Mentre entriamo nel quinto anno della crisi americana dopo il crash della Lehman Brothers, l’analisi delle sue origini si è arricchita, ed è diventata più convincente. Non si è trattato solo di una grande crisi finanziaria. Sotto un certo profilo tutte le crisi di carattere generale assumono un carattere finanziario. E’diventato sempre più chiaro che la diseguaglianza vi ha giocato un ruolo fondamentale. Se in un paese i redditi si polarizzano, dando luogo a un ristretto cerchio sempre più ricco e una base impoverita, il ristagno dei salari comporta il ristagno dei consumi e conseguentemente degli investimenti.
Questo in linea di principio. Ma negli Stati Uniti, nel corso dell’ultimo ventennio, la crescita è continuata nonostante la crescente diseguaglianza nella distribuzione redditi e la stagnazione dei salari. Si è trattato di un miracolo? Evidentemente, no. La stagnazione dei salari è stata compensata dall’aumento vertiginoso dell’indebitamento delle famiglie. Scrive Jeff Faux in The Servant Economy: “Il trentennio di di appiattimento dei reddito ha spinto le famiglie verso un crescente indebitamento …Nel 1980 il debito era il 70 per cento del loro reddito disponibile. Nel 2007 quasi il 140 per cento".
Il debito legato ai mutui subprime al quale si fa risalire la crisi finanziaria è stato solo la punta dell’iceberg . Le famiglie si sono indebitate per far fronte alle spese sanitarie cresciute fra il doppio e il triplo dell’inflazione media; per pagare il college dei figli (ora i debiti accumulati per gli studi hanno raggiunto la cifra astronomica di un trilione di dollari); hanno fronteggiato l’insufficienza dei rediti da lavoro facendo ricorso alle carte di credito. Non è un caso che il rifinanziamento del mutuo per la casa, offerto dalle banche con bassi tassi d’interesse iniziali e senza particolari garanzie, sono sati utilizzati per rimborsare altri debiti con più alti tassi di interesse.
Qual è l’origine di questo crescente squilibrio dei redditi? Le spiegazioni più in voga sono individuate nel processo di globalizzazione dei mercati e della finanza e (alternativamente, o insieme) nell’avvento delle tecnologie informatiche che hanno reso obsoleti i tradizionali modelli di lavoro e le relative competenze. Questi processi di trasformazione sono reali. Ma non spiegano il fenomeno dirompente della diseguaglianza.
Secondo le più recenti rilevazioni dell’Economic Policy Institute di Washington, la produttività è cresciuta fra il 1973 e il 2011 dell’80,4 per cento, mentre il compenso reale orario di un lavoratore mediano (collocato alla metà della scala dei redditi), è aumentato nello stesso periodo del 10,7 per cento. E’ interessante osservare che, se i guadagni di produttività fossero stati distribuiti equamente, come accadeva nei primi decenni del dopo-guerra, il salario sarebbe aumentato nella stessa proporzione della produttività. L’indebitamento delle famiglie si sarebbe mantenuto entro livelli fisiologici. La sconnessione fra produttività e salari è poi diventata clamorosa nell’ultimo decennio con la stagnazione del salario a fronte di un aumento della produttività di quasi il 23 per cento.
“Il mercato del lavoro – scrive Emanuel Saez nella più completa analisi disponibile sull’argomento – ha creato una crescente diseguaglianza negli ultimi trent’anni, avendo il top dei percettori dei redditi catturato una larga parte dei guadagni di produttività (Striking it Richer: The Evolution of Top Incomes in the United States, 2012). L’1 per cento della popolazione al vertice della scala dei redditi ha visto crescere i propri guadagni da circa il 9 per cento al 23,5 per cento del reddito nazionale, ritornando alla situazione del ’29. E, per buona misura, il fenomeno si è intensificato alla vigilia della crisi attuale, quando “fra il 2002 e il 2007, l’1 per cento si è appropriato dei due terzi della crescita dei redditi” (ibidem).
Questo squilibrio rivela un’alterazione profonda dei rapporti di potere a livello sociale. Le classi lavoratrici hanno visto declinare verticalmente il loro potere negoziale. I sindacati, ai quali è demandata la contrattazione collettiva, sono stati privati di potere contrattuale ed emarginati. Nel settore privato solo il 7 per cento di lavoratori ha una rappresentanza sindacale. Il conflitto sociale è spento, e tutto il potere è nelle mani delle imprese. Qui non possiamo non vedere una ragione concreta dell’impoverimento elle classi lavoratrici e dei ceti medi, dell’indebitamento patologico delle famiglie e della crescente diseguaglianza.
Barack Obama ha cercato di porvi riparo, appoggiando la politica monetaria iper-espansiva della Federal Reserve, provando a riformare la sanità per generalizzare il diritto all’assistenza di cui sono privi 50 milioni di americani, prolungando l’indennità di disoccupazione in linea generale limitata a 26 settimane e salvando l’industria dell’auto.
Non è stata tuttavia una politica sufficiente a riportare la disoccupazione ai livelli considerati accettabili in America, a combattere la povertà (45 milioni di americani vivono di “food stamps”, i buoni per acquistare piccole quantità di cibo), a rilanciare gli investimenti pubblici nelle infrastrutture che erano parte fondamentale del suo programma elettorale. E ora Obama paga le incertezze e le insufficienze della sua politica con il rischio di dissipare il capitale di consenso col quale aveva guadagnato la presidenza e di lasciare la Casa Bianca a Mitt Romney, erede di Reagan e dei due Bush.
Questo, in breve, la discutibile politica di Obama nella gestione della crisi. Ma guardiamo all'Europa e, in particolare. all’eurozona. Qui non vi sono incertezze. L a politica dell’’asse Francoforte-Berlino-Brussel ha avuto un solo colore. Quello di una politica neoconservatrice, basata sulla teoria dell’ “expansionary austerity”, l’austerità che crea espansione, accompagnata dalle riforme strutturali. I risultati sconvolgerebbero qualsiasi governo animato da buon senso. Ma non il governo tedesco che domina la scena politica dell’eurozona, condizione la BCE, controlla la tecnocrazia di Bruxelles.
La politica monetaria americana è stata, e promette di essere, espansiva, quella dell’eurozona è vincolata ai programmi di austerità e riforme strutturali. Gli storici saranno stupiti di questa cecità.
In nome dell’austerità, la Grecia vive il quinto anno di recessione, con una disoccupazione prossima al 25 per cento, mentre contemporaneamente l’aumento del debito pubblico è passato da meno del 120 al 160 per cento del PIL. Il risultato è un paese ridotto sull’orlo della guerra civile.
La stessa politica sta sconvolgendo la Spagna, all’ombra di un governo di destra indifferente alla disoccupazione di massa che ha già superato il 25 per cento, mentre la crisi minaccia la rottura dell’unità nazionale.
L’Italia, che vive in una sorta di incantesimo prodotto dal governo tecnocratico di Mario Monti, sprofonda nella più grave recessione dell’eurozona (eccetto la Grecia), mentre inevitabilmente cresce il debito pubblico e si disgrega ciò che rimane della grande industria (dall’auto all’acciaio).
Ma il punto non è solo la politica monetaria europea, profondamente contrapposta a quella americana. Il paradosso e la vocazione autolesionista si legge ancora più facilmente nella politica delle cosiddette riforme di struttura che l’austerità ha il compito di facilitare. Esse hanno due obiettivi fondamentali: la riduzione dei salari con la distruzione del potere contrattuale dei sindacati e la compressione del welfare: pensioni, istruzione, sanità.
Il principio è che la deflazione dei salari aumenta la produttività e la competitività. Ma poiché tutti i paesi sono indirizzati sulla stessa linea, l’unico risultato è la recessione per tutti e la distruzione della base produttiva per i paesi più deboli. Come dire che l’Unione europea copia dall’America non la linea più razionale, benché insufficiente, di una politica monetaria espansiva, ma quella che, approfondendo la diseguaglianza, ha potentemente contribuito a generare la crisi: la riduzione del potere contrattuale dei lavoratori, l’emarginazione dei sindacati, la riduzione della spesa sociale, dalle pensioni, all’istruzione, alla sanità. L’americanizzazione delle politiche sociali come obiettivo dei governi di destra e tecnocratici che dominano largamente l’eurozona.
E’ una situazione riparabile? Sperare nel ravvedimento della Germania è una speranza che appare del tutto illusoria. E’ molto difficile che la Germania del dopo elezioni, fra un anno, possa rovesciare la sua politica. O, per lo meno, lo è, in mancanza di un vasto e profondo cambiamento dello scenario politico. E il primo cambiamento dovrebbe venire dai paesi che la crisi rischia di travolgere. Innanzitutto, dalla Spagna e dall’Italia, oggi governati da una sorta di viceré al servizio di Berlino. E possibilmente dovrebbe venire dalla Francia, dove governa un presidente animato da buoni propositi ma timido verso la Germania, più incline ad assecondare, sia pure malvolentieri, la linea politica di Angela Merkel che non a mostrarne l’assurdità e i pericoli per la sopravvivenza dell'euro.
Cambiare la politica tedesca s è senza dubbio impresa ardua. Ma subirne la sua miope egemonia sta portando l’eurozona su una strada senza uscite che prelude, non ostante i generosi auspici del premio Nobel, alla disgregazione dell’ Unione europea.