Abolire la contrattazione nazionale per tagliare i salari nel Mezzogiorno?

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Le cosiddette "gabbie salariali" furono abolite molti decenni fa. Ora eminenti economisti propongono di ristabilirle.

Sono i contratti nazionali la rovina del Sud? Lo affermano, in uno studio ancora non pubblicato, tre noti economisti: Andrea Ichino, dell'Istituto universitario europeo di Firenze, che ha presentato la ricerca al Festival dell'economia di Trento; Tito Boeri, della Bocconi, attualmente presidente dell'Inps; e Enrico Moretti, dell'Università di California, un cui saggio del 2013 (“La nuova geografia del lavoro”) ha suscitato grande interesse negli Usa, tanto da farlo convocare alla Casa Bianca per parlarne. Ichino è fratello di Pietro, alfiere delle proposte per il "superamento" dell'articolo 18 (detto in volgare: per facilitare i licenziamenti) che poi sono state sostanzialmente recepite nel Jobs act del governo Renzi. E dunque nelle proposte dei tre (d'ora in poi, IBM: la consonanza con la multinazionale è casuale) si coglie una certa aria di famiglia.

Secondo IBM, dunque, i contratti nazionali, che fissano minimi salariali uguali per tutti, generano una serie di effetti negativi. Al Sud la produttività è più bassa e quindi, a parità di salario, il costo del lavoro per unità di prodotto è maggiore che al nord. Questo fa sì che l'economia vada peggio e che ci sia meno lavoro, il che, in passato, ha spinto molti ad emigrare al Nord. Ora questo flusso si è arrestato, perché ha anche fatto salire il prezzo delle case. Il costo della vita più elevato al Nord fa sì che, a parità di salari "nominali" (cioè, qui si intende, non corretti per il potere d'acquisto) un lavoratore meridionale guadagni di fatto più di un suo omologo settentrionale.

Non solo quindi, dicono IBM, il Sud - avendo una produttività più bassa - è meno competitivo e quindi non cresce e i posti di lavoro non aumentano, ma questo meccanismo finisce per favorire due sole categorie: quelli del Sud che un lavoro ce l'hanno, che - tenendo conto del potere d'acquisto - sono più benestanti dei loro colleghi del Nord, e i settentrionali proprietari di case. Il costo della vita nel Mezzogiorno, ha detto Ichino, è più basso in media del 16% rispetto al Nord; un bancario con cinque anni di anzianità ha un potere d'acquisto a Milano inferiore del 27,3% a un suo omologo che viva a Ragusa (tenendo conto anche del costo della casa, che al Nord è il 36% in più); un insegnante di Milano ha un potere d'acquisto del 32% inferiore a uno di Ragusa e dovrebbe guadagnare il 48% in più per "pareggiare".

La soluzione - dicono IBM - sarebbe di eliminare i minimi stabiliti dai contratti nazionali e spostare la contrattazione del salario a livello di azienda. O almeno, come è stato fatto in Germania, varare una norma che permetta di derogare ai minimi contrattuali. "Il risultato sarebbe un aumento dell’occupazione al Sud oltre ad una riduzione dell’occupazione sommersa", ha affermato Ichino in una intervista. Naturalmente le retribuzioni dell'area scenderebbero, ma non c'è da temere un effetto deflattivo: "Se la riduzione dei salari nominali consentisse un maggior livello di occupazione al Sud, la domanda di beni di consumo al Sud aumenterebbe. Quindi non riesco a vedere perché dovrebbe determinarsi questo effetto deflattivo".

Non ci fermiamo su questo postulato secondo cui basta ridurre i salari per far aumentare i posti di lavoro (e restringere il sommerso), limitandoci ad osservare che nella realtà questa relazione meccanica non esiste. Altre domande, però, vengono spontanee. Che c'entrano gli stipendi degli insegnanti (cioè i dipendenti pubblici) con la produttività delle imprese? La contrattazione "aziendale" dovrebbe applicarsi anche alla pubblica amministrazione? Cioè la retribuzione di un insegnante dovrebbe essere contrattata scuola per scuola, quella di un impiegato ufficio per ufficio? E' chiaro che sarebbe un'idea balzana e probabilmente non è a questo che pensano i tre autori.

Ma questo miscuglio di pubblico e privato non è un aspetto secondario, e influenza in modo imponderabile i dati su cui si basa lo studio. Ichino ha detto che i dati sui salari sono quelli che provengono dall'indagine trimestrale dell'Istat. Sono dati che non vengono diffusi su base provinciale (e nemmeno per grandi ripartizioni geografiche), quindi dobbiamo supporre che gli autori abbiano chiesto all'Istat di accedere alla documentazione di base. Questa indagine, però, fornisce notizie molto approssimative. Intanto il campione non è grandissimo (80.000 persone per tutta Italia); poi non distingue tra dipendenti pubblici e privati. Le retribuzioni dei pubblici sono sicuramente uguali a Milano e a Ragusa, ma quelle dei privati? Se l'indagine considera tutti insieme (come fa) abbiamo delle medie che ricordano il pollo di Trilussa.

Sulle retribuzioni dei lavoratori privati possiamo ricorrere invece a un'indagine di Bankitalia. E' del 2008, cioè all'inizio della crisi, e quindi si può ben supporre che i dati per i lavoratori del Sud siano semmai ulteriormente peggiorati, visto che il Meridione è l'area europea che ha più sofferto per la crisi (addirittura più della Grecia). Ebbene, prima che ciò accadesse i lavoratori di Ragusa guadagnavano già molto meno di quelli di Milano. Ecco il grafico tratto dall'indagine Bankitalia.

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Come si vede, i lavoratori dell'industria in senso stretto stavano nel 2008 circa il 17% al di sotto dei colleghi del Centro-Nord, quelli dei servizi circa il 13. E' evidente che i minimi salariali fissati nei contratti nazionali non impediscono affatto che si crei una differenza fra le diverse zone del paese: la differenza la fanno i premi, gli straordinari, i contratti integrativi aziendali (in quelle poche aziende dove si fanno). Una differenza che, guarda caso, più o meno corrisponde al divario di costo della vita indicato da IBM (il 16%). Senza contare che il costo della vita si ottiene deflazionando a livello provinciale il reddito con i prezzi: ma, ancora una volta, in quel reddito medio ci sono pubblici e privati insieme e anche non dipendenti, quindi non è il potere d'acquisto dei lavoratori dipendenti del settore privato. Quanto ci si avvicini, da questi dati è impossibile dirlo.

Quella di scaricare sul livello del salario i problemi della produttività è peraltro un'idea vecchia e già abbondantemente discussa. Recentemente, per esempio, proprio sul sito fondato dal professor Boeri è stato pubblicato un ottimo articolo di Salvatore Perri che replicava appunto alla tesi che i problemi del Meridione siano provocati da retribuzioni troppo elevate. Quanto poi alla proposta di permettere di derogare ai contratti nazionali, la norma c'è già: è l'articolo 8 della legge 148/2011, quella della manovra varata dal governo Berlusconi dopo la famosa lettera della Bce, e consente accordi in deroga non solo ai contratti ma anche alle leggi, ed è stata per questo pesantemente criticata da molti giuslavoristi, come ad esempio - tra i più autorevoli - Umberto Romagnoli.

Stupisce che tre studiosi che godono di indubbio prestigio tra gli economisti propongano una ricerca che fa acqua sia dal punto di vista teorico che metodologico. La spiegazione va ricercata evidentemente in un altro campo, quello politico. Abbattuto l'articolo 18, infatti, il prossimo bersaglio di chi punta alla destrutturazione di tutti gli istituti di difesa del lavoro è appunto la contrattazione nazionale. Un sindacato ridotto a contrattare solo a livello locale non conterebbe più nulla e andrebbe verso la scomparsa. Il fatto è che i nostri sindacati hanno un milione di difetti (alcuni sindacati più di altri), ma dove le organizzazioni dei lavoratori non ci sono o non contano i lavoratori stanno peggio, e questo lo dice persino il Fondo monetario. Siccome a disuguaglianza stiamo già ben avanti, non si vede perché dovremmo farla aumentare ancora. Senza contare che, eliminati i minimi contrattuali nazionali, sarebbe scontata l'introduzione di un salario minimo per legge (di questo Ichino nella sua esposizione non ha parlato, ma è noto che la misura è nei progetti del governo). A quel punto si potrebbe celebrare il funerale della contrattazione e dei sindacati, almeno di quelli che non siano graditi alla parte datoriale.

Anche perché di contrattazione aziendale si parla da anni, ma a tutt'oggi - secondo l'Istat - non è praticata in più di un quinto delle imprese e anzi negli ultimi anni è addirittura diminuita. Si andrebbe quindi verso un appiattimento sul salario minimo legale per la grande maggioranza dei lavoratori, salvo magari i premi elargiti a discrezione dei datori di lavoro. Questa sì che sarebbe rottamazione: di tutte le conquiste faticosamente ottenute nell'ultimo secolo, molte delle quali sono già scomparse negli ultimi anni. Ci si potrebbe chiedere se grazie a questo l'economia vada meglio. Dipende: l'economia di chi?

Carlo Clericetti

Giornalista - Collaboratore di "La Repubblica.it." Membro dell'Editorial Board di Insight. Blog: http://www.carloclericetti.it