controllare l'inflazione (e questa è stata l'evoluzione successiva). Alcune banche centrali - ma non la Bce - comprendono nella loro mission anche il sostegno della crescita e nella legge istitutiva della Fed, del 1913, si pone tra gli obiettivi anche il maximum employment. Ma il tasso di occupazione è stato, almeno nell'ultima trentina d'anni, ritenuto del tutto estraneo ai compiti di una banca centrale, e non per caso.
L'occupazione, affermano la maggior parte delle teorie economiche (e comunque quelle dominanti) è il risultato della flessibilità del lavoro e delle struttura dell'economia, e dunque se c'è crescita con inflazione sotto controllo l'occupazione ne consegue. Ora la mossa di Bernanke afferma che questa non è una legge sempre valida, e che controllo dell'inflazione e riduzione dei disoccupati possono essere obiettivi in conflitto. Un cambiamento clamoroso, anche perché non è solo teorico: la Fed si è convinta di questo fatto e agirà di conseguenza. Per la verità Bernanke si è “coperto” affermando che si può tollerare un’inflazione più alta nel breve periodo finché questo non incide sulle aspettative di medio-lungo. Ma ciò non toglie che sia la prima volta che viene enunciato un preciso obiettivo numerico sul tasso di disoccupazione.
E' bene ricordare che Bernanke non è un politico insediato alla Fed da amici di partito. Ha studiato ad Harvard e insegnato a Princeton, quanto a dire due delle più prestigiose università non solo americane, ma del mondo. Prima di diventare presidente della Fed ha studiato a fondo la crisi del '29: e forse è proprio per questo che è stato designato a succedere ad Alan Greenspan. Designato da George W. Bush, non da un presidente democratico (Obama lo ha poi riconfermato). Inoltre, alcuni osservatori ricordano che nella sua carriera accademica è stato un importante sostenitore dell'inflation targeting. Se dunque ora ha cambiato idea, questo è dovuto evidentemente alle lezioni che sta traendo dall'evoluzione dell'attuale crisi. (Una parentesi: i commentatori attribuiscono la paternità dell'idea a Charles Evans della Fed di Chicago, e bisogna anche considerare che Bernanke è un "primus inter pares" nel Federal open market committee, l'organo esecutivo composto dai presidenti delle varie Fed; ma questo nulla toglie all'importanza della svolta).
Alla luce di quanto sta accadendo nei paesi più importanti del mondo, come potremmo definire la politica economica e monetaria europea? Quella dettata in primo luogo dalla Germania di Angela Merkel, sostenuta dalla Commissione e accettata dalla Bce? Torna alla mente una vecchia definizione, "eurosclerosi". Una politica che mette in cima alle preoccupazioni il consolidamento dei conti pubblici, e non per un periodo limitato, ma per tutti gli anni a venire, dati gli impegni assunti con il "fiscal compact". Che impone agli Stati più in difficoltà politiche pesantemente recessive, con relativa esplosione della disoccupazione (in Grecia e in Spagna supera il 25%, altro che l'8% statunitense!). Che vuole mantenere la Banca centrale in una condizione che la priva di strumenti che tutte le altre banche centrali hanno e che vede levarsi voci scandalizzate persino per le decisioni che, restando in quei limiti, la Bce assume per fronteggiare i guai più macroscopici. Che antepone miopi egoismi nazionali e interessi particolari (le prossime elezioni, la carriera futura) ai problemi di un continente che sta affrontando la seconda recessione a breve distanza dalla precedente.