Attualità dello Statuto dei lavoratori
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Una riforma non neutrale rispetto all’assetto di potere, che migliorava la posizione della parte più debole nel rapporto lavorativo, La richiesta neoliberista di ristabilire piena flessibilità del mercato del lavoro ha in realtà l’obiettivo di modificare i rapporti di forza contrattuale tra lavoratori e datori di lavoro. Nella contrapposizione tra dignità del lavoratore ed esigenza dell’organizzazione gerarchica, molto dipende da come le cose sono organizzate concretamente. Tra i due estremi di una società schiavista e di una società di lavoratori autonomi – di fatto impossibile, dati gli irrinunciabili vantaggi della divisione del lavoro – esiste un vasto terreno intermedio. La maggiore o minore vicinanza all’uno o all’altro estremo dipende dalle istituzioni (cultura e leggi); lo sviluppo civile, che è favorito dallo sviluppo tecnologico ed economico, comporta uno spostamento in direzione opposta rispetto alla società schiavistica. Arriviamo così allo Statuto dei lavoratori, che a maggio ha compiuto cinquant’anni. Si tratta di una legge che rappresenta uno spostamento deciso, ma economicamente, politicamente e socialmente sostenibile, nella direzione di una società più civile. Ha suscitato tante controversie ed è stata modificata più volte, ma per molti aspetti ha retto bene il tempo – il che dipende anche dal lungo lavoro speso per costruirla, da parte di un ampio gruppo di politici e specialisti, non solo di diritto ma anche di economia, statistica, perfino medicina del lavoro. Risulta difficile spiegare a chi non ha avuto una esperienza diretta degli anni Cinquanta e Sessanta la portata, non rivoluzionaria ma certo di notevole cambiamento, che lo Statuto ebbe, con la scomparsa più o meno graduale e mai completa dei ‘reparti punizione’ nelle fabbriche – spesso i reparti presse o verniciatura –, delle squadre di picchiatori mascherate da squadre amatoriali di rugby per debellare i picchetti in occasione degli scioperi, delle ripetute molestie sessuali cui erano sottoposte le lavoratrici da parte di capi e capetti, della selezione politicamente faziosa dei lavoratori da assumere; e così via. Certo la situazione non poteva cambiare da un giorno all’altro, ed era necessario per molti aspetti un vero e proprio cambiamento di mentalità: purtroppo ancora non del tutto raggiunto, anche se aiutato dal graduale cambiamento della natura del lavoro con l’ampliamento dei contenuti specialistici e della quota di lavoratori qualificati, anche altamente qualificati: un cambiamento che si è accelerato con l’informatizzazione dei processi produttivi, nei servizi come nella manifattura. Purtroppo gli elevati livelli di disoccupazione accrescono il potere relativo dei datori di lavoro e le violazioni dello Statuto non sono infrequenti, pur trovando un argine in una cultura diffusa più sensibile alla difesa della dignità dei lavoratori di quanto fosse sessant’anni fa. Lo Statuto, dunque, cercava di ampliare gli spazi di dignità del lavoro e del lavoratore. Gli aspetti sui quali intervenne sono molteplici, anche se il dibattito successivo si è concentrato quasi esclusivamente sul licenziamento per giusta causa. Anche qui, come si è visto nei dibattiti successivi, il problema è stato quello di trovare il giusto equilibrio tra le esigenze di flessibilità imprenditoriale e le esigenze di stabilità esistenziale del lavoratore. Il licenziamento non può essere adottato a piacimento, ma solo per “giusta causa” o per “giustificato motivo”: in tutte le discussioni successive, il principio non è mai stato posto in discussione, mentre la discussione, spesso accesa, ha riguardato la sua esatta declinazione. Un aspetto per il quale i cambiamenti sono stati anche più drastici, fino all’abrogazione nel 2002 dei relativi articoli 33 e 34 dello Statuto, riguarda le assunzioni. Qui il problema era quello di stabilire il confine tra chiamate numeriche (dagli elenchi dei disoccupati predisposti dagli uffici del lavoro) e chiamate nominative: le prime permettevano con certezza, al di là delle dichiarazioni di principio, di evitare discriminazioni politiche, razziali o sessuali nelle assunzioni; le seconde permettevano all’azienda di scegliere i lavoratori più adatti alle mansioni che erano destinati a ricoprire. Ricordo al riguardo una lunga discussione, in uno dei gruppi di lavoro organizzati da Giugni per la stesura della legge, tra i fautori della chiamata numerica e quelli della chiamata nominativa nel caso dei palombari del porto di Genova: il metodo di lavoro seguito da Giugni nella scrittura della proposta di legge – un metodo che risentiva della sua formazione statunitense – consisteva appunto nell’individuare, articolo per articolo, casi concreti sui quali verificare gli effetti di formulazioni alternative della normativa. La statuizione di nullità delle sanzioni nei casi di violazione delle procedure è rimasta immutata per mezzo secolo, è ribadita nella normativa successiva allo Statuto e nei contratti collettivi di lavoro ed è regolarmente confermata nei casi di ricorso all’autorità giudiziaria. Il dibattito tra economisti sullo Statuto ha riguardato soprattutto la cosiddetta flessibilità del mercato del lavoro; in questo senso coinvolge il confronto tra impostazioni teoriche contrapposte nel campo dell’economia. La tradizionale teoria marginalista, tuttora dominante, ritiene che la “mano invisibile” del mercato sia in grado di realizzare equilibri ottimali, garantendo il pieno utilizzo delle risorse disponibili (e quindi la piena occupazione) se solo si assicura la piena competitività del mercato del lavoro: si ritiene cioè che la flessibilità verso il basso del salario prodotta dalla concorrenza tra i lavoratori alla ricerca di un posto di lavoro in presenza di disoccupazione favorisca l’aumento della domanda di lavoro e quindi il ritorno all’equilibrio di piena occupazione. La teoria keynesiana, viceversa, ritiene che la diminuzione del salario sia semmai controproducente, generando un calo della domanda di beni e servizi di consumo e quindi anche degli investimenti, proprio quando la presenza di disoccupazione segnala che la domanda aggregata è troppo bassa. Inoltre, sulla scia di una lunga tradizione che risale a Turgot e Adam Smith per giungere fino a Elton Mayo, molti studi applicati mostrano che un maggior senso di coinvolgimento o quanto meno un minor senso di contrapposizione dei lavoratori rispetto all’impresa favorisce aumenti di produttività. Cosa diversa, e assai poco considerata nel dibattito economico, è l’importanza della flessibilità organizzativa all’interno delle imprese in presenza di cambiamento tecnologico. Qui il problema non riguarda la possibilità di licenziare, ma piuttosto quella di modificare (magari anche in meglio) le mansioni lavorative, con la disponibilità dei lavoratori ad affrontare nuove sfide e quella delle imprese ad organizzare quando necessario percorsi di riqualificazione (e a concordare/giustificare con il lavoratore la riorganizzazione del processo produttivo: un aspetto in cui hanno eccelso datori di lavoro e sindacati tedeschi, con notevoli vantaggi in termini di competitività internazionale). Di questa flessibilità c’è bisogno, in misura maggiore di quanto finora riconosciuto da parte sindacale in paesi come l’Italia e il Regno Unito (con il rischio, che in qualche misura si è concretizzato, che di fronte alla resistenza di retroguardia a questo tipo di flessibilità si sia poi costretti ad accettare la più generale flessibilità di tipo neoliberista). Una migliore comprensione dei fondamenti valoriali, giuridici, economici e politici dello Statuto è condizione necessaria per una sua continua vitalità, pur con i necessari cambiamenti. Una rivitalizzazione dello Statuto potrebbe anzi costituire l’avvio di una nuova stagione di riforme. Un elemento importante di cui tenere conto in questo senso è la globalizzazione, con la crescente importanza della concorrenza tra sistemi economici basata su sistemi tributari (e quindi di welfare state) più leggeri, su regolamentazione ambientale e di sicurezza sul lavoro più lassista, e anche su un mercato del lavoro più squilibrato a favore dei datori di lavoro. Si pensi a un sistema come quello ungherese, nel quale il lavoratore deve pagare, e parecchio, per A. Roncaglia 9 Moneta e Credito potersi licenziare: un capovolgimento rispetto al nostro Statuto, ma che certo ha attirato verso l’Ungheria, negli ultimi anni, gli investimenti diretti di molte imprese tedesche. * La situazione politica che ha condizionato la forma assunta dallo Statuto dei lavoratori – la necessità di ottenere il voto democristiano in Parlamento e, allo stesso tempo, di evitare l’ostruzionismo parlamentare da parte sia del PCI sia dei partiti di centro-destra – è illustrata dalla relazione di Gianfranco Pasquino (2021), in questo volume. Altre relazioni, pubblicate di seguito, discutono la struttura giuridica della legge (Sciarra, 2021), le sue implicazioni economiche, in particolare per l’occupazione (Simonazzi, 2021), l’evoluzione che la legge ha 6 Lavoro costrittivo e dignità del lavoro Moneta e Credito subito nei cinquant’anni successivi alla sua approvazione (Santoro-Passarelli, 2021, per gli aspetti giuridici; Regalia, 2021, per quelli sociali e politici). Pasquino A. (2021), “Inquadrare lo Statuto dei lavoratori nei suoi tempi”, Moneta e Credito, 74 (293), pp. 27-33. (L'articolo è tratto dal saggio pubblicato su "Moneta e Credito" V. 74, N. 293 (2021) col titolo "Lavoro costrittivo e dignità del lavoro (Constrictive labour and the dignity of work)" - Contributo al convegno "Lo Statuto dei lavoratori compie cinquant'anni") Alessandro Roncaglia
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