4 dicembre: bocciatura di un referendum antidemocratico

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L’esito del referendum ha certificato la distanza tra i cittadini e il sistema politico, insieme col rigetto delle politiche del governo.

Anche se nel 2006 si proponeva di diventarlo in una forma istituzionalmente compiuta, il berlusconismo non era un regime. E’ rimasto un modello culturale. Una concezione generale del mondo che ha sedotto l’opinione pubblica, condizionando gli stili di vita individuale e collettiva. Su di essa le parentesi prodiane, montiane e lettiane sono state ininfluenti. Il referendum del 4 dicembre invece ha inferto un colpo di scure e segna una profonda discontinuità. Per questo, ha un’importanza storica. Annuncia una svolta e le sue implicazioni sono paragonabili a quelle del referendum istituzionale del 1946, che punì la monarchia per la complicità prestata all’avvento del fascismo e la vile ignavia con cui assistette alla sua fine.

L’esito della madre di tutti i referendum, però, è tuttora contestato, perché l’esiguo scarto con cui prevalse l’opzione per la Repubblica non è mai uscito dal cono d’ombra dei sospetti in ordine alla sua veridicità. Gli stessi governanti dell’epoca, come documenta la storiografia, trascorsero molte ore di paura: la paura che un popolo disabituato a prendere decisioni riguardanti il suo futuro non avesse osato disfarsi della monarchia. Stavolta, invece, nulla di tutto ciò. Il risultato referendario è cristallino e inattaccabile. Il popolo non ha esitato a reclamare il tentativo di un nuovo inizio. Ha agito con la consapevolezza della raggiunta maturità democratica. E questo progresso è ascrivibile ad una costituzione che ha promosso e garantito un processo di crescita politico-culturale diffusa. Ecco perché, a distanza di 70 anni, dobbiamo dire grazie ai padri costituenti.

Dicendo questo, intendo affermare che il referendum non l’hanno vinto i partiti. Né lo hanno vinto la frantumata e dispersa sinistra che sta fuori del PD né la sinistra interna al medesimo. Però, non lo ha vinto nemmeno la costituzione. Perlomeno, bisogna riconoscere che è stata gravemente ferita, sia perché è stata amputata della sua vera funzione, quella di garantire la coesione sociale malgrado il variare del quadro politico, sia perché la motivazione del voto referendario è stata in larga misura slegata da giudizi sul merito della riforma costituzionale. La verità è che il testo del ’48 è stato usato sia come diversivo rispetto ai problemi reali del paese sia come terreno di scontro tra governo e opposizione. Dunque, anche ammettendo che la costituzione abbia vinto, lo scontro l’ha sfregiata. Peraltro, era giunta all’appuntamento referendario logora e affaticata.

Viviamo in una stagione in cui, smarrita la capacità di distinguere tra fatti e finzioni, le cose non sembrano come sono. Nemmeno questo referendum era quel che appariva. Eppure, formalmente si è svolto in applicazione di una norma costituzionale, l’art. 138, la quale ne prevede l’attivazione per interrogare l’elettorato sull’opportunità di revisioni del patto su cui si regge la civile convivenza. Stavolta però il referendum si è sovraccaricato di una funzione supplementare e qualitativamente distinta da quella di sollecitare il responso popolare inteso dai padri costituenti come succedaneo della condivisione dei 2/3 che in Parlamento non c’è o (il che è lo stesso) come integrazione di una condivisione parlamentare maggioritaria, ma considerata insufficiente.

Infatti, il referendum si è svolto in una situazione la cui anomalia i padri costituenti non erano certo in grado di prevedere. Nella logica dell’art. 138 il pronunciamento popolare è una valutazione di secondo grado che presuppone non solo un corretto svolgimento della procedura di approvazione in sede parlamentare, ma anche un decisore legittimato. Sennonché, l’attuale situazione rientra nel concetto più di emergenza che di normalità costituzionale. E ciò perché la maggioranza che ha approvato la revisione costituzionale è due volte dopata.

La prima volta, perché si è formata in seguito allo smottamento della rappresentanza parlamentare del partito di centro-destra che aveva affrontato l’ultimo test elettorale come alternativa del partito di cui è segretario il premier. La seconda volta, perché si è formata dentro un Parlamento eletto in base a regole di cui la Corte costituzionale (con sentenza del gennaio 2014) ha dichiarato la contrarietà ai principi fondamentali della democrazia rappresentativa. Se il trasformismo parlamentare corrisponde ad uno dei peggiori costumi del ceto politico, la seconda anomalia è estranea alla storia della Repubblica. In effetti, non era mai successo che una riforma costituzionale fosse approvata da un Parlamento dichiarato illegittimo nei modi della sua composizione.

Vero è che nell’inciso contenuto nella sua sentenza la Corte costituzionale ipotizza la persistenza del potere legislativo di un organismo malfatto, ma limitatamente (com’è ovvio) al disbrigo degli affari correnti in attesa del rinnovo elettorale. In vista del quale, nel timore che mancassero le maggioranze parlamentari la Corte ha disegnato il canovaccio di un avan-progetto di legge ispirato al proporzionalismo affinché il futuro Parlamento potesse diventare lo specchio del paese reale. Come dire che il Parlamento uscito dalle ultime elezioni era politicamente delegittimato a prendere decisioni di carattere eccezionale. A cominciare, per l’appunto, da quella di modificare la costituzione della quale la sua sola esistenza materializza la più clamorosa violazione.

Se avesse avuto un minimo di sensibilità democratica, avrebbe dovuto preoccuparsi di una sola cosa: varare una legge elettorale costituzionalmente corretta per poi essere sciolto e andare a nuove elezioni. Viceversa, non solo ha approvato una legge elettorale che appare visibilmente inficiata dagli stessi insanabili vizi attribuiti al Porcellum, come prevedibilmente risulterà dal processo costituzionale che si aprirà il 24 gennaio del prossimo anno. Si è spinta a dare un seguito al viatico del Lord protettore della Grande Riforma, Giorgio Napolitano rieletto Presidente della Repubblica, incamminandosi verso il cambiamento del sistema costituzionale. Pertanto, il quesito centrale del referendum era quello nascosto. Il popolo era sollecitato a manifestare la disponibilità a contraddire la Corte costituzionale che ha implicitamente, ma non oscuramente negato alla maggioranza governativa espressa da questo Parlamento la legittimazione a cambiare la costituzione.

Per quanto fosse inespressa, la domanda esprime una volontà eversiva. Infatti, se la risposta fosse stata affermativa, la massima vox populi vox dei avrebbe acquistato un significato assolutorio: in fondo, si chiedeva al popolo di perdonare un furto di democrazia. “Usare una maggioranza incostituzionale per cambiare la costituzione”, ha scritto Tomaso Montanari, è come entrare in una casa con una chiave duplicata illegalmente e, una volta dentro, cambiare la serratura”.

L’essersi il governo intestato la riforma quale paradigma della sua capacità riformatrice non poteva non introdurre un vizio di fondo della vicenda che avrebbe indotto la maggior parte dei cittadini a fare della votazione referendaria un’occasione per pronunciarsi pro o contro l’insieme delle politiche governative. Così è stato. Infatti, il referendum lo hanno vinto gli ultimi: masse di dimenticati e sacrificati, i quali per ciò stesso sono i meno adatti a concedere consensi. 

Il problema adesso non è solo che le giovani generazioni e le popolazioni del Sud non sanno come tradurre la vittoria in azione politica per incassarne i vantaggi. Il problema, come si desume dallo snodarsi degli inizi del dopo-referendum, è addirittura quello di essere riconosciuti come i veri vincenti. Se non la pensate come Alice nel paese delle meraviglie e, come la Duchessa, pensate invece che “ogni cosa ha la sua morale”, la troverete racchiusa in ciò che sto per riassumere.

Un giorno si dirà che l’esito del referendum non accorciò la distanza tra i cittadini e il sistema politico: soltanto, ne misurò l’enormità. Già ora però dovrebbe essere motivo di rimpianto che la Signora Storia sia una maestra senza discepoli. Infatti, ai commentatori sembra sfuggire che l’equivoca legalità che caratterizza la situazione attuale trasmette segnali del formarsi del clima crepuscolare che annunciava la fine della Repubblica di Weimar. 

Umberto Romagnoli

Umberto Romagnoli, già professore di Diritto del Lavoro presso l'Università di Bologna. Membro dell'Editorial Board di Insight.